Archivi del giorno: novembre 5, 2017

Sicilia, un test per l’Italia

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Musumeci, Cancelleri, Micari, Fava: quattro nomi per quattro storie politiche e personali molto diverse le une dalle altre. Non è facile immaginare come si comporrà il puzzle siciliano all’indomani del voto. Ma le domande che alla viglia bisogna farsi sono queste:

Chi vincerà?

I sondaggi non lasciano adito a dubbi: la partita è fra Musumeci e Cancelleri, centrodestra e Cinquestelle. Finché sono stati diffusi, i sondaggi hanno sempre dato in vantaggio il candidato di Meloni, Salvini e Berlusconi, anche se i rumors dicono oggi che le distanze si sono accorciate. Nel centrosinistra si gioca una partita diversa: Micari, il candidato renziano, non ha possibilità di arrivare davanti agli altri due, ma deve assolutamente lasciarsi alle spalle il candidato della sinistra, Claudio Fava. Un risultato diverso equivarrebbe per il centrosinistra al rompete le righe.

Chi governerà?

Se la vittoria è una partita a due, più complicata è la partita per il governo della regione. La legge elettorale assegna infatti un piccolo premio di maggioranza, con ogni probabilità insufficiente ad assicurare ad uno schieramento una navigazione tranquilla nell’Ars, l’assemblea regionale siciliana. Le elezioni rischiano perciò di aprire una stagione di ingovernabilità, e invero non solo per via di un sistema proporzionale e di un premio che non è «majority assuring», ma anche perché la fine del bipolarismo costringe i diversi schieramenti a immaginare accordi «contro natura». Dopo il voto, se dovesse toccare al centrodestra la presidenza della regione, e se la sua maggioranza non fosse autosufficiente, Musumeci si rivolgerà al Pd? E riuscirà a tenere insieme tutti i pezzi della sua coalizione, aprendo verso il centro e la sinistra? Stessa domanda per Cancelleri: detto che è quasi impossibile che arrivi a quota 36 seggi, a chi chiederà una mano per governare? Lui, che ha il profilo del grillino di sinistra, avrà un lasciapassare dalle liste che si raccolgono intorno a Fava? Basterà? Bisogna ipotizzare governi di minoranza? E con quale capacità di fare, su basi politiche così fragili, la rivoluzione promessa? Il rischio è la paralisi, che la Regione Sicilia può correre proprio quando ci vorrebbe il massimo di forza politica per affrontare una situazione della cosa pubblica drammatica, prossima al fallimento.

Qual è lo stato di salute del centrodestra siciliano?

In regime di elezione diretta del Presidente, in Sicilia il centrodestra ha governato prima con Cuffaro e poi con Lombardo per oltre un decennio, fino alla clamorosa vittoria di Rosario Crocetta. Ma la vittoria di Crocetta è stata anzitutto il harakiri del centrodestra, che alle scorse elezioni si presentò spaccato in due: da una parte il «Grande Sud» di Gianfranco Micciché, dall’altra il Popolo della Libertà con Musumeci. Insieme, le due metà del centrodestra sfiorarono il 45%. Crocetta divenne presidente della Regione con poco più del 30% (di qui la gran parte dei problemi di tenuta della sua esperienza di governo). Questa volta invece a Musumeci è riuscito di avere tutti con sé (con Miccicché nel listino del Presidente), e anzi di rosicchiare anche parte del consenso centrista e moderato che nel 2012 aveva scelto Crocetta. Merito suo, e demerito del centrosinistra siciliano. Ma merito soprattutto del mutato quadro nazionale, che spinge in direzione di una ricomposizione fra forze che fino a ieri sembravano marciare lungo traiettorie incompatibili.

Qual è lo stato di salute del centrosinistra siciliano?

