Archivi del mese: febbraio 2018

Il risiko dei governi possibili

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Neanche se fossimo sicuri della bontà dei sondaggi, che oggi circolano solo fra addetti ai lavori, sapremmo dire quale governo attende il Paese. Neanche se disponessimo delle percentuali esatte fino alla terza cifra decimale. Perché il profilo delle forze politiche e soprattutto quello della loro rappresentanza parlamentare (e la conversione dei voti in seggi) non è mai stata così incerto: i Cinquestelle hanno già preso le distanze da una quindicina di possibili eletti tra le loro file; Forza Italia e Lega nessuno sa se rimarranno insieme anche dopo il 4 marzo; in Liberi e Uguali convivono almeno due anime e non è detto che la lista si trasformi in un partito; quanto al Pd e alla coalizione di centrosinistra, c’è chi immagina che anche lì ci sia una zona molle che potrebbe rendersi disponibile a soluzioni di governo a prescindere dal destino personale di Matteo Renzi. Non resta allora che moltiplicare gli scenari che, con diversi gradi di probabilità, premono per realizzarsi. A differenza che nella teodicea di Leibniz, secondo cui a prevalere alla fine è il migliore dei mondi possibili, qui in realtà non è certo nemmeno che lo scenario migliore sia anche quello che prenderà forma all’indomani del voto.

Governo del Presidente

L’ipotesi più probabile è che, di fronte all’assenza di una maggioranza parlamentare, Mattarella debba mettere un governo sotto la sua egida, perché abbia la fiducia delle due Camere. Questo significa individuare una personalità al di sopra della mischia a cui affidare la costituzione di una sorta di governo di scopo, con in mano un elenco di poche, essenziali cose da fare, tra cui spiccherebbe una nuova legge elettorale. In un simile governo potrebbero sedere personalità istituzionali, tecnici, accademici, alti funzionari, espressioni di aree politico-culturali diverse ma non direttamente esponenti di partito, come del resto è già accaduto col governo Monti. Un simile governo potrebbe avere il sostegno del centrosinistra, di Liberi e Uguali, di Forza Italia, certo non quello di Lega e Fratelli d’Italia, e probabilmente nemmeno quello dei Cinque Stelle.

Grande coalizione

Dall’arco di quelle stesse forze che sosterebbero un governo del Presidente potrebbe nascere un governo di larghe intese. E potrebbe durare, ambire cioè a coprire l’intera legislatura. La differenza la fanno i numeri: se Forza Italia e Pd, con i loro alleati minori, raggiungessero la maggioranza, allora potrebbe davvero nascere un esecutivo pienamente legittimato sul piano politico, con tanto di delegazione dei partiti al governo. Liberi e Uguali potrebbe starci, o più probabilmente non starci. Oppure dividersi. In ogni caso, la base parlamentare, e forse anche l’indirizzo programmatico, non sarebbe molto diverso da cinque anni fa: il governo Letta, che nacque dal voto del 2013, aveva infatti l’appoggio di Pd e Forza Italia. Difficile fare però ipotesi su chi sarebbe il futuro premier: se cioè Forza Italia darebbe il via libera a Renzi, o se invece chiederebbe al Pd di indicare una figura diversa, più “inclusiva”. Certo è che un governo Renzi di grande coalizione non prenderebbe un voto in più a sinistra.

Governo di centrodestra

Terzo scenario. Il centrodestra, che è più avanti nei sondaggi, raggiunge la maggioranza. Oppure arriva a un soffio dalla fatidica soglia, e racimola in Parlamento quel che gli serve per arrivare al 51%. Le esperienze passate dicono tuttavia che una risicata maggioranza di centrodestra stenterebbe a portare fino in fondo la legislatura. Del resto, già adesso Salvini, Meloni e Berlusconi non parlano affatto all’unisono: ciascuno rassicura i suoi sulla tenuta dell’accordo, ma la diffidenza reciproca è molto forte. Al partito che arriva primo nell’ambito della coalizione toccherà comunque fare il nome del Presidente del Consiglio. Lo scarto tra Forza Italia e Lega è molto ridotto, e la percentuale di indecisi ancora molto alta: tutto può succedere. Difficile, però, credere che un governo Salvini possa avere i voti degli alleati centristi. E difficile pure ipotizzare che Forza Italia possa davvero rimanere tutta unita incolonnata dietro il segretario leghista.

Centrodestra più Bonino.

Così subentra un’altra possibilità, che il centrodestra riesca a portare nella sua orbita la lista europeista della Bonino, disarticolando la coalizione di centrosinistra. L’ipotesi circolata nelle ultime ore è che Berlusconi indichi addirittura la leader radicale come premier, ma questa eventualità può servire se mai a non concedere il primato a Renzi e al Pd in un governo di grande coalizione, più che a fare un governo di centrodestra con dentro piùEuropa. Può succedere invece che il Cavaliere punti ad attrarre consensi al centro e fra gli europeisti della Bonino per sganciarsi progressivamente dalla Lega. Una soluzione di governo con dentro sia Matteo Salvini che Emma Bonino, cioè i sovranisti e i federalisti, i securitari e i garantisti appare un equilibrismo che nemmeno il Berlusconi del ‘94 saprebbe portare a buon fine.

Il populismo al governo

Se i Cinquestelle dovessero risultare il primo partito, e se fossero in grado di prospettare al presidente della Repubblica la possibilità di un appoggio parlamentare da parte di settori del centrodestra, e in particolare della Lega, allora l’incarico di formare un governo potrebbe andare a Luigi Di Maio. Un governo populista, fondato sull’asse Cinque Stelle – Lega, è di sicuro il più dirompente tra gli scenari possibili. Salto nel buio o no, sarebbe un inedito assoluto nella storia della Repubblica. Convergenze programmatiche ci sono (in tema di politiche migratorie e della sicurezza, di politiche fiscali e del lavoro, di politiche comunitarie); bisogna ovviamente che ci siano anche i numeri. E le condizioni politiche. Perché al momento i Cinque Stelle non sembrano disponibili ad alleanze, ma solo a chiedere consenso ad un ‘loro’ governo monocolore. In questo caso, Salvini e la Lega dovranno decidere se accettare di dare l’appoggio esterno, puntando sui Cinque Stelle per far saltare definitivamente il banco della seconda Repubblica.

Alleanza Cinque Stelle – sinistra

Ma i Cinque Stelle possono giocare a tutto campo. Se si confermassero primo partito, potrebbero provare a cercare voti anche a sinistra. Si ripeterebbe il tentativo (fallito) di Bersani nel 2013, ma a parti invertite. E questa volta l’argomento sarebbe: meglio appoggiare i Cinque Stelle che far tornare Berlusconi al governo. Un argomento che non è detto riscuota unanimità di consensi dentro Liberi e Uguali, ma che comincia a farsi strada persino nel Pd. Dove per un Renzi che dice mai al governo con i Cinque Stelle c’è pur sempre un Emiliano che invece accarezza con simpatia l’idea. Che i voti di Liberi e Uguali possano bastare è improbabile. Ma se il Pd va molto male, e crescono le spinte centrifughe, potrebbe darsi anche questa eventualità di un Esecutivo a guida Di Maio con la sinistra che lo sostiene in Parlamento. Difficile scommettere, però, sulla durata di un simile esperimento.

Scenario spagnolo.

L’ultimo scenario possibile è che il governo non lo si riesca proprio a fare. Che i veti reciproci prevalgano. Che i no al governo del Presidente di Lega, Fratelli d’Italia e Cinque Stelle non consentano di sperimentare neanche soluzioni emergenziali. Che il centrodestra da solo non abbia la maggioranza e che la grande coalizione sia tutto meno che grande. Che in Liberi e Uguali si imponga una linea di intransigenza e che la sinistra non presti i suoi voti a nessuna soluzione di compromesso con il Cavaliere. Che l’appello di Di Maio cada nel vuoto e che non riceva nessun soccorso verde o rosso. Se tutte queste strade risultassero sbarrate, non resterebbe che tornare rapidamente al voto, con la stessa legge elettorale. Scenario quasi weimariano, da crisi di sistema, con instabilità assicurata e forti fibrillazione sui mercati. Forse si riuscirà ad evitarlo; forse no.

