
Cara Claudia,
Ho scritto sul caso Brizzi un editoriale, in cui manifestavo tra l’altro la necessità (o, se vuoi, la preoccupazione) di preservare distinzioni, che la girandola di rivelazioni di questi giorni ha di fatto travolto: quelle fra le avances e le molestie, fra le molestie e le violenze, fra le violenze e lo stupro. Ma anche distinzioni fra comportamenti moralmente deprecabili e comportamenti penalmente rilevanti, fra atteggiamenti poco professionali e abusi di potere, e infind fra sfera pubblica e vita privata. Confesso perciò che ho letto con grande sollievo la lettera di Claudia Zanella: non mi è parsa in primo luogo una difesa del marito, Fausto Brizzi. O meglio: è anche questo, nella misura in cui ricorda quanto diverso sia l’uomo che lei ha conosciuto e con cui vive dall’uomo dipinto dalle “voci” che lo riguardano. Ma è soprattutto un tentativo di far valere le distinzioni che richiamavo sopra, e di cui sempre meno sembra importarsi la stampa che assedia Claudia Zanella sotto casa da una settimana. Ma, aggiungo, ho provato sollievo perché mi capita di temere che le affermazioni di principio vengano fraintese, vengano considerate puramente strumentali, utili solo a una difesa preconcetta, o, peggio ancora, a una orribile solidarietà fra uomini. Il garantismo peloso, insomma, che è l’etichetta che a volte ci viene affibbiata. E una stupida volontà di difendere l’indifendibile. È così? Vale ancora la pena di far valere certe distinzioni?
Caro Massimo,
vivo anch’io questo timore di essere fraintesa; peggio, il timore di trovarmi senza volere dalla parte di chi è indubbiamente in colpa. Se un uomo può temere di cadere nell’orribile solidarietà maschile, una donna può temere di cadere nell’altrettanto orribile misoginia femminile. Non abbiamo forse sempre negato che le vittime di violenza debbano dimostrare qualcosa? Non abbiamo sempre sostenuto che le molestie non sono meno gravi delle violenze? Eppure quello che sta succedendo ci obbliga a fare distinzioni, se non vogliamo essere travolti/e da un’onda mediatica troppo forte e troppo indiscriminata per non suscitare riserve. Anch’io ho provato sollievo leggendo la lettera di Claudia Zanella, perché con grande misura lì si pone la questione: è possibile rovinare la vita di un uomo – la sua carriera e anche il suo matrimonio – sulla base di voci o di dichiarazioni non verificate? E mi chiedo in che cosa una vicenda del genere si differenzia dalle tante vicende di malagiustizia che abbiamo vissuto in questi anni. La vita di molte persone – non c’è bisogno di fare nomi – è stata distrutta per una denuncia o una delazione, che poi si sono rivelate false. Basta il fatto che qui chi denuncia è una donna, o più donne, per cambiare il nostro atteggiamento garantista? Abbiamo combattuto perché venissero riconosciute la violenza e le molestie; e continueremo a farlo. Ma abbiamo anche combattuto contro la logica del “mostro in prima pagina”. Anche questa è una giusta battaglia e io non credo che possa essere sospesa perché si tratta di donne, e del difficile rapporto tra le donne e gli uomini. Trovare un equilibrio è difficile, ma trovarlo bisogna.
Cara Claudia,
Credo che su un punto, che è essenziale, siamo d’accordo. Fausto Brizzi è ormai un mostro, per l’opinione pubblica: uno che molestava le donne, in maniera anche inutilmente greve e volgare. Questa sentenza è stata pronunciata già, prima che qualunque tribunale sia stato anche solo interessato dalle vicende rivelate ai microfoni di un giornalista. Per questo la lettera di Claudia Zanella è importante: perché è l’unico argine elevato da una persona offesa a protezione del marito regista, la cui reputazione, per il resto, è rovinata per sempre, comunque stiano davvero le cose. Ci sono però almeno un altro paio di cose su cui credo sia comunque giusto riflettere. Formulo a me stesso una prima obiezione: una donna, che sia stata molestata, che non abbia avuto lì per lì il coraggio di denunciare, che abbia temuto non di perdere un’occasione di lavoro, ma di rimanere per sempre tagliata fuori da un certo mondo, ha o no il dovere di parlarne, una volta che le circostanze siano mutate e gli diano la speranza che la sua testimonianza possa servire? Questo coro di denunce, questa specie di epidemia per cui a distanza di anni, a volte di decenni, certi fatti finora taciuti vengono raccontati pubblicamente, non rappresenta comunque una presa di parola? E non è sempre stata questa la prima difficoltà di chiunque fosse discriminato, di trovare intorno a sé le condizioni necessarie per prendere la parola, per non rimanere più invisibili e silenti, per rompere un certo conformismo, quello del “si sa, ma non si dice”, che fa continuare le cose sempre uguali?
