Così il leghista si è presa tutta la scena

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Si riparte dal bacio. Da Matteo che prende Luigi per la collottola, e da Luigi che si mette sulle punte per arrivare all’altezza di Matteo. L’autore del murale subitamente cancellato dai muri di Roma ci aveva giusto: i due hanno proprio una diversa statura. Perché Salvini le ha indovinate tutte, mentre Di Maio è rimasto impigliato nell’unico copione che il Movimento gli ha consentito finora di recitare: siamo il primo partito, il governo tocca a noi, io farò il Presidente del Consiglio. Le uniche variazioni sul tema hanno riguardato i paletti che Di Maio ha creduto di porre per dialogare con le altre forze politiche: niente Renzi di qua, niente Berlusconi di là. Ma è chiaro che queste non sono le condizioni per trovare un accordo: neanche nella forma di un presunto “contratto alla tedesca”. Perché in Germania la Merkel non ha sottoscritto solo un contratto, ma firmato un accordo e stretto un’alleanza – com’è naturale che sia, in un regime parlamentare in cui non si arriva alla maggioranza senza trovare un’intesa con gli altri partiti. E un’intesa non la si trova, se si pensa di potersi scegliere gli interlocutori in casa d’altri. Delle due l’una, dunque: o i Cinque Stelle non puntano affatto ad andare al governo, ma allora Di Maio, salito alla ribalta delle consultazioni, sta solo dilapidando il credito politico accumulato col voto del 4 marzo, e se e quando un esecutivo dovesse nascere senza l’apporto dei Cinque Stelle la sua silhouette finto-democristiana non potrà che sbiadire a confronto di figure più arrembanti, pronte a reinterpretare lo spirito rivoluzionario del Movimento (Di Battista a fine maggio parte per le Americhe, ma, novello eroe dei due mondi, prima o poi torna). Oppure in questo improbabile balletto in cui si fissano condizioni irricevibili sta scontando tutta l’immaturità politica del Movimento, la cui conversione a formazione responsabile, primo gruppo parlamentare al quale Mattarella dovrebbe affidare l’incarico fidando sulla sua centralità politica e numerica, non è riuscita nemmeno a metà.

Centrale, nel senso che proprio non si vede come se ne possa prescindere è, oggi, Matteo Salvini. È stato lui il protagonista di queste prime settimane. È stato lui a trovare la quadra nell’elezione dei Presidenti delle due Camere, ed è ancora lui a formulare ora, a nome di tutta la coalizione di centrodestra, una proposta di governo ai Cinque Stelle. Da posizione di forza: coi voti della Lega, ma anche con il sostegno di Forza Italia e Fratelli d’Italia. Dapprima, nella scelta dei due Presidenti ha rafforzato la sua leadership sul centrodestra, tagliando pure la strada a intese diverse, trasversali, con il partito democratico. Se i Cinque Stelle da un lato o Forza Italia dall’altro ci hanno pensato, hanno fatto male i loro conti. Poi ha cominciato a restringere i margini di manovra dei pentastellati, in vista della trattativa per il governo. Il primo tempo gli è servito per mettersi al traino Forza Italia; il secondo tempo lo sta giocando per mettersi al traino il M5S. Salvini ha tirato la riga dove andava tirata, perché sapeva che nessuno avrebbe trovato la forza per modificarne il tracciato: nessun governo col Pd, ha detto, ma così si è lasciato libero tutto il resto del campo, quello sul quale soltanto è possibile che si giochi realisticamente la partita per il governo del Paese.

Ieri poi ha messo a segno un altro, rotondissimo punto. Dopo l’incontro col Presidente della Repubblica, Di Maio aveva dichiarato di non riconoscere una coalizione di centrodestra «perché non solo si sono presentati alle elezioni con tre candidati premier, ma perché si sono preparati alle consultazioni separati». Questa del non riconoscimento è una cosa che non si ascolta neanche nei negoziati dopo una guerra civile. Ad ogni modo, tempo ventiquattro ore, anche meno, e Salvini ottiene dagli alleati di recarsi insieme al Quirinale per il prossimo giro di consultazioni. Il Cavaliere accetta di buon grado, Giorgia Meloni rivendica la primogenitura dell’idea. Risultato: anziché spaccarsi, com’era parso in un primo momento dopo le parole di Berlusconi contro «un governo fatto di invidia sociale, odio e pauperismo» (leggasi: un governo grillino), il centrodestra si ritrova unito: una sola delegazione, e un solo candidato per la premiership, Matteo Salvini.

Naturalmente, non è detto affatto che alla fine della fiera Salvini si ritroverà Presidente del Consiglio e che i Cinque Stelle si contenteranno di prendersi qualche ministero. È anche possibile che, dopo aver rinunciato alla Presidenza delle Camere, la Lega debba rinunciare anche a Palazzo Chigi. Ma se questa fase non si concluderà con un brusco ritorno alle urne – cosa che bisognerà tenere di conto fino alla fine – non si vede all’orizzonte alcuna soluzione politica (politica, non istituzionale) che non ruoti intorno a Salvini. E anche se si dovesse davvero precipitare verso nuove elezioni, il leader della Lega è fin d’ora quello che si è posizionato meglio. Che ha mostrato maggiore disponibilità e aperture, senza inventarsi l’improbabile politica dei due forni, di andreottiana memoria, malamente tentata da Di Maio. E queste cose, si sa, in politica hanno un prezzo.

(Il Mattino, 7 aprile 2018)

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