(Il Mattino, 27 febbraio 2018)

La sinistra unita solo in piazza

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Alla prima domanda si risponde facilmente, alla seconda è un po’ più complicato. La prima: c’è un comune denominatore che consente alle diverse anime della sinistra di ritrovarsi insieme? Sì, c’è. La manifestazione antifascista di ieri ha visto infatti la partecipazione di Renzi e Bersani, Fratoianni e Gentiloni, Maurizio Martina e Laura Boldrini, Matteo Orfini e Pietro Grasso. Uniti nel dire no ai fascismi e ai razzismi. Mentre a Macerata, all’indomani della caccia all’immigrato di colore scatenata per le vie della città da Luca Traini, qualcuno in piazza non era sceso, ieri, dietro le insegne del corteo promosso dall’Anpi, si sono ritrovati tutti. Ma – seconda domanda – quanto dista quel comune denominatore da un’intesa politica? Qui la risposta è più difficile. In politica è come nella fisica quantistica, esistono proprietà complementari: se ne conosci una, la sua complementare rimane necessariamente non definita. Così, se Partito democratico e Liberi e Uguali si congiungono a piazza del Popolo, vuol dire che non può essere determinata la loro vicinanza a Palazzo Chigi. La difficoltà è anzitutto di ordine programmatico: un conto è l’ideale adesione ai valori, un altro è tradurla in concrete misure in materia di politiche migratorie. Basta contare tutti i distinguo e le critiche a cui va incontro la dottrina Minniti, per farsene consapevoli. A non dire di jobs act, scuola e di tutto il resto.

Ma queste differenze sarebbero ancora superabili, in una normale logica di coalizione. La sinistra è pur sempre quella che, nel corso della seconda Repubblica, ha prima dato vita all’Ulivo, e poi messo insieme – comunque se ne giudichino i risultati – l’Unione. Che andava da Bertinotti a Mastella, da Oliviero Diliberto a Francesco Rutelli. Questa volta no: insieme non si può. Siamo oltre la logica classica. Valgono invece le relazioni di indeterminazioni di Heisenberg. Se vuoi scrivere LeU a fianco del Pd, devi lasciare indeterminato il nome di chi guida il partito democratico. Se ce lo metti, se scrivi Renzi, allora la posizione di Leu subito sfuma in un’orbita indistinta, in cui non è più chiaro se prevarrà la responsabilità di dare un governo al Paese, confidando nelle indicazioni che verranno dal Presidente della Repubblica, o se invece l’ostilità nei confronti del Segretario del Pd si tradurrà in ferma indisponibilità.

Le formule che vengono proposte sono le più varie: governo del Presidente, governo di larghe intese, governo di salvezza nazionale. Perfino Di Maio si è cimentato in politichese proponendo un governo di programma (lasciando pure lui indeterminato se, chiedendo il voto sul programma, si rivolgerà pure a quei parlamentari che ha espulso ancor prima di eleggerli). In ogni caso, nessuna delle formule in questione si può costituire a partire dalla celebrazione dei valori della Resistenza. Con l’antifascismo non si fa un governo, insomma. Si costruisce un fronte nella pubblica opinione, si mobilita, forse, una parte dell’elettorato che rischia di scappare nell’astensione; si arricchisce l’arsenale degli argomenti polemici nei confronti della destra; si rinsalda un’identità intorno a punti unificanti posti molto in alto, a distanza imprecisata però visibili da tutti, ma non riuscendo a confermarla a quote più basse, dove rispuntano tutti gli ostacoli che in questi anni si sono frapposti all’unità del centrosinistra, un governo non lo si fa.

E allora come? Berlusconi va dicendo che lui conta di farlo arrivando con la coalizione su su fino al 40%. Che poi, se non ci si dovesse arrivare, il Cavaliere cercherà in Parlamento quello che manca, fra transfughi di varie formazioni e centristi in cerca di collocazione. I Cinquestelle: loro il governo lo hanno già fatto, hanno usato la cortesia di darne notizia a Mattarella e si apprestano a rivelarlo al popolo tutto nelle prossime ore. Invece il Pd non sostiene più la finzione di poter fare tutto da solo, ma non arriva a indicare il punto politico che sarà probabilmente discriminante. E cioè se, per trovare un accordo largo, sarà necessario dare un profilo tecnico, istituzionale e di garanzia al futuro Esecutivo, o se i partiti politici potranno esservi rappresentati. Di fronte a questa alternativa, si indovina nuovamente la divisione a sinistra. Perché il Pd non ne vuole sapere di governi privi di caratura politica, mentre LeU non ne vuole sapere di Renzi. Per Grasso e D’Alema, è così più facile digerire un esecutivo di grand commis, sotto l’egida del Quirinale, che far nascere una grande coalizione. E però all’una o all’altra soluzione, con i numeri che usciranno dal voto del 4 marzo, non si potrà certo arrivare passando per un’altra piazza del Popolo, ma, semmai, con una realistica e concreta interlocuzione con il centrodestra. Il Teorema di Bell, in fisica quantistica, rifiuta il realismo locale. Niente qui e ora. Rifugiandosi nel cielo lontano dell’ideale resistenziale, la sinistra ha evidentemente trasferito il teorema in politica, almeno per il tempo di questa sorprendente campagna elettorale.

(Il Mattino, 25 febbraio 2018)

 

L’agente provocatore e le voci fuori dal coro

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Prima che si scatenasse la tempesta perfetta, prima che Fanpage mettesse in rete i video sui rifiuti campani, questo giornale ha sollevato qualche domanda sul metodo dell’inchiesta. Una domanda sui suoi tempi, visto che la pubblicazione avviene scientemente a ridosso del voto politico nazionale. Una domanda sulla interferenza con le attività condotte dalla Procura di Napoli, che aveva già aperti diversi filoni di indagine sulla materia. Una domanda sullo spregiudicato utilizzo, nel lavoro giornalistico, di “agenti provocatori”, che fanno la notizia: non si limitano a raccoglierla. Una domanda sul clima che si determinerebbe, qualora si generalizzasse il ricorso a questo genere di provocazioni, da parte di altri soggetti (testate, ma anche – perché no? – partiti e fazioni politiche). Una domanda, infine, sulle conseguenze, per la salute della democrazia, di una così pesante logica sostanzialistica, che accantona ogni preoccupazione di diritto, pur di dare addosso al ladro e al corruttore.

Fare queste domande non significa affatto non vedere ciò che i video di Fanpage hanno mostrato: che in Campania il problema dei rifiuti è ben lungi dall’essere risolto; che nel sistema di smaltimento non sono ancora sufficienti i controlli; che in questa Regione il crimine si mantiene in una pericolosa contiguità con l’area dell’agire pubblico; che in nome dell’emergenza è tuttora possibile condurre operazioni poco trasparenti; che manchiamo, soprattutto nel Mezzogiorno, di una classe dirigente, politica e amministrativa, all’altezza delle proprie responsabilità, che sappia tirare una linea netta tra il proprio profilo e ruolo istituzionale, e le facilonerie e le leggerezze da bar, i rapporti amicali o familiari, le chiacchiere avventate con i mediatori e faccendieri di turno.

Ma tutto questo non è una buona ragione per non porre, con qualche allarme, le domande che abbiamo posto. Che sono, se possibile, oggi ancora più essenziali di ieri. Tanto più che sono troppo poche le voci che, sin qui, hanno voluto porle. Lo hanno fatto Antonio Polito e Enzo D’Errico sul “Corriere del Mezzogiorno”, lo ha fatto Stefano Cappellini su “Repubblica”. Lo hanno fatto, per fortuna, Raffaele Cantone e Federico Cafiero de Raho, il presidente dell’Autorità anticorruzione e il Procuratore Nazionale Antimafia. Il primo non ha mancato di rilevare «problemi deontologici rilevanti, rispetto ai mezzi impiegati e ai tempi di pubblicazione». E quanto all’uso di agenti provocatori, si è detto contrario con parole che andrebbero tenute bene a mente: «Non credo che tra le funzioni delle indagini giudiziarie ci sia quella di individuare soggetti potenzialmente corruttibili, ma solo di perseguire chi ha commesso un reato». Figuriamoci se l’agente provocatore, invece di essere un esponente delle forze dell’ordine, posto sotto le direttive di un magistrato, dovesse essere un ex boss della camorra, al soldo di una redazione. Quanto al secondo, Cafiero de Raho, ha parlato senza troppa diplomazia di «un’azione quasi fraudolenta» compiuta da Fanpage.

