Archivi del giorno: aprile 7, 2018

Così il leghista si è presa tutta la scena

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Si riparte dal bacio. Da Matteo che prende Luigi per la collottola, e da Luigi che si mette sulle punte per arrivare all’altezza di Matteo. L’autore del murale subitamente cancellato dai muri di Roma ci aveva giusto: i due hanno proprio una diversa statura. Perché Salvini le ha indovinate tutte, mentre Di Maio è rimasto impigliato nell’unico copione che il Movimento gli ha consentito finora di recitare: siamo il primo partito, il governo tocca a noi, io farò il Presidente del Consiglio. Le uniche variazioni sul tema hanno riguardato i paletti che Di Maio ha creduto di porre per dialogare con le altre forze politiche: niente Renzi di qua, niente Berlusconi di là. Ma è chiaro che queste non sono le condizioni per trovare un accordo: neanche nella forma di un presunto “contratto alla tedesca”. Perché in Germania la Merkel non ha sottoscritto solo un contratto, ma firmato un accordo e stretto un’alleanza – com’è naturale che sia, in un regime parlamentare in cui non si arriva alla maggioranza senza trovare un’intesa con gli altri partiti. E un’intesa non la si trova, se si pensa di potersi scegliere gli interlocutori in casa d’altri. Delle due l’una, dunque: o i Cinque Stelle non puntano affatto ad andare al governo, ma allora Di Maio, salito alla ribalta delle consultazioni, sta solo dilapidando il credito politico accumulato col voto del 4 marzo, e se e quando un esecutivo dovesse nascere senza l’apporto dei Cinque Stelle la sua silhouette finto-democristiana non potrà che sbiadire a confronto di figure più arrembanti, pronte a reinterpretare lo spirito rivoluzionario del Movimento (Di Battista a fine maggio parte per le Americhe, ma, novello eroe dei due mondi, prima o poi torna). Oppure in questo improbabile balletto in cui si fissano condizioni irricevibili sta scontando tutta l’immaturità politica del Movimento, la cui conversione a formazione responsabile, primo gruppo parlamentare al quale Mattarella dovrebbe affidare l’incarico fidando sulla sua centralità politica e numerica, non è riuscita nemmeno a metà.

Centrale, nel senso che proprio non si vede come se ne possa prescindere è, oggi, Matteo Salvini. È stato lui il protagonista di queste prime settimane. È stato lui a trovare la quadra nell’elezione dei Presidenti delle due Camere, ed è ancora lui a formulare ora, a nome di tutta la coalizione di centrodestra, una proposta di governo ai Cinque Stelle. Da posizione di forza: coi voti della Lega, ma anche con il sostegno di Forza Italia e Fratelli d’Italia. Dapprima, nella scelta dei due Presidenti ha rafforzato la sua leadership sul centrodestra, tagliando pure la strada a intese diverse, trasversali, con il partito democratico. Se i Cinque Stelle da un lato o Forza Italia dall’altro ci hanno pensato, hanno fatto male i loro conti. Poi ha cominciato a restringere i margini di manovra dei pentastellati, in vista della trattativa per il governo. Il primo tempo gli è servito per mettersi al traino Forza Italia; il secondo tempo lo sta giocando per mettersi al traino il M5S. Salvini ha tirato la riga dove andava tirata, perché sapeva che nessuno avrebbe trovato la forza per modificarne il tracciato: nessun governo col Pd, ha detto, ma così si è lasciato libero tutto il resto del campo, quello sul quale soltanto è possibile che si giochi realisticamente la partita per il governo del Paese.

Ieri poi ha messo a segno un altro, rotondissimo punto. Dopo l’incontro col Presidente della Repubblica, Di Maio aveva dichiarato di non riconoscere una coalizione di centrodestra «perché non solo si sono presentati alle elezioni con tre candidati premier, ma perché si sono preparati alle consultazioni separati». Questa del non riconoscimento è una cosa che non si ascolta neanche nei negoziati dopo una guerra civile. Ad ogni modo, tempo ventiquattro ore, anche meno, e Salvini ottiene dagli alleati di recarsi insieme al Quirinale per il prossimo giro di consultazioni. Il Cavaliere accetta di buon grado, Giorgia Meloni rivendica la primogenitura dell’idea. Risultato: anziché spaccarsi, com’era parso in un primo momento dopo le parole di Berlusconi contro «un governo fatto di invidia sociale, odio e pauperismo» (leggasi: un governo grillino), il centrodestra si ritrova unito: una sola delegazione, e un solo candidato per la premiership, Matteo Salvini.

