Archivi del giorno: novembre 4, 2017

Il dilemma dei candidati al Sud

Testo 3

Discutere del programma – ha detto ieri il premier Gentiloni, seduto a fianco a Renzi sul treno del Pd: la pace è fatta – è un modo di discutere come presentarsi alle prossime sfide elettorali. Ed è sicuramente questa la vera discussione, che terrà banco nelle prossime settimane. Solo che riguarderà il profilo programmatico, che il Pd ha cominciato ad elaborare nel weekend di Pietrarsa, ma anche il più complicato risiko delle liste e dei candidati. E se non disponi della retorica a cinquestelle – sul garante che tutto infallibilmente sovrintende, sui candidati freschi e immacolati scelti dalla Rete, oppure sugli inflessibili contratti a prova di inciucio ai quali vincolare i futuri “portavoce” del Movimento –, se, soprattutto, devi andare contro il vento dell’antipolitica che diffida per principio di tutto ciò che sa di partito, allora non hai un compito facile.

In casa democrat hanno insomma i loro problemi, e la richiesta di Vincenzo De Luca, ieri, li ha evidenziati tutti. Con il Rosatellum, da un lato tornano i candidati uninominali; dall’altro ci sono liste bloccate. La qualità della rappresentanza politica è per questo affidata ancora una volta alle segreterie di partito. Quelli che: la preferenza è l’unico metodo dignitoso di selezione delle candidature storcono il naso. Ma siccome l’assunto non è vero – come dimostra il confronto con gli altri paesi europei – e siccome la legge ormai c’è (ed è difficile dire che era migliore quella di prima), meglio è fare bene il lavoro di composizione delle liste.

Qui sono cadute le parole del governatore: «si tengano presenti più i curricola dei candidati che i loro tutori politici delle diverse correnti di partito». Il ragionamento di De Luca è semplice: se passa l’idea che le liste del Pd sono fatte col manuale Cencelli; se le candidature recano troppo evidente il segno della sponsorizzazione politica del capocorrente, e nessun altro segno, allora si va a sbattere. Se invece si riuscirà a trasmettere il senso di un’apertura alla società civile, di una selezione fatta tenendo conto del merito e della qualità, allora ne beneficerà la credibilità complessiva dell’offerta politica e l’immagine del partito. E la partita dei collegi potrà essere vinta.

Sembra ovvio, ma non lo è affatto. Il Pd ha spinto per l’approvazione del Rosatellum nella convinzione che nei collegi uninominali i Cinquestelle saranno penalizzati dalla scarsa o nulla capacità coalizionale. Correranno da soli. Ma ora è possibile che la convergenza di più liste a sostegno dei candidati nei collegi uninominali si faccia intorno a portatori di voti, ad appartenenti a pezzi di ceto politico ormai usurato: invece di riceverne una spinta, il Pd rischierebbe di finire schiantato dal peso eccessivo di un personale politico compromesso.

È un antico dilemma, reale soprattutto al Sud. Chi prende più voti: la personalità illustre, o il notabile? È chiaro che quanto più è forte il voto di opinione, tanto meno forte è il voto clientelare. Ma è chiaro pure che, essendosi fatto più volatile il voto di opinione, più forte è la tentazione di non rinunciare al peso delle clientele, per quanto esso si sia visibilmente, negli anni, consumato.

Si guardi infatti all’attuale Parlamento, l’ultimo esempio che il Pd ha sotto gli occhi: non v’è alcun dubbio che i democratici hanno profondamente rinnovato la loro rappresentanza ma, si potrebbe aggiungere, sta lì una delle ragioni perché l’allora segretario Bersani, entrato col vento in poppa nella campagna elettorale, ha finito col «non vincerle». Evidentemente scegliere un bel po’ di candidati di primo pelo, invece di qualche vecchio volpone, non ha pagato.

Ancor meno paga però la rissosità interna al partito, per ragioni varie e diverse il vero leit motiv di questi ultimi mesi in casa Pd. Se ora si riaccendesse sulla conta dei candidati – di Renzi, di Orfini, di Franceschini, di Orlando e così via – De Luca avrebbe completamente ragione: il Pd si destinerebbe da solo alla sconfitta. E le parole usate da Gentiloni ieri insistevano proprio su questo: non si vince se ci si divide. Le baruffe non pagano. Siccome però la divisione a sinistra si è prodotta già, e non è recuperabile, non resta che evitare nuove baruffe, per esempio sulle liste. E resta a Renzi di provare ad allargare il campo, non più a restringerlo, come Gentiloni ha provato a dire con la più soft delle critiche possibili. Per il premier, la leadership di Renzi non è assolutamente in discussione, ma le modalità del suo esercizio forse sì.