Crocetta: il megafono. La sua lista si presentava, nel 2012, addirittura con un simbolo grillino: la voce della gente, il populismo e l’onestà. Dopodiché però il governo regionale è un’altra cosa, e la voce di quel megafono si è fatta però sempre più fioca. I magri risultati e l’usura politica della frastagliata coalizione che lo ha sostenuto lo hanno messo fuori gioco. Preso atto della situazione, Crocetta ha accettato di farsi da parte. Ormai in prossimità della sconfitta, il centrosinistra ha fatto un passo indietro, indicando un candidato della società civile, il rettore dell’Università di Palermo Micari, sponsorizzato in primis dal sindaco del capoluogo, Leoluca Orlando. Una mossa simile è stata fatta in realtà dal Pd più volte in questi anni, in giro per l’Italia: supplenze e surroghe in attesa di tempi migliori. Civismo per deficit di politica. Per giunta, questa volta è mancato anche un forte impegno dei vertici nazionali: sfida dal sapore regionale, ha detto Renzi, che ha evitato i comizi finali. Ma circoscrivere il significato del voto siciliano non sarà facile, soprattutto se Fava, il candidato di tutto quello che c’è alla sinistra del Pd, dovesse arrivare davanti a Micari. Fava, politico di lungo corso, era già candidato nel 2012: poi il pasticcio della mancata residenza in Sicilia lo costrinse a mollare. Le liste che portavano il suo nome ottennero un misero 6%. Qualunque risultato a doppia cifra sarebbe ovviamente un buon successo, e potrebbe avere un peso nel determinare i futuri equilibri in seno all’Ars. Se poi arrivasse davvero più su del candidato piddino, allora rischierebbe di scatenare il big bang del centrosinistra.

Qual è lo stato di salute dei Cinquestelle?

Cancelleri sembra avere il vento in poppa. Ogni tanto capita un incidente: le firme false, le espulsioni e i ricorsi, l’assessore in pectore che vuol bruciare vivo il capogruppo Pd Rosato e così via. Quisquilie, quinzillacchere. Questi infortuni non sembrano costituire vere pietre d’inciampo per il popolo grillino, che marcia unito in vista del voto, consapevole dell’importanza della posta in palio. I problemi se mai verranno dopo, se si dovesse vincere, ma le elezioni nazionali sono così vicine che l’unico riflesso che si potrà registrare a Roma sarà la crescita del Movimento. Cancelleri potrà forse diventare una nuova Raggi, prigioniero di una situazione prossima all’ingovernabilità, ma non è cosa di cui il Movimento ha da preoccuparsi di qui alla primavera prossima. Perciò Di Maio e Di Battista hanno più di tutti gli altri leader nazionali attraversato volentieri lo Stretto. Non a nuoto, come Grillo la volta scorsa, ma con un investimento politico altrettanto forte.

Quali indicazioni per la politica nazionale?

Primo: il voto in Sicilia aiuterà a capire se la ritrovata unità del centrodestra è qualcosa in più di una risorsa elettorale. Berlusconi, Meloni e Salvini hanno cenato insieme, ma hanno tenuto comizi separati. Arancini sì, strette di mano in favore di pubblico ancora no. La linea di Salvini continua in effetti ad essere incompatibile con prospettive di appeasement con il centrosinistra, o anche solo con i pezzi del moderatismo centrista che in Sicilia contano pur qualcosa. Bisognerà vedere se un eventuale successo elettorale darà o no un’ultima spinta all’accordo nazionale. Secondo: se sarà Presidente Cancelleri, sarà interessante capire con chi cercherà di formare il governo. Il voto siciliano diventerebbe infatti la prima prova di un governo Cinquestelle non monocolore. Sia il Pd che, soprattutto, la sinistra, potrebbero essere tentati di dare una mano per contenere la destra. Senza dire dei fenomeni trasformistici che in Sicilia sono pane quotidiano. Anche quello sarà un terreno di prova: prevarrà l’intransigenza morale o il realismo politico? Comunque vada, è chiaro che la Sicilia farà per prima l’esperienza delle enormi difficoltà del tri- o quadripolarismo italiano.

Quali ripercussioni in casa Pd?