Naturalmente, non è detto affatto che alla fine della fiera Salvini si ritroverà Presidente del Consiglio e che i Cinque Stelle si contenteranno di prendersi qualche ministero. È anche possibile che, dopo aver rinunciato alla Presidenza delle Camere, la Lega debba rinunciare anche a Palazzo Chigi. Ma se questa fase non si concluderà con un brusco ritorno alle urne – cosa che bisognerà tenere di conto fino alla fine – non si vede all’orizzonte alcuna soluzione politica (politica, non istituzionale) che non ruoti intorno a Salvini. E anche se si dovesse davvero precipitare verso nuove elezioni, il leader della Lega è fin d’ora quello che si è posizionato meglio. Che ha mostrato maggiore disponibilità e aperture, senza inventarsi l’improbabile politica dei due forni, di andreottiana memoria, malamente tentata da Di Maio. E queste cose, si sa, in politica hanno un prezzo.

(Il Mattino, 7 aprile 2018)

Se i genitori si fanno da parte

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In ogni tragedia c’è una parte di fatalità. Una vita spezzata è sempre una vita che si è infranta contro una sorte assurda e crudele: perché quella notte? Perché quell’ultimo incontro? Perché quella sfortunata coincidenza o quella fatale leggerezza? Anche se gli inquirenti dovessero far luce sulle ultime ore di Nico Marra Incisetto, quelle domande non troveranno risposta né daranno consolazione. Vi è dunque sempre una distanza incolmabile tra un destino individuale e le riflessioni, a volte persino l’angoscia che la sua tragica fine può suscitare, quando si viene raggiunti dalla sua tragica eco. Quando si pensa a come, banalmente, quell’ultima notte è trascorsa: tra amici, in discoteca, bevendo e ballando come capita a migliaia di altri ragazzi di fare.

Tuttavia proprio questo non riesce a non chiedersi Luigi Tuccillo, un papà di Napoli, così si firma ieri su questo giornale: come capita ai ragazzi di fare? Cioè: come fanno ciò che fanno? Con quale consapevolezza, con quale attaccamento alla vita e alle cose? Con quale senso delle priorità, quale preoccupazione per il proprio futuro, quale ordine di idee sul mondo e su di sé? Se poi si è genitori, una domanda raggiunge e supera tutte le altre: quella che mette in causa se stessi, la propria capacità di entrare nei pensieri dei propri ragazzi, di avere una parola per aiutarli, come si diceva una volta, a discernere il bene dal male. E a dare il giusto peso alle cose.

Da dove infatti prendono i loro esempi? Vi sono maestri, genitori, preti che valgono per loro come figure esemplari? Sempre meno. Non ci sono nemmeno se si tratta di contestarli. Non sono lì né per dare né per prendere botte. Si sono semplicemente fatti da parte. Magari con la scusa che la verità è sempre autoritaria e ognuno deve poter trovare la sua strada. Mai nessuno che pensi che se ognuno sta solo sulla sua strada, nessuno su quella via incontra più nessuno. Mentre incontro significa relazione, e la relazione può accendersi solo a partire da una differenza: da un più rispetto a un meno, da un prima rispetto a un dopo; da un alto rispetto a un basso. Ma dove si trovano più questi dislivelli, questi scarti: queste asperità, anche?