Caro Massimo,
è chiaro che non si può negare a una donna che sia stata molestata di denunciare il fatto, anche a distanza di tempo. Il tempo evidentemente non conta, perché la cultura generale è completamente cambiata, e così il modo in cui la denuncia viene accolta. Questo è un lato della questione, un lato certamente importante. Oggi non accettiamo più quel comportamento da predatore che una volta era considerato più o meno normale; una delle molte insidie da cui le donne dovevano sapersi difendere. E questo è certamente un bene per le donne e per la società. Tuttavia, c’è un altro lato, ed è quello che riguarda il rischio di accuse ingiuste. Rispetto a questo, una prima risposta è quella del tuo editoriale: la necessità di distinguere. Per quanto odiose, le frasi sconce o i toccamenti non possono essere equiparati alla violenza o al ricatto esplicito. Mi chiedo però se qui non si debba introdurre un’altra distinzione, quella tra la donna che denuncia – ripeto, ne ha sempre il diritto, salvo potere, se non provare, circostanziare in modo ragionevole la sua denuncia – e il sistema mediatico che costruisce il caso e lo cavalca in modo chiaramente strumentale e morboso. A me questa campagna fa l’effetto di un maccartismo sessuale. Ci sento un’ispirazione puritana che non è mai venuta meno e non credo aiuti in nessun modo. Inoltre, la campagna mediatica ha un’altra caratteristica: vittimizza le donne. Non mi piace pensare le donne come vittime, penso che questa sia un’immagine che non corrisponde alla realtà, in nessuna società e tanto meno nella nostra. Le donne non hanno bisogno di queste difese pelose.
Cara Claudia,
anche a me fa effetto il modo in cui i media rilanciano questo genere di notizie: c’è la morbosità, c’è un puritanesimo che giudico indecente perché insincero, c’è la ricerca spasmodica del capro espiatorio. Aggiungo che c’è forse anche una coscienza in malafede. Perché due cose non si incontrano mai: da un lato il giudizio morale severo e inappellabile sui singoli comportamenti riprovevoli, dall’altro un contesto sociale e culturale che molti di quei comportamenti non sanziona affatto, ma se mai incoraggia. Non mi riferisco ovviamente agli abusi di potere e ai ricatti sessuali, ma al commercio dei corpi, che nessuno, credo, può escludere che sia stato e sia in gioco nei fatti balzati agli onori della cronaca. E che di certo è oggi più libero di ieri. Di nuovo ho paura di essere frainteso: non giudico sbagliata la morale individuale che viene applicata in questi casi (non ne ho un’altra da proporre), o sbagliata l’etica sociale che vige in generale (non sono un laudatore del tempo che fu: per niente). Trovo però che le due cose fanno a pugni l’una con l’altra, e che, quando esplodono questi casi, i pugni colpiscono chi capita, senza riguardo per alcuno. Trovo insomma che sul piano del diritto la vicenda Brizzi sia preoccupante, perché una pena più dura della sanzione penale è già stata irrogata dall’opinione pubblica, senza alcun rispetto per le persone coinvolte, e che per il resto sia del tutto finto il modo in cui si discute delle relazioni fra sesso e potere nella nostra società. Ma, mentre lo scrivo, sento già che qualcuno mi potrà accusare di aver dimenticato la parte debole, le donne, prima con l’ipocrisia del garantismo, adesso con un disinvolto sociologismo. E quello che in ogni caso manca, mi obietto da solo, è una presa di coscienza forte e una ferma risposta politica.
Caro Massimo,
tutto vero quello che dici. Io vorrei dire la parola che tu forse per pudore hai evitato: ipocrisia. C’è una grande ipocrisia in questa campagna mediatica, per la ragione che hai indicato (la contraddizione tra l’uso dei corpi e gli atteggiamenti moraleggianti), e anche, io credo, per un altro motivo. Si manifesta scandalo per un rapporto tra i sessi che certamente usa il potere sociale come chiave per il dominio sessuale. Un uso, peraltro, che c’è sempre stato, e se mai oggi è un pochino meno diffuso, e soprattutto svelato. Ma una volta che questo gran polverone si sarà posato, che cosa resterà del rapporto tra gli uomini e le donne? Quelli concreti, quelli di oggi, con le loro ambizioni (gli uni e le altre) e le loro miserie (gli uni e le altre). Con i loro desideri e le loro tristezze. Questo rapporto è oggi più che mai in difficoltà, come verifichiamo ogni giorno, non soltanto nella crescita dei femminicidi, ma in tanti episodi, meno eclatanti, della nostra vita quotidiana. Per esempio, io penso che la bassa natalità sia in gran parte dovuta a una certa incomunicabilità tra i sessi, piuttosto che alle ben note ragioni economiche. Troppe cose sono cambiate; soprattutto sono cambiate le donne, e gli uomini invece fanno fatica a cambiare. Non aiuta certamente un clima di sospetto reciproco, di diffidenza, di paura di quello che l’altro/a potrebbe farci. Di altra profondità, di altra gravità sono i motivi del difficile rapporto tra i sessi. Spero che, una volta finita questa vicenda tumultuosa e ambigua, si potrà affrontarli con una riflessione un po’ più serena.
(Il Mattino, 17 novembre 2017)