Archivi del giorno: novembre 22, 2017

La sinistra rissosa in cerca d’autore

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Il fuoco di sbarramento contro l’iniziativa presa dal partito democratico dopo l’ultima direzione si è alzato subito, appena la proposta ha cominciato ad assumere qualche consistenza. È bastato che andasse bene l’incontro fra il mediatore del Pd, Piero Fassino, e Giuliano Pisapia, e che quest’ultimo rendesse noto l’incoraggiamento ricevuto da Romano Prodi, perché dall’altra parte della barricata si sentissero le voci in dissenso di Mdp e di Sinistra Italiana. Per loro, la partita è chiusa e non c’è appello all’unità che tenga. Nessuna preoccupazione per una vittoria del centrodestra può giustificare la fine delle ostilità con il Pd. E non basta neppure mettere a verbale che non c’è alcun premier in pectore della costruenda coalizione per indurre i fuoriusciti del Pd, e le altre formazioni di sinistra, a trovare un accordo prima del voto.

Dopo il voto, casomai: così ha lasciato intendere Bersani, invitando a leggere la legge elettorale. «Non vince nessuno, ci si ritrova comunque in Parlamento», ha detto. Ed è una dichiarazione per un verso banale, ma per altro verso rivelativa. Banale in primo luogo, perché fotografa una realtà a tutti nota: la probabilità che in Parlamento arrivi una maggioranza autosufficiente, omogenea e coesa è molto bassa, per non dire nulla. La spinta a convergere su candidati comuni nei collegi uninominali è, così, troppo debole, mentre è più allettante la prospettiva di avere un peso determinante nei complicati giochi parlamentari che seguiranno, compreso un’eventuale governo a cinque stelle. Ma la dichiarazione è anche rivelativa di una collocazione tattica, cioè semplicemente temporanea, di qui alle elezioni, da parte di Bersani e compagni. Come, del resto, potrebbe essere altrimenti? Salvo ragioni anagrafiche (che valgono per i più giovani) a guidare Mdp ci sono quelli che hanno votato le riforme del lavoro, dal pacchetto Treu al Jobs Act, le riforme delle pensioni, da Lamberto Dini alla Fornero, il pareggio in bilancio in Costituzione e le politiche di austerità del governo Monti. A occhio e croce: una ventina d’anni. Che ora trovino motivi per essere assolutamente intransigenti e considerino per esempio di non poter votare la legge di bilancio firmata da Gentiloni: questo si può spiegare non certo in ragione di una profonda revisione ideologica e programmatica – che nessuno si è accorto essere stata condotta, in questi ultimi mesi – ma semplicemente in ragione di un’esigenza contingente, quella di superare il Pd renziano. Per la qual cosa non bastano certo i tentativi di appeasement di Fassino, e i distinguo della minoranza guidata da Orlando: ci vuole il passaggio sacrificale della sconfitta alle elezioni.

La cosa è così chiara, che quel che è da chiedersi è, se mai, perché il Pd si ostini comunque a cercare un’intesa a sinistra. Io direi che valgono tre considerazioni. La prima è anch’essa banale: non sposterà molto in termini di consenso, ma al Pd conviene rendere evidente che a rifiutare ogni appello all’unità sono quelli di Mdp. La seconda considerazione è che, in uno schema a prevalenza proporzionale, disporre di un ‘marchio’ di sinistra significa comunque ampliare l’offerta. Metterla in termini di marchio è sgradevole e persino ingeneroso, ma è per dire che anche da questo lato della barricata vi possono essere ragioni puramente tattiche per portare avanti il tentativo. Infine, non c’è dubbio che l’eventuale riduzione della conflittualità a sinistra può servire almeno a rendere un po’ più evidente il profilo politico che il partito democratico intende assumere, un profilo oggi oscurato da una nuvolaglia di parole spese in discussioni totalmente improduttive.