Io non voglio dire che l’orizzontalità delle relazioni nel mondo liscio di internet ha ormai fatto franare tutte queste difficili mediazioni, creando comunità virtuali (virtuale vuol quasi dire magiche, ormai) al contempo selettive e fragili, illimitatamente aperte al mondo ma anche, al tempo stesso, chiuse e impermeabili come nicchie esclusive. In fondo, fatte le debite differenze, geremiadi come queste si ascoltano da quando esiste il mondo. E se proprio vogliamo tirare in ballo l’Edipo, o la scomparsa del padre, ci tocca ricordare che l’anno prossimo fa cent’anni la conferenza tenuta dal Paul Federn, un allievo di Freud, dal titolo quanto mai emblematico: la società senza padre. Insomma: è roba vecchia, di quando non c’era internet, ma nemmeno la televisione. Però questo non può esimerci dal chiederci se la stessa strutturazione della personalità non sia toccata – non so se peggiorata, ma almeno modificata, e in profondità – dai nuovi contesti sociali, “mediali”, in cui si svolge la nostra esistenza, privata e pubblica. Ce lo si chiede con riguardo alla sfera politica, o alle attività professionali: come non chiederselo anche con riguardo agli ambiti più ristretti della vita familiare e dei rapporti amicali?

Ora, io non so davvero se sia colpa della spasmodica attenzione ai like, ai selfie, alle storie su instagram e alle chat su whatsapp, se sia corretto parlare di una estetizzazione degli stili di vita che, a certi livelli di reddito, non conoscerebbe effettivi contrappesi. Allo stesso modo, non mi sento di dire che in certi ambienti conta più di ogni altra cosa la bottiglia di champagne sul tavolo o l’esibizione di un’auto sportiva. Forse sì; forse però è sempre stato così. Forse certi fenomeni si ingigantiscono, è vero, grazie alla velocità della Rete, ma forse è possibile che sempre in Rete si sviluppino anche anticorpi: nuove forme di relazione, di incontro e di mediazione. Nuovi tutorial, magari, come si potrebbe dire oggi.

Non voglio insomma trovarmi tra gli apologeti, ma nemmeno tra i catastrofisti. Voglio però poter fare esercizio di critica. E invitare a farlo. Ieri Luigi Tuccillo scriveva sconsolato che quasi non c’è modo di fermarli. Senza abdicare al compito, ma anche senza troppo fiducia che ci si possa riuscire. A fermare loro, i nostri ragazzi: se escono di casa, se si sballano o bevono un po’ troppo: «ogni richiamo al buon senso è retorica». Forse. Ma non è una retorica inutile, è l’esercizio quotidiano e irrinunciabile dell’essere genitori. Che poggia non su quello che c’è attorno ai nostri figli, ma sul modo in cui siamo noi. Perché siamo noi che non sopportiamo il peso della loro educazione, non loro. Siamo noi che li assolviamo più di quanto loro vogliano essere assolti. Temiamo noi più di loro che possano sentirsi esclusi, o sfigati, perché siamo noi per primi a non reggere il gioco dell’inclusione e dell’esclusione.

De te fabula narratur: di te, cioè di noi e della nostra responsabilità. Che è tale, come diceva Bonhoeffer, solo se è sentita verso di sé e verso i propri atti, ma insieme anche verso tutti. E verso chiunque perda la vita in modo assurdo.

(Il Mattino, 5 aprile 2018)

Il dilemma del Pd: che cosa vuol dire sinistra in Europa

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Socialisti perché europeisti, o europeisti perché socialisti? Non è un gioco di parole, e neppure un mero dubbio sulla collocazione del partito democratico in Europa, ma una domanda sull’infrastruttura culturale – starei per dire ideologica – del Pd. Una domanda non rinviabile, dal momento che manca solo un anno alle prossime elezioni europee. Una domanda, e forse anche una ciambella di salvataggio, per un partito che, dopo la rotta del 4 marzo, ha bisogno di dotarsi di un forte progetto politico.

Che cosa dunque significa porre una simile questione? In primo luogo una cosa: che i due fulcri ideali del Pd – il socialismo democratico, da un lato, l’europeismo dall’altro – non vanno considerati polarmente opposti. In realtà, la tentazione di fare altrimenti serpeggia. A sinistra, vi è in effetti chi pensa che l’Unione europea sia stata e sia ancora solo il nome che la globalizzazione neoliberista ha assunto in Europa. Vi è chi pensa che quello che sono stati negli anni Ottanta Reagan e la Thatcher nel mondo, è quello che è arrivato in Europa negli anni Novanta con Maastricht e l’egemonia tedesca (anche grazie all’arrendevolezza della Terza via di Clinton e Blair – e, in Italia, dell’Ulivo). E, dunque, i due fuochi dell’ellisse democratica debbono allontanarsi e infine separarsi: si può essere socialisti solo nella dimensione nazionale; si può essere socialisti solo fuori dall’Unione europea. Compagni, ci siamo sbagliati: l’Unione è un vicolo cieco e bisogna tornare indietro.