(Il Mattino, 29 ottobre 2017)

Il prezzo alto di una strategia all’attacco

Testo 2

La giornata politica ha regalato tre fatti di grande rilievo: primo, l’approvazione definitiva della nuova legge elettorale; secondo, la decisione del presidente del Senato Piero Grasso di lasciare il gruppo del partito democratico; terzo, l’indicazione, da parte del governo, per il secondo mandato alla guida della Banca d’Italia, del governatore uscente Ignazio Visco, nonostante il diverso avviso del Pd. I primi due fatti sono collegati fra di loro, perché Grasso ha solo atteso che si concludesse l’iter di approvazione del Rosatellum prima di compiere una scelta già maturata nei mesi scorsi; il terzo no, ma ha comunque un denominatore comune, perché chiama in causa la linea politica con la quale Renzi ha scelto di andare alle prossime elezioni. Dopo la giornata di ieri, infatti, è facile misurare la distanza del segretario del partito democratico dai massimi vertici istituzionali del Paese: i presidenti delle due Camere, Grasso e Boldrini, non si candideranno (se si candideranno) nelle file del principale partito di maggioranza: salvo errori, non era mai accaduto che una legislatura si concludesse con un esito del genere. Con la sortita su Bankitalia, si è prodotta una certa freddezza fra Renzi e il Quirinale, che di sicuro non ha gradito la mozione parlamentare su Visco presentata dal Pd; e ora che Gentiloni è andato dritto per la sua strada, anche con il presidente del Consiglio l’allineamento non è perfetto. Ovviamente non mancano le attestazioni di stima reciproca, né, a quanto pare, sono in discussione i rapporti personali, però se il sistema bancario continuerà ad essere, nelle prossime settimane, un tema di confronto politico, oggi sappiamo che non sarà Gentiloni e l’attuale governo a interpretare la linea del partito.

Distanza dai vertici istituzionali, autonomia rispetto alle decisioni assunte dal governo: con lo schema di gioco adottato, Renzi sembra voler rinunciare all’andatura compassata che i partiti di maggioranza di solito tengono, anche in prossimità del voto, e interpretare all’attacco, e da solo sul palcoscenico, la prossima campagna elettorale, con quella forte impronta personale che è nelle corde del segretario dem. È fin troppo chiaro, infatti, che il Pd non sarà, in campagna elettorale, il partito di Renzi e Gentiloni: sarà il partito di Renzi. Così come è chiaro che i risultati da presentare a giudizio dell’elettorato non saranno i risultati dei governi Renzi e Gentiloni: saranno i risultati conseguiti nel corso della legislatura dal Pd, il cui segretario è Matteo Renzi. Una strategia del genere va messa ovviamente alla prova dei fatti (cioè delle urne), ma va intanto spiegata nei suoi termini politici. E in termini politici: non v’è alcun dubbio che sia stata la forza di Renzi a consentire la prosecuzione di una legislatura, nata sghemba e precaria, fino al suo termine naturale.  È però la stessa forza che a sinistra ha prodotto continue lacerazioni. È facile supporre che se il referendum del 4 dicembre avesse avuto un esito diverso, la diaspora sarebbe stata contenuta; dopo la sconfitta referendaria, invece, sia all’interno delle istituzioni che nel partito si sono scavati fossi, intorno a Renzi. Tuttora, però, è difficile misurare peso e proposta politica alla sinistra del Pd se non in relazione a quel che Renzi fa o non fa, a dimostrazione che se Renzi pecca per eccesso, gli altri peccano assai per difetto.

Ma in politica vale il motto del riformatore Lutero: pecca fortiter, sed crede fortius. Pecca pure fortemente, ma abbi ancora più fiducia. Per smuovere le acque e giocare di rottura, non c’era altro modo. Per portare la sinistra fuori dal suo steccato tradizionale non c’era altra strada. Così dunque si è mosso Renzi: questa era la sua scommessa nel 2014 e questa è la sua scommessa anche adesso. E come nel 2014 Renzi non ne volle sapere di fare le europee dietro a Enrico Letta presidente del Consiglio, così questa volta non eviterà certo lo scivolamento di Gentiloni in secondo piano. I rapporti sono diversi, e diverso pure il contesto e il momento politico: e infatti quel governo cadde e questo rimane in piedi. Ma uguale è l’esigenza di Renzi di giocare la partita da prima punta, tutta davanti. Se saranno uguali anche i risultati è più difficile a dirsi. Oggi la partita è molto più complicata. Se poi il voto siciliano, fra dieci giorni, dovesse sospingere il pd troppo indietro, allora si farebbe ancora più dura. Renzi ha voluto tenersi alla larga dall’isola, e infatti il suo treno non varcherà lo stretto. Ma se il Pd perde di brutto ci vorrà un attimo a leggere le regionali siciliane in chiave nazionale: quanto più si deideologizza il voto, tanto più lo si lega alle aspettative di successo o di insuccesso. E su quelle, qualunque cosa se ne vorrà dire, il risultato siciliano peserà.