Dopodiché, però, resta appunto il compito di determinare questo profilo in maniera chiara e incisiva. Marco Damilano, neo-direttore de «L’Espresso», nel novero dei fatti respingenti che tengono lontano dalle urne l’elettorato di sinistra, insieme agli scontri, alle divisioni, ai risentimenti, ai partitini improvvisati e ai veti incrociati, ha messo pure le manovre di Renzi «che dopo una legislatura tutta giocata su una strategia di raccolta di voti centristi, moderati, post-berlusconiani, a poche settimane dal voto si converte alle alleanze a sinistra». Difficile dargli torto. Queste conversioni dell’ultimora ben difficilmente riescono vincenti. Ma soprattutto contraddicono l’idea che Renzi aveva provato a dare di sé, come del leader che fa una cosa nuova, e che non cancella certo ma ridetermina i tratti di una sinistra riformista. Del resto, quale partito, avendo governato per cinque anni, ha mai vinto le elezioni senza rivendicare i risultati di una legislatura? Per farsi di nuovo capire dal Paese, fare la faccia contrita – come chiedono Speranza, Bersani e gli altri – non serve a nulla, mentre può servire qualcosa spiegare in quale direzione si vuol cambiare il Paese.

(Il Mattino, 20 novembre 2017)

Brizzi, il sesso, le bugie e i video-fake

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Cara Claudia,

Ho scritto sul caso Brizzi un editoriale, in cui manifestavo tra l’altro la necessità (o, se vuoi, la preoccupazione) di preservare distinzioni, che la girandola di rivelazioni di questi giorni ha di fatto travolto: quelle fra le avances e le molestie, fra le molestie e le violenze, fra le violenze e lo stupro. Ma anche distinzioni fra comportamenti moralmente deprecabili e comportamenti penalmente rilevanti, fra atteggiamenti poco professionali e abusi di potere, e infind fra sfera pubblica e vita privata. Confesso perciò che ho letto con grande sollievo la lettera di Claudia Zanella: non mi è parsa in primo luogo una difesa del marito, Fausto Brizzi. O meglio: è anche questo, nella misura in cui ricorda quanto diverso sia l’uomo che lei ha conosciuto e con cui vive dall’uomo dipinto dalle “voci” che lo riguardano. Ma è soprattutto un tentativo di far valere le distinzioni che richiamavo sopra, e di cui sempre meno sembra importarsi la stampa che assedia Claudia Zanella sotto casa da una settimana. Ma, aggiungo, ho provato sollievo perché mi capita di temere che le affermazioni di principio vengano fraintese, vengano considerate puramente strumentali, utili solo a una difesa preconcetta, o, peggio ancora, a una orribile solidarietà fra uomini. Il garantismo peloso, insomma, che è l’etichetta che a volte ci viene affibbiata. E una stupida volontà di difendere l’indifendibile. È così? Vale ancora la pena di far valere certe distinzioni?

Caro Massimo,

vivo anch’io questo timore di essere fraintesa; peggio, il timore di trovarmi senza volere dalla parte di chi è indubbiamente in colpa. Se un uomo può temere di cadere nell’orribile solidarietà maschile, una donna può temere di cadere nell’altrettanto orribile misoginia femminile. Non abbiamo forse sempre negato che le vittime di violenza debbano dimostrare qualcosa? Non abbiamo sempre sostenuto che le molestie non sono meno gravi delle violenze? Eppure quello che sta succedendo ci obbliga a fare distinzioni, se non vogliamo essere travolti/e da un’onda mediatica troppo forte e troppo indiscriminata per non suscitare riserve. Anch’io ho provato sollievo leggendo la lettera di Claudia Zanella, perché con grande misura lì si pone la questione: è possibile rovinare la vita di un uomo – la sua carriera e anche il suo matrimonio – sulla base di voci o di dichiarazioni non verificate? E mi chiedo in che cosa una vicenda del genere si differenzia dalle tante vicende di malagiustizia che abbiamo vissuto in questi anni. La vita di molte persone – non c’è bisogno di fare nomi – è stata distrutta per una denuncia o una delazione, che poi si sono rivelate false. Basta il fatto che qui chi denuncia è una donna, o più donne, per cambiare il nostro atteggiamento garantista? Abbiamo combattuto perché venissero riconosciute la violenza e le molestie; e continueremo a farlo. Ma abbiamo anche combattuto contro la logica del “mostro in prima pagina”. Anche questa è una giusta battaglia e io non credo che possa essere sospesa perché si tratta di donne, e del difficile rapporto tra le donne e gli uomini. Trovare un equilibrio è difficile, ma trovarlo bisogna.