Mentre le altre forze politiche non hanno al momento grossi problemi interni, perché le relative leadership non sono in discussione, in casa democrat non si perde occasione per riproporre il tema: nonostante il congresso, nonostante le primarie. Per la verità è così fin dalla fondazione del Pd: sia Veltroni (da D’Alema) che Bersani (da Renzi) che da ultimo Renzi (prima da D’Alema e Bersani, ora da Orlando e Franceschini) han dovuto misurarsi con un lavorìo di logoramento iniziato fin dal giorno del loro insediamento. Per Renzi, quel lavorìo è cresciuto di intensità dopo la sconfitta referendaria. Una debacle in Sicilia sarebbe il segnale per un nuovo assalto. E rinfocolerebbe i propositi di chi ne trarrebbe dimostrazione per allargare a sinistra la coalizione nazionale. Sacrificando Renzi. Orlando, leader della minoranza, lo ha detto fin d’ora: prima il voto in Sicilia, poi il candidato premier. Ha così legato le due cose che Renzi invece tiene separate. Sarà il voto di domenica a decidere se prevarrà una linea o l’altra: se il centrosinistra ne uscirà politicamente indenne, o se le urne siciliane ne determineranno l’ennesima trasformazione.

(Il Mattino, 4 novembre 2017)

Il processo senza difesa

Testo 5

Non nascondiamoci dietro un dito: la nuova indagine accesa a Firenze a carico di Silvio Berlusconi è una enormità, e il fatto che non sia la prima volta che il Cavaliere sia tirato dentro la storia delle stragi mafiose dei primi anni Novanta suona come un’aggravante: non certo per Berlusconi, ma per il giudizio che va reso su questo nuovo materiale, e sul modo in cui si ripresenta sulla scena pubblica, a meno di una settimana dalle elezioni siciliane.

Certo, ci sono le intercettazioni, che fanno sobbalzare. Ma si tratta delle parole che un mafioso pronuncia in carcere e che tuttavia, secondo la Procura di Firenze, meritano opportuni approfondimenti, perché riguarderebbero nientemeno che l’ex premier. Ora, si facciano pure tutti gli accertamenti del caso, ma si sappia bene quello che si sta accertando, e che nel frattempo, accertamento o no, viene dato in pasto all’opinione pubblica: le confidenze di un padrino, già condannato per le stragi, che si prende la libertà di chiacchierare con un altro recluso, durante l’ora d’aria. E in una situazione simile, c’è qualcosa che Graviano non direbbe, dovrebbe riservarsi di non dire, mentre passeggia in carcere? Ovviamente no. E c’è modo di difendersi dalle sue illazioni? Nemmeno. Perché Graviano può dire quel che vuole, e la Procura che gli sta dietro può fare ciò che vuole delle dichiarazioni carpite. Così si riaprono fascicoli che erano già stati archiviati, e, a un anno di distanza dal tempo in cui le intercettazioni sono state effettuate (un anno!), il Cavaliere finisce nuovamente nel registro degli indagati. Gli avvocati intervengono e protestano la totale estraneità di Berlusconi, i giornalisti usano il condizionale e mettono ogni prudenza nel riferire la nuova iniziativa della Procura, ma intanto  la parola “Berlusconi” e la parola “mafia” compaiono nella stessa riga, formano un’unica notizia. È da questo che non c’è modo alcuno, per il leader del centrodestra, di difendersi. Un pregiudizio negativo è già disponibile, e la nuova inchiesta non deve far altro che rimetterlo in circolo.

Non vengono portati alla luce fatti nuovi: bastano le parole. Le parole di per sé richiedono un approfondimento. E l’approfondimento di per sé produce i suoi effetti: politici, non processuali. Effetti nello spazio pubblico, non nelle aule giudiziarie.

Il gioco è fatto. Il gioco che si gioca ormai da decenni, e che ruota attorno  al nodo irrisolto dell’uso politico della giustizia, di un dibattito intossicato da iniziative della magistratura. Non importa quanto sia credibile questa idea che Berlusconi pianifichi con i capi mafia una strategia politica a suon di bombe, per preparare la sua discesa in campo; è sufficiente che circoli, che per qualcuno valga come una narrazione possibile della storia d’Italia, fatta di manovre oscure, di illecite complicità, di compromessi con i poteri criminali, per gettare discredito, ed erodere consenso.