A fronte di ciò, sta però la montagna di articoli sotto i quali finiscono sepolti i protagonisti di questa storiaccia: con poche, pochissime possibilità di difesa, inchiodati da immagini che, montate in modo suggestivo, sollevano una sacrosanta indignazione, sottoposti a uno stillicidio di cui non si conosce la fine, messi insieme, dalla voce narrante che apre ogni puntata, a «centinaia di trafficanti di rifiuti, spietati camorristi, imprenditori spregiudicati e politici corrotti».

Certo, di questo si può anche decidere di non preoccuparsi, in nome della notizia (e, insieme, dello spettacolo: perché è difficile negare la costruzione spettacolare dei video). Così fa l’ordine dei giornalisti: affrettatosi a dare la sua solidarietà ai colleghi indagati per istigazione alla corruzione, senza minimamente lasciarsi sfiorare dal dubbio che, forse, mandare in giro un camorrista per indurre in tentazione politici e amministratori non è lo stesso che fare il cronista. Una specie di riflesso automatico, stupido come tutti i riflessi. (Doverosa, invece, la solidarietà, per le aggressioni e le parole fuori luogo di cui sono stati fatti oggetto i colleghi di Fanpage). E, certo, si può anche scegliere di ignorare la deriva che rischia in questo modo di travolgere la vita pubblica, o il piccolo particolare che vede la Costituzione riconoscere anche alle persone riprese non dirò la presunzione di innocenza, ma almeno la possibilità di discolparsi. Eppure, anche in mezzo a un’opinione pubblica che, scatenata all’inseguimento della preda, sembra sentire ormai solo l’odore del sangue, bisogna provare comunque a tenere ben ferme le nostre domande. Dalle risposte dipende infatti lo stato di salute della democrazia. A meno che, in nome della più inflessibile lotta alla corruzione, non si decida di sospenderla per un po’. Qualche segnale, in questa direzione, purtroppo c’è già.

(Il Mattino, 22 febbraio 2018)

 

Come si costruiscono le vere larghe intese

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A quanto pare, i responsabili sono già stati individuati. Dico: i futuri membri di un movimento di responsabilità nazionale, i futuri Razzi e Scilipoti che dovranno tenere su un governo di centrodestra. Per Berlusconi, quei candidati pentastellati che, per via dei mancati rimborsi, delle affiliazioni massoniche e di altre infrazioni assortite, sono già stati messi fuori dal Movimento, ancor prima di essere eletti, hanno il profilo ideale: primo, sono stati presi a casaccio; secondo; non hanno mai lavorato in vita loro; terzo, troverebbero conveniente incassare integralmente l’indennità parlamentare.

Non proprio un argomento di alta politica, ma tant’è: nonostante le rassicurazioni che l’ex Cavaliere spande a piene mani sulla solidità dell’alleanza di centrodestra (con l’accordo di programma custodito «in cassaforte») e la sbandierata fiducia nella possibilità di conquistare la maggioranza in entrambe le Camere, il leader del centrodestra comincia a dire ad alta voce, sia pure come ipotesi subordinata, quello che in molti pensano: che dal 5 marzo, dal giorno dopo il voto, bisognerà accontentarsi di quel che passa il convento, perché le urne difficilmente consegneranno il governo del Paese a uno solo degli schieramenti in campo.

Solo che, invece di ragionare di possibili formule politiche, di accordi di grande coalizione o di governi di unità nazionale, Berlusconi preferisce mettere su il migliore dei suoi sorrisi, e dire con tutta la simpatia di cui è capace che aspetta a braccia aperte i ripudiati, quei candidati senza arte né parte che, finiti fuori dal Movimento, pur di non tornarsene a casa sapranno comportarsi con responsabilità. Il ragionamento si può naturalmente estendere a tutti i parlamentari di prima nomina, più degli altri restii ad affrontare nuove elezioni a breve, e alla variegata galassia moderata e centrista, sparsa un po’ di qua e un po’ di là, la cui collocazione è abbastanza sfumata da consentire eventuali transiti da una parte all’altra.

Fare le larghe intese? Evidentemente non si può dire. Siamo in campagna elettorale: non solo non si prendono voti, a ventilare una simile eventualità, ma si dà una mano alle formazioni che, a destra come a sinistra, sono pronte a lanciare anatemi. Anzi: lo stanno già facendo. C’è chi si indigna perché il Pd riabilita Berlusconi, chi dice che tanto hanno lo stesso programma, chi si oppone con fieri toni patriottici e chi ovviamente grida al grande inciucio. Tutti, insomma, usano quella ipotesi per darsi patenti di serietà, purezza, autenticità: volete una vera sinistra? Sono quelli che non stringono patti con Berlusconi. Volete una vera destra? Sono quelli che mai e poi mai col Pd. Volete infine i più veri e puri di tutti? Sono i Cinque Stelle, quelli che non fanno accordi con nessun altro.

Allora non diciamolo. Ma mettiamo da parte i numeri ai quali si vorrebbe arrivare con operazioni dal sapore trasformistico, complici la lunga tradizione della politica italiana e le esperienze delle ultime legislature, con continui passaggi da un gruppo parlamentare all’altro e non pochi cambi di maggioranza, e domandiamo se non si possa almeno dire per cosa si vota, qual è la posta in gioco, quali decisioni l’Italia è chiamata a prendere. L’Europa: è o no lo spazio politico nel quale il nostro Paese deve far sentire il proprio peso? Ci sono o no appuntamenti delicatissimi alle viste: le prossime elezioni europee, le prossime nomine (una per tutti: il successore di Draghi), la riforma dei Trattati? Sono questi temi che tracciano una linea tra le forze politiche oppure no? E la questione democratica, la riforma delle istituzioni, la ricostruzione di una sfera politica pubblica: c’è o no un motivo di preoccupazione per lo sfibramento degli istituti del parlamentarismo, per lo Stato di diritto e le sue garanzie fondamentali? Le ricette di centrodestra e centrosinistra, in materia economica e sociale, sono distanti. Ma hanno almeno un comune denominatore: assumono che esista un contesto internazionale, europeo e globale nel quale l’Italia, un Paese ad alto debito, è chiamato ad operare: a finanziarsi, non solo a spendere. È un principio di realtà, che nonostante le promesse viene mantenuto, se non altro per i rapporti che centrodestra e centrosinistra intrattengono con le famiglie politiche del Continente.

C’è qui davvero un punto di fondo: i populismi si somigliano infatti in ciò, che non riconoscono altra istanza a cui dar conto che non sia il popolo. La democrazia non deve avere per loro alcuna articolazione: né interna né esterna. Né sociale né politica. E non vi sono sedi internazionali, poteri indipendenti, autorità terze, istituti del mercato o principi di diritto a limitarne la volontà sovrana.

Ecco un’altra linea discriminante: forse l’ultima. Berlusconi non può pensare di presidiarla racimolando qualche parlamentare con spicciola disinvoltura. Ai “responsabili” può rivolgere tutti gli inviti che vuole in campagna elettorale; non può credere che basti tirar su una maggioranza pur che sia, per governare l’Italia dopo il 4 marzo.

