E se i napoletani si stancassero di Napoli? Forse bestemmio. Il Napoli guida la classifica: non è certo il momento di stancarsi della città e della sua squadra. E poi anche i napoletani che hanno lasciato la città e vivono ormai lontano non smettono di dichiarare il loro amore per Napoli. La loro rabbia, anche, ma questo non vuol dire che non sentono ancora vivo e forte il legame con le loro origini, la loro storia, la loro lingua.
Però è un fatto che, a cominciare dal famoso saggio di Domenico Rea sulle due Napoli, un senso di fastidio, o di sazietà, o forse addirittura di nausea torna continuamente ad affiorare. Nei confronti di Napoli, o della napoletanità? Di quest’ultima, a dirla appunto con Rea. Il quale distingueva gli addolcimenti letterari, certi ritratti compiaciuti della sensualità, della musicalità, della veracità napoletana dagli aspetti più crudi, dolorosi o miserabili della vita quotidiana, quando essa si presenta senza folclore e priva di moine. Aveva ragione su un mucchio di cose, Rea, passando per esempio in rassegna il lirismo pietoso di Di Giacomo o la vena malinconica di Eduardo, e cercando di tracciare una linea diversa, tragicamente plebea, capace di incarnare – come la sua maschera, Pulcinella (non, però, edulcorata o ridotta a macchietta) – il nocciolo aspro e irriducibile della città.
E però anche in questa semplice opposizione si finisce ormai con l’indulgere troppo: in questa nostra parte occidentale del mondo, Napoli sarebbe rimasta l’unico luogo in cui di sotto agli stereotipi popolari e agli archetipi letterari, pulsa ancora la vita vera, la forza vitale «cruda e selvatica», quasi ferina, refrattaria ad ogni superiore educazione, cui perfino Benedetto Croce riservò un posto nella sua filosofia dello spirito.
E se anche questo, a distanza di quasi settant’anni dal saggio di Rea, fosse divenuto un mito letterario? Possibile che non ci siano vie verso la modernità che Napoli possa percorrere, ma che tutte debbano riuscire finte, artificiali, posticce? Possibile che solo a Napoli la vita debba rimanere, per essere vita vera, inselvatichita? Oppure possiamo dirci stanchi anche di questa rappresentazione, pur lasciando a tutti gli scrittori partenopei la giusta esigenza di scavare fin nelle viscere della città?
Riprendendo un giudizio abbastanza sconsolato di Antonio Polito, il procuratore generale Luigi Riello ha detto, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, che a Napoli l’egemonia culturale è purtroppo nelle mani dei delinquenti, non dei galantuomini, per quanto questi ultimi siano in maggior numero rispetto ai primi. Ovviamente, né l’uno né l’altro intendevano con ciò mostrare alcuna indulgenza: al contrario. Ma quel discorso ormai insistito sulla Napoli sanguigna, livida ed efferata non trova così anche questa volta, nell’iperbole di quella egemonia, una sua conferma, o almeno un suo riverbero, dal momento che parliamoci chiaro: chi vorrete mai che coltivi con sanguigna passione il senso civico e le strutture istituzionali della legalità?
L’impressione è insomma che siamo ancora allo stesso punto: si capovolge il valore, naturalmente, ma il discorso rimane sempre quello. Un modo di cucire l’identità della città alle caratteristiche della moderna cittadinanza politica e sociale non viene trovato.
Né sarà facile trovarlo, finché gli aspetti materiali e quelli valoriali correranno separati. Questo peraltro è, o dovrebbe essere, il principale insegnamento della modernità: portare in terra, dal cielo delle idee, i cosiddetti valori, intrecciando la produzione economica e la dimensione culturale, il benessere e la ricerca di senso, la felicità e la moralità.
Di questo intreccio c’è poca traccia per le strade e le piazze di Napoli. Né la politica ha saputo perseguirlo, preferendo piuttosto pensare i propri compiti di rappresentanza come puro rispecchiamento dell’esistente: se questi sono i napoletani, questa è Napoli. Con poche eccezioni, è sempre stato questo il patto della classe dirigente con la città. E così ancora oggi il sindaco può coltivare il mito consolatorio dei belli ma poveri, facendosi interprete di tutte le proteste contro la disumana tirannia del capitalismo, mentre da qualche altra parte ad accumulare ricchezze rimangono quasi soltanto i cattivi.
(Il Mattino, 29 gennaio 2018)