Non siamo il Paese delle stragi impunite? Cosa costa scrivere un nuovo capitolo, o meglio riscriverlo a seconda delle esigenze del momento?

“Puntualmente, a ridosso di una competizione elettorale, arriva la notizia di una nuova indagine nei confronti di Silvio Berlusconi”, ha dichiarato il suo avvocato, Ghedini. Francamente, non riesco a dargli torto.  O forse Ghedini un torto ce l’ha: chiama nuova indagine il rimestare vecchie storie, mai comprovate da fatti, ma sempre riproposte attraverso libere parole di personaggi di cui non è impossibile pensare che siano manovrati, o che semplicemente sappiano loro stessi manovrare. Ha le prove, Ghedini, per affermare quanto afferma?  Non le ha, e come potrebbe averle, del resto? Le avrà quando ci sarà la futura archiviazione. Ma il giustizialista con la bava alla bocca può dire, fino a quella data: e come si può sapere che anche questa volta finirà con l’archiviazione? La distorsione sta così in ciò, che le prove si richiedono a Ghedini, a Berlusconi, non certo all’accusa. Perché qui un’accusa non occorre nemmeno formularla: basta che la vicenda stia sui giornali, e che dell’avvocato difensore si possa dire che fa il suo mestiere, cosa volete che faccia? Intanto, però, al telegiornale passano le immagini del capomafia in carcere, e i telespettatori leggono “Berlusca” sotto quelle immagini: cosa si vuole di più?

Si vorrebbe una campagna elettorale non inquinate da simili exploit, un Paese che non costruisca il proprio spazio pubblico con i fogli delle Procure, una magistratura meno disponibile a così smaccate invasioni di campo, un’Italia in cui non siano i boss della mafia ad avere una incredibile centralità politica. Si vorrebbero infine dichiarazioni non di avvocati e compagni di partito, ma di avversari politici, che facciano capire come queste narrazioni hanno stancato e nessuno gli va più dietro.

Ma sappiamo già che non è così, che ci attendono paginate di ricostruzioni più o meno fantasiose, e magistrati pronti a scendere in campo, a mettere a disposizione le loro competenze, e cioè il loro spirito inquisitorio, per  raccontare ancora una volta chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Povera Italia.

(Il Mattino, 1° novembre 2017)