(Il Mattino, 21 febbraio 2018)

Diego Fusaro al Liceo Tasso: una lezione paradossale

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La cosa migliore è che una scuola, che voglia avvicinare i ragazzi al dibattito pubblico, promuovere il confronto delle idee, favorire la crescita culturale, inviti tutti e faccia sentire tutte le voci. Persino le più torbide. Bene sarebbe però che facesse le proprie scelte con un occhio anche a quello che succede nel mondo dei libri e delle riviste scientifiche, e non solo sugli schermi televisivi. Ad ogni modo: il Liceo Tasso di Salerno ha fatto sicuramente benissimo a invitare nientepopodimeno che Diego Fusaro a parlare di Marx: chi meglio di lui? Non è lui che quasi dieci anni fa ha fatto squillare il “Bentornato, Marx!” con un libro che ha venduto migliaia di copie? Dunque: benvenuto Fusaro! E benvenuta la discussione, che sicuramente il suo intervento, domani, nell’Aula Magna del liceo salernitano, si accenderà vivace e stimolante.

Ma servirà a qualcosa? Forse il primo a dubitarne dovrebbe essere lo stesso Fusaro. Non perché si possano mai nutrire dubbi sulla eccelsa qualità della sua relazione, sulla indiscutibile chiarezza dell’esposizione o sull’interesse vivissimo che saprà suscitare. E poi ai ragazzi del Tasso Fusaro darà una bella strigliata: accusandoli di essere politicamente disimpegnati, li chiamerà “selfie della gleba, dediti al culto narcisistico di sé”; li vedrà consegnati “all’erranza planetaria”, visto che non c’è più una sana leva militare obbligatoria ma, al suo posto, l’orrido Erasmus, la “nuova naia”: dove pensano questi ragazzi di andarsene felicemente a spasso, in giro per l’Europa, “abbandonando ogni radicamento nazionale e ogni residua identità culturale”?

Quindi dirà loro in faccia di essere ormai preda “della evasione autoreferenziale e autistica nella galassia telematica e dell’iperrealtà” (scrive così, Fusaro: fascinosissimamente), forzatamente convertiti al “mito capitalistico globalizzato”: prova ne è il fatto che seguono Mtv, l’emittente musicale che, per il Nostro, è l’apice del “degrado spettacolare mondiale americano di ogni cultura”: non si tratta difatti della “normalizzazione videocratica globalista e liberal dell’immaginario”? Infine, toglierà una ad una tutte le armi al capitale: schierando Leopardi contro lo ius soli, Dante contro il consumismo, e l’antica sapienza greca contro il libertinismo sessuale dei nostri giorni.

A quel punto, però, dopo averli così incominciati a rieducare, un dubbio dovrà pur venirgli. Fusaro ha regalato ai suoi seguaci in rete il seguente, acutissimo pensiero: “voi pensate che, se davvero col voto si decidesse qualcosa, vi lascerebbero votare? Commoventemente ingenui”. Siete degli ingenui. Dei poveri illusi. Soprattutto, immagino, quei diciottenni che si avvicinano per la prima volta al voto e che lo ascolteranno domani, a Salerno. Ora, la democrazia è bella per questo, perché anche chi la considera una buffonata può non solo dire la sua opinione, trattando come sciocchi creduloni quelli che la pensano diversamente, ma anche andare nelle scuole pubbliche statali a impartire siffatte lezioni. Rimane però il dubbio, che, se non assalirà Fusaro di suo, sarebbe bene qualcuno gli facesse venire. Domandando per esempio così:

“Caro eccellentissimo filosofo Diego Fusaro, guardi un po’ come si può applicare il suo ficcante argomento contro la democrazia: lei pensa che, se davvero le cose che va scrivendo e cianciando un po’ dappertutto – nei capitalistici canali televisivi che frequenta, sui capitalistici social network su cui scrive o sul suo blog personale, circondato da capitalistiche pubblicità, e infine nei libri – merce capitalistica pure quella, in ragione della proprietà – davvero lei pensa che gliele farebbero dire o scrivere, se servissero a qualcosa? Scelga lei. O non servono a nulla, e allora ci lasci almeno votare in santa pace: mentre lei conduce la sua vita inutile, lasci a noi di esercitare i nostri diritti fondamentali, fossero anche inutili. Oppure servono a qualcosa, e allora il mostro capitalistico totalizzante che lei denuncia incessantemente non è così mostruoso, se consente a lei tutto questo gran chiacchierare per ogni dove, con sua anche economica soddisfazione e nostro personale divertimento. Ma allora sarà a maggior ragione utile per noi votare, fare il nostro dovere di cittadini, come anche la scuola e i professori ci ricordano”.

Perché sono sicuro che il liceo pubblico statale Torquato Tasso di Salerno invita sì Diego Fusaro e gli offre una così bella occasione di dialogo – e chi siamo noi per criticare? – ma poi non rinuncia a svolgere fino in fondo la sua missione culturale, pedagogica, civile, perfino democratica. Vero? Buona conferenza!

(Il Mattino, 18 febbraio 2018 – edizione salernitana)

La distinzione

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Se si vede il video pubblicato sul sito della testata online – quello in cui viene avvicinato Roberto De Luca, il figlio del governatore – viene più di un dubbio che i giornalisti, con l’aiuto di un ex boss della camorra, non si siano limitati ad accendere le telecamere e ad ascoltare le cose che accadono, ma abbiano provato a farle accadere, le cose, in quel sottobosco della politica dove, con grande spregiudicatezza, si sono inseriti. Questa del resto è l’idea dell’agente provocatore, ed è stato il direttore di Fanpage, Piccinini, a parlare di “giornalisti provocatori”: chi provoca non si limita a realizzare un’operazione sotto copertura, con un’identità mascherata, ma prova a incitare o indurre al crimine l’interlocutore, a cui propone l’affare sporco. Non osserva semplicemente il quadro, ma di fatto lo altera o addirittura lo costituisce.

Sarà la magistratura – che sulla materia è già al lavoro da mesi – a valutare il materiale raccolto dal Fanpage. Ma la questione è se dobbiamo davvero augurarci di vivere in un mondo in cui è lasciata ad ogni singolo cittadino – e a volte a cittadini con un pedigree non invidiabile, come nel caso del filmato in questione, in cui è un ex boss della camorra il motore di tutto – l’iniziativa di infilarsi tra i malfattori per incastrarli. Conosco l’obiezione: meglio che lo facciano loro, se non c’è altro modo di fare. Meglio andare a caccia di ladri e corrotti anziché mettere la mordacchia al giornalismo d’inchiesta, come si vuol fare tirando in ballo sottili distinzioni giuridiche.

Rispondo: però quelle distinzioni ci sono. Stanno nel codice. E vi stanno a tutela di diritti fondamentali, a garanzia di coloro che si trovano sotto accusa, a protezione delle condizioni per l’esercizio della difesa e di un giusto processo. Se il codice penale parla di agenti infiltrati, e non di agenti provocatori, è perché la differenza c’è, e violarla significa lasciare campo libero all’attività inquisitoria, con la solita scusa che chi è onesto non ha nulla da nascondere. A nessuno viene ormai fatto di pensare che in questo modo si sposta la soglia dalla giuridicità alla moralità dei comportamenti, e che un simile spostamento è pericoloso per la salute di una democrazia.

Conosco l’obiezione: ma la democrazia è malata non per colpa di giornalisti coraggiosi, ma per via della corruzione dilagante. Invito allora a considerare che, così ragionando, assecondiamo la logica pericolosa de: “a mali estremi, estremi rimedi”, logica che sappiamo dove comincia (è già cominciata), ma non sappiamo dove si fermerà. Anzi: in una logica del genere, i freni saltano, e non c’è più nessuna ragione per fermarsi, per non ridurre sempre di più gli spazi di libertà delle persone, in nome della sacrosanta lotta alla corruzione. Quanto alla democrazia: siamo sicuri che far scoppiare un caso simile in prossimità del voto – quando in realtà le inchieste erano già avviate, quando i magistrati erano già al lavoro, quando i riflettori erano già stati messi dalla Procura sulle gare andate deserte e sull’attivismo dei gruppi criminali intorno ad esse – non configuri una forma di inquinamento elettorale, che incide pesantemente sul corso della vita democratica, in un momento decisivo per il Paese?