 

Cara Claudia,

Credo che su un punto, che è essenziale, siamo d’accordo. Fausto Brizzi è ormai un mostro, per l’opinione pubblica: uno che molestava le donne, in maniera anche inutilmente greve e volgare. Questa sentenza è stata pronunciata già, prima che qualunque tribunale sia stato anche solo interessato dalle vicende rivelate ai microfoni di un giornalista. Per questo la lettera di Claudia Zanella è importante: perché è l’unico argine elevato da una persona offesa a protezione del marito regista, la cui reputazione, per il resto, è rovinata per sempre, comunque stiano davvero le cose. Ci sono però almeno un altro paio di cose su cui credo sia comunque giusto riflettere. Formulo a me stesso una prima obiezione: una donna, che sia stata molestata, che non abbia avuto lì per lì il coraggio di denunciare, che abbia temuto non di perdere un’occasione di lavoro, ma di rimanere per sempre tagliata fuori da un certo mondo, ha o no il dovere di parlarne, una volta che le circostanze siano mutate e gli diano la speranza che la sua testimonianza possa servire? Questo coro di denunce, questa specie di epidemia per cui a distanza di anni, a volte di decenni, certi fatti finora taciuti vengono raccontati pubblicamente, non rappresenta comunque una presa di parola? E non è sempre stata questa la prima difficoltà di chiunque fosse discriminato, di trovare intorno a sé le condizioni necessarie per prendere la parola, per non rimanere più invisibili e silenti, per rompere un certo conformismo, quello del “si sa, ma non si dice”, che fa continuare le cose sempre uguali?

 

Caro Massimo,

è chiaro che non si può negare a una donna che sia stata molestata di denunciare il fatto, anche a distanza di tempo. Il tempo evidentemente non conta, perché la cultura generale è completamente cambiata, e così il modo in cui la denuncia viene accolta. Questo è un lato della questione, un lato certamente importante. Oggi non accettiamo più quel comportamento da predatore che una volta era considerato più o meno normale; una delle molte insidie da cui le donne dovevano sapersi difendere. E questo è certamente un bene per le donne e per la società. Tuttavia, c’è un altro lato, ed è quello che riguarda il rischio di accuse ingiuste. Rispetto a questo, una prima risposta è quella del tuo editoriale: la necessità di distinguere. Per quanto odiose, le frasi sconce o i toccamenti non possono essere equiparati alla violenza o al ricatto esplicito. Mi chiedo però se qui non si debba introdurre un’altra distinzione, quella tra la donna che denuncia – ripeto, ne ha sempre il diritto, salvo potere, se non provare, circostanziare in modo ragionevole la sua denuncia – e il sistema mediatico che costruisce il caso e lo cavalca in modo chiaramente strumentale e morboso. A me questa campagna fa l’effetto di un maccartismo sessuale. Ci sento un’ispirazione puritana che non è mai venuta meno e non credo aiuti in nessun modo. Inoltre, la campagna mediatica ha un’altra caratteristica: vittimizza le donne. Non mi piace pensare le donne come vittime, penso che questa sia un’immagine che non corrisponde alla realtà, in nessuna società e tanto meno nella nostra. Le donne non hanno bisogno di queste difese pelose.

 

Cara Claudia,

anche a me fa effetto il modo in cui i media rilanciano questo genere di notizie: c’è la morbosità, c’è un puritanesimo che giudico indecente perché insincero, c’è la ricerca spasmodica del capro espiatorio. Aggiungo che c’è forse anche una coscienza in malafede. Perché due cose non si incontrano mai: da un lato il giudizio morale severo e inappellabile sui singoli comportamenti riprovevoli, dall’altro un contesto sociale e culturale che molti di quei comportamenti non sanziona affatto, ma se mai incoraggia. Non mi riferisco ovviamente agli abusi di potere e ai ricatti sessuali, ma al commercio dei corpi, che nessuno, credo, può escludere che sia stato e sia in gioco nei fatti balzati agli onori della cronaca. E che di certo è oggi più libero di ieri. Di nuovo ho paura di essere frainteso: non giudico sbagliata la morale individuale che viene applicata in questi casi (non ne ho un’altra da proporre), o sbagliata l’etica sociale che vige in generale (non sono un laudatore del tempo che fu: per niente). Trovo però che le due cose fanno a pugni l’una con l’altra, e che, quando esplodono questi casi, i pugni colpiscono chi capita, senza riguardo per alcuno. Trovo insomma che sul piano del diritto la vicenda Brizzi sia preoccupante, perché una pena più dura della sanzione penale è già stata irrogata dall’opinione pubblica, senza alcun rispetto per le persone coinvolte, e che per il resto sia del tutto finto il modo in cui si discute delle relazioni fra sesso e potere nella nostra società. Ma, mentre lo scrivo, sento già che qualcuno mi potrà accusare di aver dimenticato la parte debole, le donne, prima con l’ipocrisia del garantismo, adesso con un disinvolto sociologismo. E quello che in ogni caso manca, mi obietto da solo, è una presa di coscienza forte e una ferma risposta politica.

