Riflettori puntati: a Pomigliano va Vittorio Sgarbi. Nel collegio che dovrebbe incoronare Luigi Di Maio, nei panni del guastafeste si candida il critico d’arte, ma anche il polemista, l’uomo di spettacolo e il politico: tutti insieme riuniti in una persona sola. Riusciranno a battere Di Maio? Difficile, stando ai sondaggi. Che danno il Movimento Cinque Stelle davanti sia al centrodestra che al centrosinistra (che non ha ancora trovato il profilo ideale da presentare in quello che un tempo era pur sempre un collegio rosso). Ma la logica di questa disfida non sembra essere quella di una contesa all’ultimo voto, con i duellanti che battono il territorio casa per casa, quanto piuttosto quella di uno show, in cui Sgarbi proverà a gualcire gli abiti e il profilo sempre azzimato del vice presidente della Camera dei Deputati. Più che il computo finale, conteranno i riverberi che lo scontro potrà produrre sulla scena politica nazionale. «Un intellettuale, un professore contro uno in cassa integrazione permanente»: Sgarbi ha già cominciato, cercando di trascinare Di Maio sul ring del confronto personale.
È come in quelle partite in cui si chiede all’allenatore di cambiare schema, di tirar fuori qualche jolly, perché altrimenti, se si gioca pulito, si perde: così Berlusconi ha pescato Sgarbi. Ma non è solo a Pomigliano d’Arco: è nel Sud che centrodestra e centrosinistra debbono (o forse avrebbero già dovuto) inventarsi qualcosa, perché è qui che i Cinque Stelle, stando alle ultime rilevazioni, volano abbondantemente sopra il 30%.
In fondo è normale: dove la democrazia è fragile, lì è più forte il rifiuto dei partiti tradizionali, che la democrazia hanno interpretato fino ad ora. Così, se prima di votava centrosinistra per far cadere il governo di centrodestra, e centrodestra per far cadere il centrosinistra, adesso si vota Cinque Stelle per farli cadere tutti e due. Poco importa che lo strumento adoperato non prometta alcun irrobustimento della democrazia, ma se mai ne metta a rischio i suoi istituti: questa è una preoccupazione da docdenti universitari, è tema per un possibile seminario, ma non è il terreno sul quale si decidono gli orientamenti di voto. Così, si può disquisire all’infinito sull’assoluta mancanza di trasparenza della mitica piattaforma Rousseau, sopra la quale si gettano come piccioni attirati da una manciata di semi i futuri parlamentari pentastellati, oppure citare ancora una volta gli slogan antiparlamentari del Movimento, e perfino citare a pappagallo tutti i vaffa pronunciati negli anni da Beppe Grillo (che però se ne va: in un Movimento che vuole compiere il passo decisivo verso l’area di governo, il giullare in vena di follie non ha più motivo di restare): non è così che si fermerà l’onda montante.
E allora come? Con scafatissimi notabili, robusti portatori di voti e cacicchi variamente assortiti. È un paradosso, ma se nelle città del Mezzogiorno il voto premia i Cinque Stelle più largamente che in provincia, significa che il voto d’opinione si è ancor più allontanato dai circuiti politico-istituzionali tradizionali, e quel che dunque i partiti sono in grado di raccogliere è solo il voto clientelare. Diciamo meglio, però: dentro questo voto c’è una vicinanza e una presenza sui territori che certo non ha la limpida forma generale della rappresentanza degli interessi, ormai consumatasi, ma ha almeno un residuo legame con i bisogni delle persone, soprattutto dove la presenza dello Stato è più labile. Sono le reti che si stendono sulle pareti di una collina, perché non franino sulla strada. L’unica maniera di trattenere il definitivo smottamento del terreno.
Sono dilemmi storici, per la società meridionale, che si trascinano da tempo. E che però oggi si presentano in una forma esasperata, cruda. Perché nel frattempo è cresciuto nel Paese un Movimento formato da outsiders dai tratti evidentemente demagogici e illiberali, disponibile a fare il pieno di voti sulla base di umori anti-politici, le cui coordinate su aspetti decisivi della statualità – dalla collocazione europea e internazionale al regime parlamentare – appaiono, ad esser generosi, molto vaghe. E che, però, si propone come la prima forza al Sud, segnalando la distanza profonda di una larga parte del Paese alle partite che l’Italia dice di voler giocare a Bruxelles e nel vasto mondo.
Basta, del resto, guardare ai temi di questa campagna elettorale, tutta domestica, in cui la questione europea non riesce a riorientare le determinazioni di fondo dell’elettorato. Per cui, a parte il pirotecnico Sgarbi, finisce che ci si affidi all’usato sicuro di politici sperimentati, che almeno stringono mani e battono il territorio palmo a palmo. E chissà che non si debba a loro se alla fine non se ne verrà giù tutto.
(Il Mattino, 24 gennaio 2018)