Certo, la politica, ancora una volta, non ne esce bene. Nessuno però vuole negare che c’è un mondo di mezzo che ruota intorno all’emergenza ambientale, che ci sono pesanti interessi in grado di condizionare l’attività amministrativa, che una gestione razionale e trasparente della materia non può prevedere l’interessamento del figlio del Presidente della Regione. Ma di qui a calpestare il lavoro degli inquirenti e a sorvolare sulle distinzioni a cui dovrebbe invece rimanere aggrappato un ordinamento giuridico liberale ce ne corre. Ed è un rischio che, almeno noi, non vorremmo correre.

(Il Mattino, 18 febbraio 2018)

La giustizia fai da te nelle urne

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Ancora una volta, alla vigilia delle elezioni, Napoli balza alla cronaca nazionale per inchieste che coinvolgono esponenti politici. Niente di nuovo sotto il sole? No, qualcosa di nuovo c’è, ed è che questa volta la Procura della Repubblica, in assoluta discontinuità col recente passato, ha provato a tenere al riparo l’indagine dai clamori mediatici, salvo intervenire quando ha tenuto che la diffusione delle notizie comportasse la dispersione di possibili elementi di prova. Nel perverso circuito mediatico-giudiziario in cui è trascinata la vita pubblica del nostro Paese, il pallino è ormai direttamente nelle mani delle testate giornalistiche, al cui rimorchio la Procura è costretta a muoversi.

I fatti. La testata Fanpage assolda un ex boss dei rifiuti, e lo manda in giro per sondare la disponibilità dei politici a intascare qualche robusta mazzetta in cambio dello smaltimento illegale di rifiuti. Il materiale così raccolto – gli abboccamenti e gli accordi corruttivi che sarebbero stati stretti con le persone avvicinate, documentati tramite registrazioni e riprese video, non ancora resi pubblici – viene portato in Procura, che ha già in piedi un’inchiesta sullo smaltimento dei rifiuti in cui è coinvolta la Sma, la società regionale per la tutela dell’ambiente. Nei giorni scorsi, disattendendo la preghiera di riservatezza elevata dalla Procura, quelli di Fanpage fanno sapere che stanno per pubblicare sul sito i risultati dell’inchiesta giornalistica. A questo punto la Procura è costretta a intervenire: partono le perquisizioni, i primi nomi dei politici coinvolti finiscono sui giornali, gli stessi giornalisti si trovano ad essere indagati, la bomba mediatica esplode in piena campagna elettorale. E rischia di riservare sorprese anche nei prossimi giorni.

Ora, fermo restando il rispetto per il lavoro degli inquirenti, spinti sotto i riflettori dove questa volta avrebbero volentieri fatto a meno di finire, non abbiamo più di un motivo di allarme per gli inquinamenti del confronto politico-elettorale, che fatti del genere causano? Fanpage ha indubbiamente una notizia per le mani, e vuole pubblicarla. Ma quella notizia è stata costruita, e richiede di essere usata nel bel mezzo di una campagna elettorale, quando ovviamente fa molto più rumore. A ritrovarsi tirati in ballo si ritrovano così centrodestra e centrosinistra: per via degli esponenti politici coinvolti (appartenenti, a quel che finora si sa, a Fratelli d’Italia), e perché la Sma è una società regionale, e la Regione è in mano al centrosinistra. Domanda: è normale, questo? E bisogna augurarsi che anche altri facciano altrettanto, che per esempio altri giornali si armino di squadre di agenti provocatori, e che magari lo stesso facciano i partiti, provando per esempio ad istigare la commissione di reati da parte di avversari politici? La tentazione fa l’uomo ladro, dice il proverbio. Ma appunto lo fa: non lo rivela semplicemente, ma lo crea. Per moralizzare il Paese, per estirpare la malapianta della corruzione, dobbiamo moltiplicare le possibili tentazioni, e ingrossare le file dei ladri, per poterli poi arrestarli tutti?

C’è effettivamente chi pensa che si debba fare così. Devono finire tutti in galera: è un sentimento diffuso. Piercamillo Davigo ha sempre sostenuto che i mezzi a disposizione della magistratura non sono sufficienti, e che se si volesse davvero fare la guerra alla corruzione bisognerebbe sguinzagliare per il Paese il maggior numero possibile di agenti sotto copertura. Ci vorrebbe una legge, però, perché la dottrina in materia non è univoca, e non è chiaro fino a che punto si possa spingere l’infiltrato o il falso corruttore. E difatti c’è una forza politica che non ha dubbi al riguardo: sono i Cinque Stelle. Meno di un paio di settimane fa lo hanno detto chiaramente: la prima cosa che deve fare Di Maio, appena arriva a Palazzo Chigi, è una bella legge che dia la più ampia libertà all’autorità giudiziaria di impiegare gli agenti provocatori. A quel punto, il clima poliziesco di sospetto, paura e diffidenza sarà generalizzato, e nessuno vorrà più corrompere o lasciarsi corrompere, per il timore di trovarsi di fronte a un collaboratore delle forze dell’ordine. Tanto, aggiungono, gli onesti non avranno mai nulla da temere. E così, per selezionare un manipolo di onesti incorruttibili (certo solo fino a prova contraria, che può arrivare in qualunque momento) si possono gettare nel terrore tutti gli altri. Cioè noialtri, noi potenziali ladri e corruttori, che, se non accettiamo questa logica, mostriamo già di voler delinquere, o almeno di non essere sicuri di non volerlo fare. Siamo già tutti sospettati o sospettabili.

Ma se non si ha la forza di respingere questa logica perversa, di denunciarla pubblicamente per timore di finire nel novero dei potenziali delinquenti, si guardi almeno a cosa sta accadendo: che l’uso fai da te della giustizia spinge ad usare un camorrista, o ex camorrista, per stanare i corrotti. Che a farlo non è il magistrato, ma il giornalista. E che facendolo si interferisce pesantemente con indagini in corso. Così è, se vi pare.

Naturalmente, appena i video di cui si parla verranno pubblicati, passerà fatalmente in secondo piano ogni genere di preoccupazione per il modo in cui quel video è stato ottenuto, e non sarà certo sui giornali che si discuterà del suo eventuale valore probatorio. Roba da legulei, da sottili azzeccagarbugli. L’indignazione travolgerà ogni cosa. Ed allora, se ancora c’è tempo, proviamo a farlo adesso: sommessamente, sine ira ac studio, prima che la tempesta perfetta si sollevi.

(Il Mattino, 16 febbraio 2018)

La diversità morale e il vizietto

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A quanto pare, non si tratta di dimenticanze, di distrazioni, di semplici ritardi. Non sono disguidi burocratici, calcoli da fare, documenti da allegare: nulla di tutto questo. Si tratta invece di un banale trucco, di un imbroglio, di una vera e propria truffa. Certo, bisogna attendere che quanto sta emergendo in queste ore venga confermato, ma, fatti tutti gli accertamenti del caso, bisognerà chiamare le cose col loro nome. Certi onorevoli a Cinque Stelle avevano il vizietto: con la mano destra versavano, con la mano sinistra revocavano. La mano destra firmava il bonifico e pubblicava la certificazione dell’avvenuto versamento; la mano sinistra, nel giro di 24 ore, lesta annullava la disposizione bancaria e tratteneva il denaro sul conto.

Di Maio si è fatto sentire, naturalmente: a differenza degli altri partiti, ha detto, loro le mele marce le espellono (quando però le ricandidi te le ritrovi in Parlamento comunque, e, espulsi o no, sei tu che ce li hai portati). Né possono essere pochi, limitati episodi, ha continuato imperterrito, a inficiare il valore di un’iniziativa. Che solo il Movimento ha adottato, versando indietro decine di milioni di euro di rimborsi elettorali: questa, ha protestato, è la vera notizia, non l’ammanco di diverse centinaia di migliaia di euro – forse mezzo milione, forse più – che risulterebbe dall’inchiesta giornalistica.

In realtà, dopo dieci anni di ininterrotta predicazione di immacolata onestà, purezza ed innocenza, il Capo politico del Movimento Cinque Stelle scopre che la bandiera della diversità morale reca qualche indecorosa macchia, e che a sporcarla non sono oscuri consiglieri di qualche piccolo comune di periferia, ma i portavoce che siedono in Parlamento. A Roma e forse anche a Strasburgo.