 

Caro Massimo,

tutto vero quello che dici. Io vorrei dire la parola che tu forse per pudore hai evitato: ipocrisia. C’è una grande ipocrisia in questa campagna mediatica, per la ragione che hai indicato (la contraddizione tra l’uso dei corpi e gli atteggiamenti moraleggianti), e anche, io credo, per un altro motivo. Si manifesta scandalo per un rapporto tra i sessi che certamente usa il potere sociale come chiave per il dominio sessuale. Un uso, peraltro, che c’è sempre stato, e se mai oggi è un pochino meno diffuso, e soprattutto svelato. Ma una volta che questo gran polverone si sarà posato, che cosa resterà del rapporto tra gli uomini e le donne? Quelli concreti, quelli di oggi, con le loro ambizioni (gli uni e le altre) e le loro miserie (gli uni e le altre). Con i loro desideri e le loro tristezze. Questo rapporto è oggi più che mai in difficoltà, come verifichiamo ogni giorno, non soltanto nella crescita dei femminicidi, ma in tanti episodi, meno eclatanti, della nostra vita quotidiana. Per esempio, io penso che la bassa natalità sia in gran parte dovuta a una certa incomunicabilità tra i sessi, piuttosto che alle ben note ragioni economiche. Troppe cose sono cambiate; soprattutto sono cambiate le donne, e gli uomini invece fanno fatica a cambiare. Non aiuta certamente un clima di sospetto reciproco, di diffidenza, di paura di quello che l’altro/a potrebbe farci. Di altra profondità, di altra gravità sono i motivi del difficile rapporto tra i sessi. Spero che, una volta finita questa vicenda tumultuosa e ambigua, si potrà affrontarli con una riflessione un po’ più serena.

(Il Mattino, 17 novembre 2017)

 

 

La lotta per la leadership e la tregua necessaria

Rivera

De Luca si chiama fuori. La partita del congresso non è ancora chiusa, ma la piega che ha preso spinge il Presidente della Regione a mettere la maggiore distanza possibile fra sé e le complicate vicende del partito democratico napoletano. Che ha tenuto un congresso a metà, che un’altra metà celebrerà domenica prossima – o più probabilmente non celebrerà affatto, lasciando così aperta la diatriba fra le parti in lizza – che ha visto prese di posizioni diverse e in diretto conflitto di dirigenti nazionali, che probabilmente avrà una coda lunga di polemiche e ricorsi, a meno che non si trovi una soluzione politica che consenta a tutti di rinfoderare le spade.

Ma nel post pubblicato ieri su Facebook De Luca ha chiarito che con tutto questo lui non c’entra e non vuole entrarci, e che è altro ciò per cui si era speso: una soluzione unitaria, che andasse oltre le divisioni fra ex-Ds e ex-Margherita, e oltre anche i nomi attualmente in campo (Costa, Oddati, Ederoclite). La mediazione non è riuscita e l’«ipotesi individuata» da De Luca (Pasquale Granata) non è passata. Ma, nel nascondere dietro una eufemistica formula impersonale («si è ritenuto di non accedere») i nomi di chi non ha voluto l’accordo (Casillo e Topo) il comunicato del governatore butta là una frase che non lascia molto adito a dubbi. Scrive infatti De Luca che il suo obiettivo era quello di «rendere percepibile l’immagine e la funzione di un PD che appare evanescente». Ora, il partito evanescente è il partito finora saldamente nelle mani di Casillo, che tiene da qualche anno le chiavi della federazione napoletana. De Luca non vuole essere tirato in ballo, smentisce tutte le illazioni sul suo conto, smentisce di aver parlato con Roma, smentisce di aver fatto pressioni perché Roma mandasse un candidato, smentisce di aver avuto un candidato in questa contesa. Ma non rinuncia, senza tuttavia far nomi, a un giudizio assai severo sul suo principale avversario politico dentro il Pd.