(Il Mattino, 27 ottobre 2017)

Se il Paese diventa una piccola patria e il Sud non parla

Testo 1

Se il Nord è federalista, il Sud cos’è? ll referendum consultivo di domenica in Lombardia e Veneto sta producendo i suoi effetti politici, all’interno della stessa Lega e nel dibattito politico nazionale. Dove invece non sembra produrre né un nuovo regime discorsivo, né fatti politicamente rilevanti è nel Mezzogiorno. Che non riesce ad essere né oggetto di confronto politico, terreno di scontro fra idee diverse di Paese e del suo sviluppo, né soggetto politico autonomo, con una propria visione dell’interesse generale e del modo in cui gli interessi della società meridionale si inseriscono nel tessuto dello Stato nazionale. Eppure non c’è tema più decisivo di questo, e non può essere la polverosità della vecchia questione meridionale a spiegare il silenzio e l’eclissi di uno dei nodi fondativi della Repubblica. È se mai la debolezza della sua classe dirigente, ormai culturalmente impreparata per pensarsi in ruolo diverso da quello della mera gestione delle risorse.

Al Nord, il voto referendario dà forza e visibilità al rinculo che la globalizzazione, minando vecchie sicurezze e identità e generando nuove paure, produce nei diversi territori spazzati in questi anni dal vento della crisi. Al Sud non ci sono scosse, o almeno: la politica non ha più le antenne per avvertirle e tradurle in energie suscitatrici di nuove idee e nuovi orientamenti. Il governatore Zaia, può così liberamente citare l’articolo 116 della Costituzione per chiedere per il suo Veneto condizioni particolari di autonomia, e dimenticare disinvoltamente di citare, perché nessuno glielo ricorda, l’articolo 119, in cui si parla di rimozione degli squilibri, di coesione e di solidarietà, così come di risorse aggiuntive e di interventi speciali a favore dei comuni, delle province e  delle regioni più arretrate. Perché il federalismo è una possibile forma che lo Stato unitario può assumere, non la sua disarticolazione o il suo smantellamento. Proprio per questo ha bisogno, per funzionare, che funzionino sia le istituzioni locali che le istituzioni centrali. Non solo le une o solo le altre, e soprattutto non le une a scapito delle altre. La prima condizione per fare uno Stato federale è avere uno Stato forte, con una chiara idea dell’interesse nazionale ed un forte senso della coesione territoriale, e invece da noi la confusa propaganda leghista, che ha mescolato insieme un regionalismo spinto, un autentico federalismo e perfino una dirompente quanto velleitaria voglia di secessione, ha lasciato credere che ripensare l’ordinamento dello Stato significasse tenere per sé i denari e non versare più un centesimo a Roma. Il pasticciato titolo V della Costituzione confezionato dal centrosinistra qualche legislatura fa ha fatto il resto.

Ma per un discorso del genere, credibile e autorevole, ci vogliono gli interpreti giusti, tanto più dopo che la strada della riforma costituzionale è stata preclusa dal risultato del referendum dello scorso 4 dicembre. E siamo così al dunque: il tema della risistemazione dei diversi livelli di governo trova al Nord chi lo raccoglie e lo rilancia, mentre non c’è una sola figura in grado di riproporlo dal Mezzogiorno. Una cosa del genere non la si fa con i rapporti dei centri studi e neanche soltanto con le politiche ad essa dedicate da un ministero ad hoc, che pure – va detto – sta operando con grande solerzia. La si fa invece se c’è una soggettività che sia in grado di intestarsi una battaglia politica, di forgiare un lessico nuovo, di farne una grande questione ideologica (chiedo scusa: di costruirci una nuova narrazione, oggi si dice così).

È una constatazione che non può non essere fatta: il centrosinistra governa tutte le regioni del Mezzogiorno, ma non è riuscito a trasformare questo dato in un fatto vero, massivo, in grado di incidere sugli orientamenti culturali, politici, ideali, non solo programmatici del Paese. Cosa offre il panorama meridionale, oggi? Che cosa ha da dire al resto d’Italia? Sul piano amministrativo, a bilancio vanno i risultati modesti di regioni come la Calabria o la Basilicata, l’imbarazzo siciliano del caso Crocetta, aver governato col quale non sembra sia il miglior viatico per affrontare le prossime elezioni di novembre, e l’inconcludente arruffio populista di Emiliano in Puglia. Rimane la Campania. E qui l’impressione è che De Luca non sia voluto andare, o non sia riuscito ad andare, oltre la dimensione locale. Che abbia continuato a pensarsi come sindaco, in rapporto stretto con la sua comunità, ma senza capacità di proiezione nazionale. Eppure guida la più importante regione del Sud. Eppure può vantare numeri  importanti (si vedano gli ultimi dati sulla crescita occupazionale in Campania, praticamente al passo con la Lombardia). Eppure gode tuttora di una popolarità ampia. Ma tutto questo non ha prodotto uno scatto sul piano politico. Prova ne è il modo in cui De Luca ha di fatto rinunciato a scostarsi dal suo personaggio, lasciando che a parlare per lui fosse la sua imitazione. Che va in onda sui canali nazionali, mentre lui si accontenta di parlare da una piccola tv locale. La conseguenza è che ancora una volta del Sud offriamo al Paese solo una maschera, una caricatura, non un interprete, un protagonista. Ma il nanismo politico si paga, e il Mezzogiorno rischia di fare soltanto da comparsa, senza riuscire ad imporre la questione del suo sviluppo e della riduzione del divario dal Nord come la vera questione intorno a cui ripensare senso e funzioni dello Stato nazionale.

(Il Mattino, 25 ottobre 2017)