Discutere del programma – ha detto ieri il premier Gentiloni, seduto a fianco a Renzi sul treno del Pd: la pace è fatta – è un modo di discutere come presentarsi alle prossime sfide elettorali. Ed è sicuramente questa la vera discussione, che terrà banco nelle prossime settimane. Solo che riguarderà il profilo programmatico, che il Pd ha cominciato ad elaborare nel weekend di Pietrarsa, ma anche il più complicato risiko delle liste e dei candidati. E se non disponi della retorica a cinquestelle – sul garante che tutto infallibilmente sovrintende, sui candidati freschi e immacolati scelti dalla Rete, oppure sugli inflessibili contratti a prova di inciucio ai quali vincolare i futuri “portavoce” del Movimento –, se, soprattutto, devi andare contro il vento dell’antipolitica che diffida per principio di tutto ciò che sa di partito, allora non hai un compito facile.
In casa democrat hanno insomma i loro problemi, e la richiesta di Vincenzo De Luca, ieri, li ha evidenziati tutti. Con il Rosatellum, da un lato tornano i candidati uninominali; dall’altro ci sono liste bloccate. La qualità della rappresentanza politica è per questo affidata ancora una volta alle segreterie di partito. Quelli che: la preferenza è l’unico metodo dignitoso di selezione delle candidature storcono il naso. Ma siccome l’assunto non è vero – come dimostra il confronto con gli altri paesi europei – e siccome la legge ormai c’è (ed è difficile dire che era migliore quella di prima), meglio è fare bene il lavoro di composizione delle liste.
Qui sono cadute le parole del governatore: «si tengano presenti più i curricola dei candidati che i loro tutori politici delle diverse correnti di partito». Il ragionamento di De Luca è semplice: se passa l’idea che le liste del Pd sono fatte col manuale Cencelli; se le candidature recano troppo evidente il segno della sponsorizzazione politica del capocorrente, e nessun altro segno, allora si va a sbattere. Se invece si riuscirà a trasmettere il senso di un’apertura alla società civile, di una selezione fatta tenendo conto del merito e della qualità, allora ne beneficerà la credibilità complessiva dell’offerta politica e l’immagine del partito. E la partita dei collegi potrà essere vinta.
Sembra ovvio, ma non lo è affatto. Il Pd ha spinto per l’approvazione del Rosatellum nella convinzione che nei collegi uninominali i Cinquestelle saranno penalizzati dalla scarsa o nulla capacità coalizionale. Correranno da soli. Ma ora è possibile che la convergenza di più liste a sostegno dei candidati nei collegi uninominali si faccia intorno a portatori di voti, ad appartenenti a pezzi di ceto politico ormai usurato: invece di riceverne una spinta, il Pd rischierebbe di finire schiantato dal peso eccessivo di un personale politico compromesso.
È un antico dilemma, reale soprattutto al Sud. Chi prende più voti: la personalità illustre, o il notabile? È chiaro che quanto più è forte il voto di opinione, tanto meno forte è il voto clientelare. Ma è chiaro pure che, essendosi fatto più volatile il voto di opinione, più forte è la tentazione di non rinunciare al peso delle clientele, per quanto esso si sia visibilmente, negli anni, consumato.
Si guardi infatti all’attuale Parlamento, l’ultimo esempio che il Pd ha sotto gli occhi: non v’è alcun dubbio che i democratici hanno profondamente rinnovato la loro rappresentanza ma, si potrebbe aggiungere, sta lì una delle ragioni perché l’allora segretario Bersani, entrato col vento in poppa nella campagna elettorale, ha finito col «non vincerle». Evidentemente scegliere un bel po’ di candidati di primo pelo, invece di qualche vecchio volpone, non ha pagato.
Ancor meno paga però la rissosità interna al partito, per ragioni varie e diverse il vero leit motiv di questi ultimi mesi in casa Pd. Se ora si riaccendesse sulla conta dei candidati – di Renzi, di Orfini, di Franceschini, di Orlando e così via – De Luca avrebbe completamente ragione: il Pd si destinerebbe da solo alla sconfitta. E le parole usate da Gentiloni ieri insistevano proprio su questo: non si vince se ci si divide. Le baruffe non pagano. Siccome però la divisione a sinistra si è prodotta già, e non è recuperabile, non resta che evitare nuove baruffe, per esempio sulle liste. E resta a Renzi di provare ad allargare il campo, non più a restringerlo, come Gentiloni ha provato a dire con la più soft delle critiche possibili. Per il premier, la leadership di Renzi non è assolutamente in discussione, ma le modalità del suo esercizio forse sì.
(Il Mattino, 29 ottobre 2017)