Se così fosse, dirsi socialisti europei sarebbe ormai una contraddizione in termini. Aver praticato questa contraddizione sarebbe il motivo della sconfitta del socialismo democratico. Il risultato del 4 marzo non si legge da solo, ma come ultimo anello di una catena che, nel tempo, si è stretta sempre di più attorno al collo della sinistra.

Questa sinistra (sinistra intellettuale, ancor prima che sinistra politica: ma credere che sia possibile fare politica in termini puramente pragmatici, senza un filo di pensiero, è un errore esiziale) sarebbe insomma disponibile a compiere una mossa opposta, ma speculare a quella che sovranisti e nazionalisti in giro per il continente propongono: disfare l’Unione. «Factum infectum fieri nequit», dice l’adagio: non si può fare come se i fatti non fossero avvenuti. E però in politica si può provare a fare pure questo, anche se in realtà una deflagrazione dell’Unione, o il definitivo, drastico ridimensionamento delle sue ambizioni, non riporterebbe affatto i Paesi europei là dov’erano, dopo la caduta del Muro di Berlino, e la fine del mondo bipolare, ma chissà dove.

Chi però a sinistra non volesse rischiare questa deriva, ha il dovere di chiarire in qual modo intende legare i due termini. Non si tratta di un’esigenza soltanto concettuale o morale, ma di una necessità di ordine strategico. Perché lo scenario europeo è destinato a mutare e perché i confini delle famiglie politiche continentali sono anch’essi in via di ridefinizione.

Così torna la domanda. Detto che non si tratta di sciogliere ogni legame, Il modo in cui si annodano socialismo riformista ed europeismo può essere duplice. In un caso, si è anzitutto europeisti, dopodiché si valuta quanto socialismo, in termini di politiche pubbliche, può essere ospitato sotto il tetto dell’Unione. Nell’altro caso si è anzitutto socialisti, e solo dopo si definiscono i lineamenti dell’Europa possibile. Si tratta di due modi diversi di definire la propria identità politica e culturale. Ancora in forma di domanda: la sinistra prova a legittimare democraticamente l’Europa per produrre politiche efficaci, oppure l’efficacia delle politiche europee è la via attraverso la quale ricostruire la fiducia negli strumenti comunitari e la sua piena legittimità democratica?

Definire con chiarezza il profilo dell’alternativa aiuta, io credo, a non pretendere di dirimere la questione infilandosi in discussione su ciò che è vivo e ciò che è morto dell’eredità del Novecento. Perché in ogni caso è viva la domanda. Viva come problema politico, posto concretamente dall’iniziativa presa dal Presidente Macron, che cerca alleati nella sua battaglia per cambiare l’Europa. Si muove, Macron, fuori dallo schema tradizionale: socialisti di qua, popolari di là. Denunciandone l’insufficienza. Perché da un lato i popolari rischiano di essere incalzati dai movimenti nazionalisti e risucchiati su posizioni apertamente conservatrici; dall’altro i socialisti sono tentati dal rilanciare la loro azione su piattaforme demagogiche e radicaleggianti.

Se questo è lo stato delle cose, allora al Pd ora tocca battere un colpo. Gli tocca stabilire cosa significa il suo europeismo, e poi farne una bandiera non retorica. Gli tocca capire se vi è ancora, e qual è, una causa comune in Europa. Gli tocca chiarire se la maniera in cui va coniugato con il suo riformismo è congruente con la modificazione sostanziale del quadro politico europeo alla quale pensa Macron, oppure no. Gli tocca decidere, infine, se Parigi val bene una messa.

(Il Mattino, 1° aprile 2018)