In ogni tragedia c’è una parte di fatalità. Una vita spezzata è sempre una vita che si è infranta contro una sorte assurda e crudele: perché quella notte? Perché quell’ultimo incontro? Perché quella sfortunata coincidenza o quella fatale leggerezza? Anche se gli inquirenti dovessero far luce sulle ultime ore di Nico Marra Incisetto, quelle domande non troveranno risposta né daranno consolazione. Vi è dunque sempre una distanza incolmabile tra un destino individuale e le riflessioni, a volte persino l’angoscia che la sua tragica fine può suscitare, quando si viene raggiunti dalla sua tragica eco. Quando si pensa a come, banalmente, quell’ultima notte è trascorsa: tra amici, in discoteca, bevendo e ballando come capita a migliaia di altri ragazzi di fare.
Tuttavia proprio questo non riesce a non chiedersi Luigi Tuccillo, un papà di Napoli, così si firma ieri su questo giornale: come capita ai ragazzi di fare? Cioè: come fanno ciò che fanno? Con quale consapevolezza, con quale attaccamento alla vita e alle cose? Con quale senso delle priorità, quale preoccupazione per il proprio futuro, quale ordine di idee sul mondo e su di sé? Se poi si è genitori, una domanda raggiunge e supera tutte le altre: quella che mette in causa se stessi, la propria capacità di entrare nei pensieri dei propri ragazzi, di avere una parola per aiutarli, come si diceva una volta, a discernere il bene dal male. E a dare il giusto peso alle cose.
Da dove infatti prendono i loro esempi? Vi sono maestri, genitori, preti che valgono per loro come figure esemplari? Sempre meno. Non ci sono nemmeno se si tratta di contestarli. Non sono lì né per dare né per prendere botte. Si sono semplicemente fatti da parte. Magari con la scusa che la verità è sempre autoritaria e ognuno deve poter trovare la sua strada. Mai nessuno che pensi che se ognuno sta solo sulla sua strada, nessuno su quella via incontra più nessuno. Mentre incontro significa relazione, e la relazione può accendersi solo a partire da una differenza: da un più rispetto a un meno, da un prima rispetto a un dopo; da un alto rispetto a un basso. Ma dove si trovano più questi dislivelli, questi scarti: queste asperità, anche?
Io non voglio dire che l’orizzontalità delle relazioni nel mondo liscio di internet ha ormai fatto franare tutte queste difficili mediazioni, creando comunità virtuali (virtuale vuol quasi dire magiche, ormai) al contempo selettive e fragili, illimitatamente aperte al mondo ma anche, al tempo stesso, chiuse e impermeabili come nicchie esclusive. In fondo, fatte le debite differenze, geremiadi come queste si ascoltano da quando esiste il mondo. E se proprio vogliamo tirare in ballo l’Edipo, o la scomparsa del padre, ci tocca ricordare che l’anno prossimo fa cent’anni la conferenza tenuta dal Paul Federn, un allievo di Freud, dal titolo quanto mai emblematico: la società senza padre. Insomma: è roba vecchia, di quando non c’era internet, ma nemmeno la televisione. Però questo non può esimerci dal chiederci se la stessa strutturazione della personalità non sia toccata – non so se peggiorata, ma almeno modificata, e in profondità – dai nuovi contesti sociali, “mediali”, in cui si svolge la nostra esistenza, privata e pubblica. Ce lo si chiede con riguardo alla sfera politica, o alle attività professionali: come non chiederselo anche con riguardo agli ambiti più ristretti della vita familiare e dei rapporti amicali?
Ora, io non so davvero se sia colpa della spasmodica attenzione ai like, ai selfie, alle storie su instagram e alle chat su whatsapp, se sia corretto parlare di una estetizzazione degli stili di vita che, a certi livelli di reddito, non conoscerebbe effettivi contrappesi. Allo stesso modo, non mi sento di dire che in certi ambienti conta più di ogni altra cosa la bottiglia di champagne sul tavolo o l’esibizione di un’auto sportiva. Forse sì; forse però è sempre stato così. Forse certi fenomeni si ingigantiscono, è vero, grazie alla velocità della Rete, ma forse è possibile che sempre in Rete si sviluppino anche anticorpi: nuove forme di relazione, di incontro e di mediazione. Nuovi tutorial, magari, come si potrebbe dire oggi.
Non voglio insomma trovarmi tra gli apologeti, ma nemmeno tra i catastrofisti. Voglio però poter fare esercizio di critica. E invitare a farlo. Ieri Luigi Tuccillo scriveva sconsolato che quasi non c’è modo di fermarli. Senza abdicare al compito, ma anche senza troppo fiducia che ci si possa riuscire. A fermare loro, i nostri ragazzi: se escono di casa, se si sballano o bevono un po’ troppo: «ogni richiamo al buon senso è retorica». Forse. Ma non è una retorica inutile, è l’esercizio quotidiano e irrinunciabile dell’essere genitori. Che poggia non su quello che c’è attorno ai nostri figli, ma sul modo in cui siamo noi. Perché siamo noi che non sopportiamo il peso della loro educazione, non loro. Siamo noi che li assolviamo più di quanto loro vogliano essere assolti. Temiamo noi più di loro che possano sentirsi esclusi, o sfigati, perché siamo noi per primi a non reggere il gioco dell’inclusione e dell’esclusione.
De te fabula narratur: di te, cioè di noi e della nostra responsabilità. Che è tale, come diceva Bonhoeffer, solo se è sentita verso di sé e verso i propri atti, ma insieme anche verso tutti. E verso chiunque perda la vita in modo assurdo.
(Il Mattino, 5 aprile 2018)