Alla scoperta dovrebbe ora seguire la lezione che Di Maio si rifiuta per il momento di trarre. La devoluzione dei rimborsi elettorali ha assunto, fin dal primo giorno della Legislatura, un valore altamente simbolico. I Cinque Stelle si sono caratterizzati per le posizioni assunte in tema di costi della politica, lotta alla corruzione, rifiuto del finanziamento pubblico. I soldi che lo Stato dà a noi, dicevano i grillini, noi li mettiamo a disposizione di un fondo per le piccole imprese. E non si limitavano a dirlo, ma davano alla cosa un valore dimostrativo, ne facevano un esempio: “ecco, vedete, si fa così: noi siamo quelli che invece di prenderli, i soldi li restituiscono”.  Loro, insomma,  con la Casta non c’entrano. Ancora domenica, nel corso dell’incontro pubblico a Vietri sul Mare, vicino Salerno, Di Maio ha dedicato tre quarti del suo intervento a questi temi: ai vizi irreformabili della classe politica, e alle virtù incancellabili del Movimento Cinque Stelle. In giro per il Paese, i candidati pentastellati chiedono il voto perché loro non rubano, prima ancora di chiederlo perché loro governeranno meglio. O piuttosto: loro governeranno meglio proprio perché non rubano.

La rimborsopoli grillina compromette la validità di questo assunto. Non c’è nessuna diversità morale, antropologica o di altro tipo che metta al riparo la futura deputazione grillina da comportamenti politicamente sconvenienti. Di più: restituire parte (solo parte) dei soldi ricevuti dallo Stato non dimostra proprio nulla, si riveli o no una presa in giro.

Con ciò, però, non si vuol dire che mal comune mezzo gaudio: così fan tutti, teniamoci i piccoli e i grandi truffatori, che mettono radici nelle pieghe della vita pubblica. Quel che si vuol dire è che un’idea di Paese, una prospettiva di governo, una visione politica con i suoi quadri ideologici e culturali non possono essere sostituiti da un controllo di moralità più o meno ferreo. Non si costruisce una classe dirigente nuova e capace dietro presentazione di scontrini e ricevute di versamento. E non si dovrebbe fondare su una palingenetica promessa di rigenerazione morale un’alternativa politica reale, concreta, che tocchi le questioni vere: dalla collocazione internazionale al rapporto con l’Unione europea, dalle politiche industriali al superamento degli squilibri territoriali; dalle scelte sulla questione migratoria all’innovazione nella pubblica amministrazione. Cosa sarà l’Italia nel prossimo futuro dipende dalle decisioni fondamentali che verranno prese su queste materie, non da altro. Va bene allora cacciare nell’ignominia le mele marce, ma è di quelle che rimangono nel cestino che si vorrebbe dimostrazione di autorevolezza e credibilità politica, molto più che la semplice trasparenza degli estratti conto. Le piccole furbate indignano e danno una misura degli uomini, ma se non si esce dal circuito miserrimo dell’indignazione e del discredito, una classe politica all’altezza dei compiti non si formerà mai.

(Il Mattino, 13 febbraio 2018)

 

 

 

 

 

 

Se i diritti restano scritti solo sulla Costituzione

Ricordate Pinocchio?

Quando lascia la stanzina di Geppetto per andare a scuola, non ha solo “un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di scorza di albero e un berrettino di midolla di pane”, ha anche l’abbecedario, “il più e il meglio” che un bambino debba avere per imparare a leggere, a scrivere e a fare i numeri. Geppetto, che non ha un soldo, ha dovuto vendere la propria casacca per acquistare il libro, non essendoci alcun sussidio statale, nessun buono libro erogato dal Ministero per venire incontro alle fasce economicamente più deboli. Oggi è, o sarebbe, tutt’altra musica: la fornitura dei libri di testo è garantita oltre gli anni della scuola primaria, anche se bisogna che venga sollecitamente adottata dagli uffici competenti la relativa determina. Sicché è vero che quando la miseria è miseria la intendono tutti, come scrive Collodi, ma non è vero che ciò basti per mettere sotto il braccio dei ragazzi i loro abbecedari: ci vogliono il decreto ministeriale, il piano di riparto regionale, la graduatoria comunale e chissà cos’altro. E passano mesi: la scuola comincia, i libri non arrivano. Fosse successo al bizzosissimo Geppetto, che non amava essere preso in giro, né avrebbe date un sacco e una sporta a chiunque gli fosse capitato a tiro.

Capita invece in Campania; capita a Napoli. Come era già accaduto lo scorso anno, e l’anno ancora prima. Ed è un disagio che colpisce migliaia e migliaia di ragazzi. Quando il Mattino se ne occupò, un anno fa, la Ministra Valeria Fedeli convenne che le procedure burocratiche andavano snellite e i tempi dell’amministrazione pubblica  “resi più compatibili con l’avvio dell’anno scolastico”. L’impegno allora assunto, di eliminare almeno un passaggio, portando la gestione del fondo statale sotto la diretta competenza del Ministero dell’istruzione, è stato in effetti mantenuto. Ma per il cittadino non è cambiato assolutamente nulla: non arrivavano i libri nel 2017, con l’inizio delle attività scolastiche, e non arrivano neppure nel 2018. Allora che si fa? Si chiede ai genitori di impegnare le loro giacche in attesa che qualche impiegato un po’ più solerte si decida a staccare gli assegni di studio?

Nella lettera al Mattino la Ministra citava, del tutto a proposito, quell’articolo 3 della Costituzione di cui ogni sincero democratico ha motivo di andare fiero: noi, gli italiani, siamo quelli per i quali l’uguaglianza di tutti i cittadini deve essere effettiva. Il povero come il ricco ha diritto di studiare. L’intero alfabeto dei diritti economici e sociali discende da quell’articolo della nostra Carta. Ma a che vale farvi appello, se poi tra gli ostacoli che debbono essere rimossi bisogna metterci pure le lungaggini burocratiche di quello stesso Stato che i diritti dovrebbe invece garantire e promuovere? Il corto circuito è completo: Geppetto esce dalla sua casetta e invece di vendere a un robivecchi la sua giacca di fustagno si reca presso la segreteria della scuola dove compila un modulo, presenta una dichiarazione e formula una domanda. Poi aspetta il sussidio. Pinocchio rimane per strada a giocare. Mangiafuoco con i suoi burattini passa per il Paese, fa il suo spettacolo e se ne va. E la Fata dai capelli turchini ha un bel dire a Pinocchio di tornare a studiare: i libri non ci sono.

Come tutte le favole, anche questa ha la sua morale. Ed è che riesce drammaticamente controproducente riconoscere in linea di principio un diritto negandolo però in via di fatto. Si fa un duplice danno, perché oltre a non mettere i ragazzi in condizione di stare a scuola alla pari di tutti gli altri, si trasmette a loro e alle loro famiglie l’idea che lo Stato non c’è, che i diritti non sono per tutti, e che uguaglianza di opportunità e equità sociale sono parole vuote, di comodo.

E cosa volete che da ciò consegua, se contemporaneamente sentono parlare di diritti, di accoglienza, di aiuti per quegli altri, gli stranieri, i migranti, a cui bisognerebbe dare quello che lo Stato non riesce ad assicurare ai propri cittadini? Difficile scalfire questo ragionamento, quando l’inefficienza tocca i tuoi figli. In realtà, c’è un solo modo per non rimanere intrappolati nella logica del “prima gli italiani”, con il seguito di guerre tra poveri che rischia di innescare, ed è quello di poter dire: “prima la giustizia”. E se non proprio la giustizia intera, almeno prima i libri di testo: che arrivino prima che finisca la scuola.

(Il Mattino, 12 febbraio 2018)

Il sottile fisso rosso tra Berlino e Roma

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Molte sono le differenze fra l’Italia e la Germania, ma in questa fase storica vi è più di un’affinità, che spiega per quale motivo l’accordo raggiunto da Angela Markel e da Martin Schulz possa essere considerato un possibile preludio a un’intesa fra centrosinistra e centrodestra anche in Italia.

