Un freno al cambiamento. La scelta del partito democratico, di non partecipare al confronto con i Cinque Stelle nel giro di incontri da questi avviati prima delle consultazioni del Quirinale, viene interpretata da Di Maio come un’irresponsabile e perdente manifestazione di indisponibilità. Irresponsabile, perché si sottrae al confronto su un’esigenza generale, quella di cercare una convergenza sui contenuti programmatici e di dare così un governo al Paese. E perdente, perché prova a fermare una spinta al cambiamento che i pentastellati presentano come ineluttabile, o quasi. Le proposte sono di buon senso, spiegano. Non hanno etichette ideologiche, aggiungono. Così che le decisioni del Pd possano apparire come una impuntatura infantile, quasi un capriccio. O forse solo il frutto vergognoso di un imbarazzo, quello procurato dalle difficoltà interne: dalla linea imposta da Renzi di starsene buoni all’opposizione per un po’ (non potrà che farci bene, ha detto l’ex segretario), e dalla tentazione dei suoi avversari – Franceschini, non solo Orlando – di aprire il gioco a tutto campo e provare a modificare gli equilibri nei gruppi parlamentari e nel partito, rimescolando le carte.
In realtà, c’è qualcosa di singolare (per usare un eufemismo) nel modo in cui i Cinque Stelle accostano le dinamiche parlamentari e istituzionali. Perché continuano a interpretare il voto del 4 marzo come una specie di voto presidenziale diretto, con il quale i cittadini avrebbero dato un mandato pieno e indiscusso al loro giovane Capo politico, e al programma e alla squadra di governo da lui proposta. Il che non è. Ma non solo perché il 32% raccolto dal M5S non equivale alla maggioranza assoluta, ma perché non è corretto affermare né che gli italiani abbiano scelto un premier, né che debba essere premier il capo politico del partito che ha preso più voti.
Questa elementare grammatica costituzionale è peraltro nota a tutti: tutti sanno che, da un lato, non c’era scritto da nessuna parte, sulla scheda elettorale, chi fosse il candidato premier; dall’altro, che anche se vi fosse stato scritto, sarebbe spettato comunque al Presidente della Repubblica – come in effetti spetta – valutare autonomamente, sulla base dei colloqui con le forze politiche, a chi conferire l’incarico. Tanto più nel contesto di una legge elettorale prevalentemente proporzionale, che obbliga i partiti a cercare un accordo in Parlamento. E ovviamente in un simile accordo, se accordo deve essere, non possono non rientrare tanto gli aspetti di merito, relativi al programma, quanto la scelta politica del futuro Presidente del Consiglio.
I Cinque Stelle invece no. Non ne vogliono sapere (almeno ufficialmente). Si ostinano a presentare la cosa come se queste decisioni fossero già state prese dal corpo elettorale. Come se non fosse da discutere né la composizione del governo né il suo profilo programmatico, e si trattasse solo di verificare se gli altri partiti siano o no pronti a venire sulle loro posizioni.
Ora, nel nuovo clima creatosi con l’approssimarsi del M5S al cuore politico e istituzionale del Paese quasi non usa più presentare i Cinque Stelle come una formazione populista: significherebbe mancare di rispetto ai milioni di elettori che li hanno votati, non vedere quali istanze reali, sociali, profonde, raccolgono. E infine non riconoscere l’acquisita centralità del Movimento, che sempre più starebbe indossando i panni di una nuova Democrazia cristiana, col che si intende di un partito di centro, capace solo per questo, e non per qualunquismo, di guardare a destra come a sinistra.
Sarà. Ma resta un tratto tipico delle forze populiste quello di presentare le proprie proposte come se fossero quello che tutti vogliono, e a cui dunque non si può dir di no senza essere irresponsabili, antidemocratici, moralmente indifendibili. In questo schema rientra pure la pretesa di scegliersi gli interlocutori dall’altra parte del campo. I Cinque Stelle parlano con Forza Italia, ma non ne vogliono sapere di Berlusconi: una pregiudiziale morale rende per loro il dialogo impossibile. In realtà, sul piano della semplice logica, non si capisce come si possa inciampare nel Cavaliere, ma non nella forza politica che al Cavaliere deve il suo consenso. Evidentemente, dietro il moralismo c’è sempre una buona dose di ipocrisia.
Infine, è ancora tipico del populismo non riconoscere la funzione liberale delle istanze di controllo, grazie alle quali si svolge ordinata la vita nelle istituzioni. La facilità con cui è saltata la nomina in Parlamento di un questore che fosse espressione del Pd, cioè dell’opposizione, ne è l’ovvia conseguenza. Il Pd non l’ha presa bene. Ma lì le acque sono già così agitate, le questioni aperte – dalla scelta del Segretario in giù – così delicate, che i Cinque Stelle han gioco facile ad approfittarne, facendo magari da sponda alla battaglia politica interna. Perciò possono dire ad alta voce: che si tratti del governo o delle Camere, I Cinque Stelle non trattano sulle poltrone. Dopodiché, però, in nome del popolo (e mentre gli altri discutono), hanno già pensato come occuparle tutte.
(Il Mattino, 3o marzo 2018)