Ora, se la necessità di stare alla larga dal clima avvelenato in cui si è avvitato il percorso congressuale viene comprensibilmente dal ruolo che De Luca riveste in quanto presidente della Regione, tanto più nella fase che si apre adesso. In cui il congresso rischia di prendere la via delle carte bollate, è altrettanto comprensibile che la fatica di starci invece dentro, in un modo o nell’altro, non gli verrà risparmiata. Non si è acceduto all’ipotesi unitaria – da parte di Casillo e degli ex democristiani – perché il congresso costoro lo volevano vincere. E lo volevano vincere perché volevano limitare la supremazia politica di De Luca in Regione. Non c’è un’altra ragione: c’è invece una lotta politica, anche aspra, che passa sicuramente attraverso i nomi dei candidati, ma che punta direttamente a Palazzo Santa Lucia, lo voglia o no De Luca.

Del resto, che uomini a lui vicinissimi come il vicepresidente della Regione, Fulvio Bonavitacola, si siano impegnati al fianco di Nicola Oddati, è cosa a tutti nota. Certo, De Luca è stato molto rigoroso nell’imporsi una formale equidistanza. Ma volente o nolente De Luca – forse più nolente che volente –questo congresso lo si sta celebrando per un solo motivo: per segnare un punto contro De Luca.

Il gioco non può però essere condotto fino a un punto di rottura, perché le elezioni politiche sono prossime e non dovrebbe convenire a nessuno tirare ancora la corda: un equilibrio deve essere trovato. In questo senso, è ragionevole attendersi che invece di inasprire ulteriormente gli animi, Roma provi effettivamente a trovare una soluzione concordata, che non suoni come una sconfitta per nessuno. Il comunicato di De Luca è un passo in questa direzione. Vuol dire infatti: non sono io ad avere voluto lo scontro, e non sarò neppure io a impegnarmi in prima persona per il superamento dell’impasse che con tutta probabilità si determinerà dopo il 19 novembre, quando il congresso rimarrà ufficialmente monco della parte che sostiene Oddati. In questo modo, è lasciato più spazio perché Roma trovi il modo di far scoppiare la pace: o almeno una tregua, fino alle prossime elezioni.

Ma si sa: non sempre i percorsi più ragionevoli sono quelli che la politica è poi effettivamente in grado di percorrere.

(Il Mattino, 15 novembre 2017)

 

Le relazioni asimmetriche

Messico

Dopo quelli di Harvey Weinstein e di Kevin Spacey, esplode il caso del regista italiano Fausto Brizzi, accusato da decine di attrici di molestie e violenze sessuali. Brizzi si è difeso con un comunicato in cui afferma di non aver mai avuto rapporti non consenzienti, ma di fronte alla marea di accuse che gli è piovuta addosso – alle dichiarazioni, alle telecamere, agli articoli – è veramente improbabile che non ne venga travolto. Se è lecito dirlo, questo semplice fatto deve far riflettere, anche se questa riflessione viene considerata una deviazione, quando non una copertura, rispetto al tema principale. Che sono le molestie, le relazioni di potere di cui spesso si rimane vittime, le difficoltà che spesso le vittime hanno di denunciare i ricatti sessuali a cui sono state esposte, abbiano o no ceduto al ricatto.

E allora cominciamo di qui, dalla scoperta improvvisa (sto facendo dell’ironia) che in posizione di potere gli uomini ne approfittano. Si può generalizzare questa affermazione: chiunque si trovi in posizione di potere, uomo o donna che sia, tende ad approfittarne. Più spesso gli uomini, perché gli uomini hanno più spesso potere, ma si tratta quasi di una legge d’essenza. Il diritto e le regole ci sono appunto per quello: per imbrigliare il potere. Per contenerlo e per civilizzarlo, certo, ma questo non significa che riescano a cambiarne davvero la natura.