In Germania, la Grande Coalizione nasce sotto la guida di un leader politico sperimentato, che tieni le chiavi della cancelleria tedesca da più di dodici anni. Una continuità di cui l’Italia, in anni recenti, non ha certo goduto. Frau Merkel ha dapprima governato con i socialdemocratici dell’Spd, poi con i liberali dell’Fdp, poi di nuovo con l’Spd: la barra stabilizzatrice del sistema politico tedesco rimane comunque saldamente nelle sue mani. Questo spiega perché la Cancelliera abbia potuto provare a stringere un accordo con i verdi e i liberali, per tornare solo poi a rivolgersi ai socialdemocratici di Martin Schulz. Del resto, entro un sistema di tipo proporzionale, non si può dire che riesca contro natura cercare un accordo in Parlamento con le forze politiche disponibili, dopo che il voto popolare non ha prodotto alcuna maggioranza certa e autosufficiente. Ebbene, il 4 marzo è probabile che accadrà lo stesso in Italia: la maggioranza non arriderà né al centrosinistra (che si sommino o no i voti di Pd e Leu), né al centrodestra – che si presenta unito, ma sulla cui unità è lecito nutrire più di un dubbio – né ai Cinque Stelle. La differenza sta però in ciò, che qui da noi non c’è una figura politica di pari e riconosciuta autorevolezza, e soprattutto pesa il fatto che la seconda Repubblica è nata in Italia con il mito del governo che esce dalle urne la sera del voto, legittimato direttamente dal popolo, per cui qualunque soluzione di tipo parlamentare, diversa da quella profilata nel corso della campagna elettorale, appare ormai come un ignobile inciucio. Eppure, persino Di Maio, che giura e spergiura che accordi politici non ne farà, è costretto a ragionare intorno al modo in cui trovare consensi in Parlamento.

L’Italia può tuttavia tornare a specchiarsi nella situazione politica tedesca per un’altra ragione: a Berlino come a Roma si è ridotto sensibilmente lo spazio politico occupato dai partiti politici tradizionali, di destra e di sinistra. Questa affermazione è, in realtà, valida solo in un senso largo e approssimativo per l’Italia. In Germania, la CDU della Merkel (alleata con la bavarese CSU), e l’SPD di Martin Schulz sono infatti per davvero in linea di continuità con la storia politica tedesca del secondo dopoguerra. Non si può invece dire lo stesso di Forza Italia o del Pd, partiti nati entrambi per marcare discontinuità piuttosto che rivendicare persistenze. E però sia Forza Italia che il Pd si ritrovano nelle famiglie politiche europee a cui appartengono i partiti tedeschi, quella popolare e quella socialista (benché in entrambi i casi non sia stato scontato l’approdo). La vera anomalia, giudicata con un occhio europeo, è se mai rappresentata dall’alleanza fra Fi e la Lega, e difatti nelle ipotesi di grande coalizione di cui si ragiona in Italia la Lega non c’è (come non c’è la Meloni). Il punto è che però, qui come lì, a Roma come a Berlino, il patrimonio dalla tradizione ereditato, sia stato o no dilapidato, si è di molto ridotto. In Germania la Merkel ha preso alle elezioni dello scorso anno una decina di punti in meno rispetto al 2013, attestandosi intorno al trenta per cento, mentre l’Spd ha toccato il suo minimo storico, poco sopra il venti. In Italia Il fenomeno è ancora più accentuato, stando agli ultimi sondaggi: Forza Italia vale intorno al 16%, circa la metà del suo massimo storico (Europee ’94), e quasi dimezzato è anche il Pd rispetto alle ultime europee del 2014, sotto di poco meno di dieci punti rispetto al 33% ottenuto al momento del suo varo (nel 2008, con Veltroni). In queste condizioni, quel che c’è di sbagliato nella grande coalizione non è tanto l’avvicinamento fra centrosinistra e centrodestra in nome dell’europeismo, quanto, se mai, il fatto che la si continui a chiamare grande, nonostante il forte ridimensionamento elettorale.

Al quale corrisponde la crescita delle forze antisistema, che a loro volta si somigliano, per i tratti populisti, antiparlamentari, xenofobi, nazionalisti. Il modo in cui questi ingredienti si mescolano in Germania, nella neonata formazione Alternative für Deutschland, è diverso dal modo in cui si presentano in Italia, distribuiti fra la Lega e i Cinque Stelle, ma il problema rimane il medesimo: è il confronto con l’agenda politica dettata da queste forze a tirare infatti la linea di demarcazione, e a spingere, qui come lì, centrodestra e centrosinistra l’uno verso l’altro.

Dichiarando però il contrario. Sia Berlusconi che Renzi si sono detti infatti favorevoli al rapido ritorno alle urne, nel caso in cui nessuna coalizione raggiunga la maggioranza. Ma anche Schulz aveva dichiarato, prima del voto, che non avrebbe mai e poi mai fatto lo junior partner della Merkel. È andata diversamente, e per l’ex Presidente del Parlamento europeo è ora pronta la carica di ministro degli Esteri. Vedremo da noi il 4 marzo: fino a quella data, Pd e Forza Italia non possono far altro che negare, in perfetta buona coscienza, di voler andare insieme a Palazzo Chigi. Dal giorno dopo, bisognerà tuttavia che ragionino numeri alla mano, e si chiedano se affrontare il mare procelloso di nuove elezioni in tempi ravvicinati, o non piuttosto mettere su un accordo di governo. Perché un’altra differenza c’è, fra il nostro Paese e la Germania: che il timore di instabilità politica non incombe su Roma come su Berlino. Così lì son potuti rimanere per mesi senza un esecutivo nel pieno dei suoi poteri. Da noi, lo stesso scenario, con l’orizzonte affoscato da incipienti ricorsi alle urne, potrebbe comportare molte più turbolenze.

(Il Mattino, 8 febbraio 2018)

La nuova Lega e l’uso dell’odio

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Matteo Salvini, l’europarlamentare, il leader della Lega Nord, l’aspirante Presidente del Consiglio, chiama delinquente l’uomo che ieri, a Macerata, è andato a caccia di esseri umani dalla pelle scura per le vie del centro, cercando di colpirne a pistolettate il più possibile. Ma non fa a tempo a finire la frase, Salvini, che subito aggiunge quel che a lui riesce «chiaro ed evidente», che cioè se accadono di queste cose, se succede che un fascista semini il panico sparando all’impazzata, è a causa di «un’immigrazione fuori controllo, un’invasione come quella organizzata, voluta e finanziata in questi anni».

Così, da questo momento in poi, è chiaro ed evidente pure questo, che il prossimo delinquente che aggredirà un extracomunitario potrà avere tutta la comprensione di Matteo Salvini. Perché la gente non ne può più, perché gli stranieri sono troppi, perché ci rubano il lavoro e perché è meglio che se ne stiano a casa loro. E se allora per tutte queste ragioni domani qualcun altro spara, Salvini dirà lo stesso: senza spendere un briciolo di solidarietà per le vittime, senza interrogarsi neanche un secondo su cosa serva piuttosto a calmare gli animi, senza mostrare la minima preoccupazione per la copertura ideologica che le sue parole forniscono a fascisti come Luca Traini, uno che, compiuto il raid razzista, esce dall’auto facendo il saluto romano.

Questo Luca Traini si era candidato lo scorso anno con la Lega Nord da quelle parti. A Corridonia, in provincia di Macerata. Matteo Salvini dovrebbe allora vergognarsi e chiedere scusa per avere messo in lista uno così, dovrebbe promettere di alzare un muro per evitare che in futuro possa accadere di nuovo, che fascisti e razzisti finiscano in lista nelle file del suo partito. E invece si scaglia contro l’immigrazione che alimenta lo scontro sociale, e prende occasione dai fatti di sangue di ieri per promettere che una volta al governo ci penserà lui a riportare la sicurezza nel Paese. E così mette la sua azione di prossimo ministro dell’interno (se gli va giusta) in scia con chi, a mezza mattina, tira il grilletto per le strade della città marchigiana.