La campagna elettorale delle alleanze simulate

Testo 4
L’onestà dei Cinquestelle e l’esperienza della Lega: così la mette Salvini, e in effetti non v’è chi non veda le somiglianze, quando non le affinità, fra la Lega e il Movimento di Beppe Grillo. Somiglianze e anzi affinità ricercate, se il leader della Lega Nord risponde all’insulto di Grillo (“Salvini è un poveraccio”) non con un vaffa, ma con cortesissime avances: se nel voto non vince nessuno il primo a cui telefono è Grillo. Loro onesti, noi esperti, ha detto: il giusto mix.
E siccome i rapporti di forza sono oggi tali, che la sera delle elezioni è quasi impossibile che ci sia un unico vincitore, possiamo supporre fin d’ora che Salvini quella telefonata la farà. O almeno: è chiaro fin d’ora che la vuole fare, che non ha alcun imbarazzo a telefonare a Grillo, perché sa che sui temi sui quali la Lega costruisce il suo consenso – dall’immigrazione alle piccole imprese, passando per le pensioni e la critica a Bruxelles – non vi sono distanze incolmabili, piuttosto convergenza di vedute. Sono due populismi che pescano nello stesso elettorato, che attingono agli stessi serbatoi del risentimento, che nutrono gli stessi obiettivi polemici e condividono le stesse paure.
Ma non stanno dalla stessa parte. Il caso vuole che la Lega sia alleata con Forza Italia, mentre i Cinquestelle corrono da soli, oggi in Sicilia e domani in tutta Italia. Certo, la vicinanza delle elezioni siciliane è probabilmente la causa immediata delle parole di Salvini, che non vuole lasciare ai grillini la bandiera del partito anti-sistema. Ma il 5 novembre passa presto, mentre la questione resta: che genere di alleanza è quella che unisce la Lega a Forza Italia? La legge elettorale incentiva la formazione di coalizioni nella quota di seggi attribuita con il sistema uninominale. Ma quella quota difficilmente si convertirà in una maggioranza parlamentare, così  non è detto affatto che il giorno dopo gli eletti della Lega si troveranno insieme ai colleghi di Forza Italia, perché Berlusconi non ha nessuna voglia (e nessuna possibilità) di rivolgersi ai Cinquestelle, mentre Salvini non ha nessuna voglia (e nessuna possibilità) di rivolgersi a Renzi o ai centristi di Alfano.
Quel che dunque si profila è una complicatissima partita in Parlamento, il cui fischio d’inizio sarà però  fischiato solo un minuto dopo il voto, quando con ogni probabilità saranno sciolte le squadre che avranno partecipato alla partita di prima, quella che si gioca in campagna elettorale. Nella democrazia mediata della prima Repubblica, era chiaro che una maggioranza poteva formarsi solo in Parlamento: il proporzionale non consentiva agli elettori di conoscere prima quale formula politica sarebbe stata adottata dopo il voto. Nella seconda Repubblica, per quanto imperfetto fosse il sistema maggioritario adottato, e diffusi i cambi di casacca, si andava invece al voto per scegliere insieme una coalizione e un governo. Nella condizione attuale, non abbiamo né il primato della mediazione parlamentare né quello della immediata espressione popolare. Con le coalizioni presenti sulla quota uninominale, si finge di scegliere una maggioranza, ma è appunto solo una finzione, perché non solo non vi sono veri vincoli fra le forze che lo compongono, ma si conosce già la forza con la quale la necessità di dare un governo al Paese premerà per la loro disarticolazione.
In realtà, è già andata così la volta scorsa, nel 2013: né a destra né a sinistra hanno resistito gli schieramenti con cui ci si era presentati agli elettori. Fin da subito il centrosinistra ha perso pezzi alla sua sinistra e il centrodestra ha perso pezzi alla sua destra. Forza Italia è andata al governo (con Letta), la Lega no. E dall’altra parte: il Pd è andato al governo (con Letta, poi con Renzi e Gentiloni), Sinistra e Libertà no. La novità, questa volta, è che la parvenza di una coalizione che si candidi a governare è già venuta meno, con le parole di Matteo Salvini di ieri, ancor prima che inizi la campagna elettorale. Il centrodestra appare così fin d’ora come una sorta di accordo tattico, non politico. Questione di tecnica elettorale, insomma. Politicamente parlando, Salvini ammette di potersela intendere più facilmente con gli altri populisti, i grillini, che non con centristi e moderati, tantomeno con i democratici. E ci tiene a dirlo subito, fin da adesso, perché non vuole essere confuso con i suoi alleati.
E dunque il vero problema del Rosatellum non è che è passato a colpi di fiducia, o che non ci sono le preferenze. È che, a quanto pare, non aiuta i partiti a disporsi secondo le linee di fratture reali che attraversano il campo della politica oggi, e anzi confonde le acque. Il Rosatellum consente alla Lega di fare la Lega antisistema anche se fa accordi con Forza Italia. Due parti in commedia. Ed è possibile che qualcosa del genere si produca persino a sinistra, dove pure la scissione ha scavato solchi profondi. Ma non abbastanza profondi perché non si stia pensando a desistenze elettorali e altri complicati escamotage tecnici.
Né mediata grazie a chiari accordi parlamentari, né immediata grazie a chiari mandati popolari, la democrazia che avremo sarà probabilmente ancora più confusa nelle sue ragioni e nelle sue fondamenta politiche di quanto già non sia. Non avrà vita facile.
(Il Mattino, 31 ottobre 2017)