La seconda, improvvisa scoperta è che chi ha potere lo esercita spesso per ottenere favori sessuali. Sesso, potere e sopraffazione formano del resto un triangolo quasi naturale, perché le relazioni sessuali sono naturalmente asimmetriche, nelle parole e negli atti: il potere crea dissimmetria, e la dissimmetria, lo squilibrio, la vertigine è di per sé un potente fattore di erotizzazione dei rapporti umani.

Questo è il fondo. In superficie ci sono invece i diritti dell’individuo e la sua libertà, che è anche la cosa più preziosa che abbiamo. È la ragione per cui quando una donna dice no è no, quali che siano state le condizioni in cui si è trovata anche solo un secondo prima, quale che sia stata la relazione pregressa, la disponibilità inizialmente mostrata, le promesse o gli approcci fatti o subiti. Ma è bene saperlo: per quanto si sia diffusa e ispessita su tutta l’estensione delle società democratiche occidentali, questa è ancora soltanto la superficie: uno strato che si è aggiunto sopra altri strati, un suolo neanche troppo stabile, che comunque non ha affatto cancellato quel che c’è nel sottosuolo.

Ciò detto, va detto pure che nessuno è ad oggi in grado di sapere dove va situata la vicenda di Brizzi, se al livello al quale la volontà individuale è tenuta in conto (Brizzi dice: solo rapporti consenzienti), o nelle falde più sotterranee in cui viene sbriciolata dall’esercizio del potere (le ragazze dicono: mi sentivo immobilizzata, non capivo più niente, non sapevo come reagire). C’è però almeno un altro punto che merita una considerazione ulteriore. E riguarda il fatto che solo ora, dopo tanto tempo, le presunte vittime abbiano trovato tutte insieme la forza di parlare, di venire allo scoperto, di affrontare anche le conseguenze di una denuncia (sebbene solo in tv, non anche davanti a un giudice). Ora, è comprensibile che denunciare non sia affatto semplice, quando si tratta di fatti scabrosi in cui è in gioco la propria reputazione, o anche quando denunciare significa rompere con un certo ambiente di lavoro. È anche vero però che una denuncia fatta a distanza di anni porta con sé il rischio che sia il frutto non della difficoltà di vincere la paura o di elaborare il trauma, ma di una considerazione a ritroso di certi fatti e circostanze, che vengono riletti alla luce di tutto quello che sta succedendo intorno (e che, di questi tempi, è tanto). Per questo, non c’è neppure bisogno di supporre che agisca in chi denuncia la ricerca di visibilità o chissà che altro: è sufficiente anche solo l’essersi sentiti vittima di una qualche ingiustizia, personale o professionale, per tramutare ex post qualche spudorata avances in un comportamento molesto.

Ecco il punto: dove si tira una linea fra una condotta e l’altra? In certi ambienti, in cui è facile provarci, forti del potere che si ha, ma in cui è altrettanto facile incontrare qualcuno che ci sta, pur di arrivare, ambienti in cui c’è chi vuol comprare, ma pure chi si vuol vendere, quella linea si sposta di continuo, e stabilire chi l’abbia varcata non è il più facile dei compiti. Tanto più a distanza di tempo. Il fatto poi che simili contegni appaiano tutti moralmente censurabili non li rende giuridicamente condannabili, ma questa è un’altra linea che non si riesce più a tracciare, nel clima che si è creato.

E allora non si dovrebbe dire qualcosa anche del clima da gogna mediatica, in cui rimbalzano oggi le accuse, senza vere possibilità di difesa? C’è da far pulizia, si dice. Ma siamo sicuri che facendo pulizia in questo modo facciamo anche giustizia, e che dopo ne usciremo davvero più puliti, e non invece sporcati da questo savonaroliano falò delle vanità, in cui, insieme alla doverosa solidarietà con le vittime, si alimentano le fiamme con invidie, sentimenti di vendetta, ricerca di capri espiatori, pulsioni voyeuristiche e altri, appetiti del genere?

(Il Mattino, 14 novembre 2017)