Ha ragione Roberto Saviano, a riguardo di Matteo Salvini: «Lui e le sue parole sconsiderate sono oramai un pericolo mortale per la tenuta democratica. Chi oggi, soprattutto ai massimi livelli istituzionali, non se ne rende conto, sta ipotecando il nostro futuro».

Cosa manca, del resto, alla retorica leghista perché attiri le simpatie di fascisti e nazionalisti? C’è la propaganda contro l’invasione degli stranieri e l’immigrazione incontrollata; c’è la difesa dell’italico suolo; c’è la polemica contro le banche e la finanza che affamano il popolo; c’è l’avversione verso Bruxelles e ogni forma di regolazione internazionale degli affari politici; c’è la simpatia per quelli che si fanno giustizia da soli; c’è la richiesta ossessiva di pena, sicurezza, carcere; ora c’è anche l’adozione di un tono di giustificazione quando un italiano fa fuoco su uno straniero: non ci vuole nulla di più.

Si dirà che è il clima di una campagna elettorale, in cui Salvini punta a prendersi il monopolio, o quasi, della destra, mentre Berlusconi e Forza Italia puntano al voto moderato. Salvini imbarca voti agitando paure e additando il nemico; dopo il voto, però, se il centrodestra dovesse assumere davvero responsabilità di governo, Salvini dovrà necessariamente venire a più miti consigli. Ora, può darsi che vada davvero così, che Berlusconi riesca anche questa volta nell’impresa di smorzare le intemperanze dell’alleato leghista, come già in passato è riuscito a costituzionalizzare la destra nazionale (e addomesticare Bossi). Ma ci sono molte differenze. In primo luogo, Berlusconi non ha la stessa forza politica che aveva nel ’94, o nel 2001, e non è detto affatto che possa, dopo il 4 marzo, dettare le condizioni per un accordo nell’ambito del centrodestra. In secondo luogo, mentre nel ’94 Gianfranco Fini aveva avviato, a Fiuggi, la svolta che doveva avere un approdo liberale, oggi Salvini sta compiendo vigorosamente la virata in senso contrario. In terzo luogo, c’è stata una pesante crisi economica che ha reso più fragile, sia socialmente che politicamente, il Paese. In quarto e ultimo luogo, in Italia e anche fuori d’Italia è oggi molto più forte e pericoloso il risentimento populista e xenofobo.

Troppe differenze per sorvolare sulle uscite sconsiderate di Salvini. Ieri Berlusconi ha detto che la sparatoria di Macerata è stata «il gesto di uno squilibrato, che non può essere ricondotto a una lucida connotazione politica». Un giudizio misurato e prudente, che però non dice cosa il Cavaliere pensi della indubbia connotazione politica che, commentando i fatti di ieri, ha avuto la dichiarazione del capo della Lega. Forse è venuta l’ora che anche gli alleati moderati dicano espressamente a Salvini quanto vi è di odioso e inaccettabile nelle sue parole.

(Il Mattino, 4 febbraio 2018)

Gli intellettuali che sparano nel mucchio

Questa Italia tra disfattismo e speranza: l’importanza della critica ma anche di pensare positivo

Difficile scrivere un editoriale più sconsolato di quello che ha scritto ieri Ernesto Galli della Loggia. Prendendo spunto dalla formazione delle liste, così come i giornali in questi giorni le hanno raccontate, l’editorialista principe del Corriere della Sera si chiede retoricamente cosa mai abbiamo fatto per meritarci un simile spettacolo. L’interrogativo è retorico perché l’articolo fornisce la risposta: queste liste ce le meritiamo, il Paese se le merita, visto che non è affatto meglio dei suoi rappresentanti, salvo forse una sparuta minoranza, e visto anche che non c’è ragione alcuna perché la classe politica sia migliore della società che la elegge.

In realtà, è assai dubbio che sia valida questa teoria del rispecchiamento. Ognuno sa che il Parlamento (in Italia come in ogni altro Paese democratico) non offre una rappresentazione proporzionale per classe sociale, età o censo: non si capisce allora perché dovrebbe offrirla sotto gli altri profili – per esempio morale, o culturale – sotto i quali si manifesterebbe il degrado italiano. Il che significa che ci si può augurare, al contrario di quanto pensa Della Loggia, che in Parlamento vada un’Italia migliore.

Questo almeno in linea di principio, per non tagliare definitivamente le gambe a ogni ipotesi di cambiamento, o all’idea stessa che cambiamenti profondi possano passare anche attraverso l’azione politica e sociale. In linea di fatto, però, si può convenire che la qualità della rappresentanza politica si sia nel tempo deteriorata, anche se è difficile restringere questo giudizio al solo nostro Paese, come se altrove invece rivivesse l’Atene di Pericle. Le cause di questo scadimento sono diverse e complesse, ma attengono principalmente al deperimento del ruolo e della funzione politica nei sistemi sociali contemporanei. Se in tutti i partiti il capo politico recluta «parlamentari-camerieri, per lo più sconosciuti e insignificanti» è forse perché proprio i partiti non ci sono più, o non hanno più la fisionomia novecentesca, che tre le altre cose comportava una certa selezione delle classi dirigenti, e insieme forniva una preparazione sia ideologica che, semplicemente, pratico-amministrativa.

D’altra parte il caso italiano ha una sua peculiarità in ciò, che in questi anni il vento ha soffiato in una sola direzione, e cioè contro quei partiti che oggi si finisce col rimpiangere. Se quella che si profila non è una democrazia migliore è forse anche perché le voci di coloro che mettevano in guardia da una completa destrutturazione della democrazia dei partiti sono state ben poche. È prevalso invece lo schema secondo il quale bisogna soppiantare la classe politica, corrotta e inefficiente, affidandosi alle virtù civiche di un’operosa, moderna ed europea società civile, salvo scoprire ora desolati che non c’è niente da fare: sono (siamo) tutti uguali.

Ma è poi così? Siamo veramente tutti uguali? È veramente uguale per il Paese se a vincere saranno i Cinque Stelle oppure Berlusconi, la Lega oppure il Pd? Non mi pare. Comunque si giudichino le rispettive proposte politiche, non è vero affatto che siano uguali o che per il Paese sarebbe la stessa cosa. E, forse, compito di un intellettuale, di un giornale, della pubblica opinione in genere è quello di spiegare dove sono le differenze, piuttosto che lasciarsi andare a un giudizio del tipo: fanno tutti schifo. Né è di qualche utilità concludere, come fa Della Loggia, che fanno tutti schifo, ma siccome a fare schifo è in realtà l’Italia tutta intera (con le solite, pochissime eccezioni) non abbiamo neppure motivo di recriminare, di imprecare contro lo schifo.

L’editoriale, tuttavia, è un’imprecazione di questo genere. È una specie di invettiva contro il Paese degli evasori fiscali, degli ignoranti e dei furbi, da cui Galli della Loggia da gran tempo si sente ormai assediato, letteralmente soffocato. Tanto da finire con lo sparare nel mucchio: i futuri parlamentari saranno camerieri, cioè fedeli famigli dei leader, ma anche – lo citavo prima – «sconosciuti e insignificanti»: come se avere per esempio volti televisivi noti elevasse la qualità politica della classe dirigente. Oppure il criterio della riconoscibilità e della rilevanza si deve intendere che sia fondato sull’appartenenza alla ristretta cerchia della quale Galli stesso fa parte?

Cosa bisogna pensare, però, se questa ristretta cerchia – formata dai pochissimi che non evadono le tasse, non prosperano sull’illegalità, non smanettano su Facebook e non si stracciano le vesti per un selfie in più – abdica anch’essa ai suoi compiti, rinuncia non dico a nutrire una vocazione pedagogica verso il resto del Paese ma almeno a fornire un’analisi razionale, articolata, conseguente, magari spietata ma non generica e superficiale – come, ahimè, l’Italia che non sopporta? A qual titolo, allora, potrà ancora considerarsi migliore?

(Il Mattino, 1° febbraio 2018)