Archivi del giorno: aprile 10, 2018

Matteo e Luigi i gemelli diversi

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Il terzo tempo della partita giocata dalle forze politiche in questo inizio di legislatura volge al brutto. Ieri i due vincitori delle elezioni – così ci siamo abituati a chiamarli, anche se non hanno ancora conquistato il trofeo di Palazzo Chigi – se le sono date di santa ragione. Salvini ha provato inizialmente a fare l’ottimista, concedendo a un governo di coalizione fra il centrodestra e i Cinque Stelle il 51% di probabilità di nascere. Di Maio non ha perso tempo: un governo del genere – con Berlusconi e «l’ammucchiata di centrodestra», per dirla con la carineria che ha voluto usare – avrebbe zero probabilità di nascere. Secca replica del leader della Lega: «Di Maio in questo momento mi interessa meno di zero». Siamo, insomma, al muro contro muro.

Non è così che è cominciata la partita tra Lega e Cinque Stelle. All’indomani del voto, era prevalente il legittimo orgoglio per il successo elettorale, ma anche la doverosa fiducia circa la possibilità di formare un governo. Come se la forza delle cose, manifestatasi così prepotentemente nelle urne, dovesse bastare a convincere tutti che non fosse più possibile frenare la spinta al cambiamento. La nascita della Terza Repubblica. Per Di Maio, le elezioni erano state «un trionfo», grazie ai voti di 11 milioni di italiani, a cui – spiegava – bisognava dare una risposta sui temi. E, per darla, il Capo dei Cinque Stelle si dichiarava aperto al confronto con tutte le forze politiche, a partire dalla scelta dei Presidenti delle Camere. Non diceva tutte meno una, Di Maio. Non diceva: tutte meno Forza Italia. Non era ancora il momento di provare a spaccare il centrodestra, per ottenere la guida del governo in quanto prima forza politica del Paese. Dal canto suo, Salvini aveva da festeggiare lo storico sorpasso sugli azzurri: «La Lega ha vinto all’interno della coalizione – dichiarava il leader del Carroccio – e rimarrà alla guida del centrodestra. Abbiamo il diritto-dovere di governare».

Naturalmente non mancavano gli altolà. Il 10 marzo Di Maio postava un video su Facebook in cui metteva in guardia dal fare un governo di tutti senza il Movimento: «sarebbe un clamoroso insulto alla democrazia e ai cittadini». Il giorno dopo anche Salvini chiariva le sue idee a riguardo di soluzioni diverse da quelle che riconoscessero la vittoria del centrodestra: «se bisogna inventarsi pateracchi o minestroni, non sono assolutamente a disposizione», diceva. E se Di Maio ribadiva nei giorni seguenti che il governo i Cinque Stelle lo avrebbero fatto solo partendo dalla squadra presentata in campagna elettorale, Salvini escludeva dal novero delle cose possibili solo una collaborazione col Pd: «non esiste», e fine delle trasmissioni.

Poi è venuta la prima, importante scadenza istituzionale: l’elezione dei Presidenti delle Camere. E dalle puntute dichiarazioni di principio si è passata alla più morbida ricerca di un accordo. Che è stata trovato, forzando la mano al Cavaliere. Lì si è disegnata per la prima volta la possibilità di un asse fra Cinque Stelle e Lega, che potrebbe fare da perno anche alla formazione del governo. Perché Di Maio e i suoi hanno rifiutato di intavolare una discussione con Berlusconi e di votarne la prima scelta, Paolo Romani, e il gioco è riuscito. Salvini ha fatto il bel gesto di non chiedere nulla per la Lega, rendendo possibile che il centrodestra votasse il grillino Fico alla Camera, per avere i voti dei Cinque Stelle al Senato, sulla Casellati. Dentro Forza Italia vi sono stati forti malumori: dopo tutto, Berlusconi era quello che pochi giorni prima aveva detto che lui avrebbe aperto la porta ai Cinque Stelle «solo per cacciarli via». Ma il Cavaliere, si sa, è un ottimo incassatore e non ha fatto un plissé.

A indicare un clima diverso erano comunque dichiarazioni al miele come quelle di Beppe Grillo, che subito dopo l’elezione dei due Presidenti affermava: «Salvini è uno che quando dice una cosa la mantiene, che è una cosa rara». Dall’altra parte il braccio destro di Salvini, Giorgetti, interrogato sul reddito di cittadinanza ci ragionava un po’ su per poi assicurare che «se è qualcosa che incentivi la ricerca del lavoro, allora può essere valutato».

Tutte rose e fiori? Evidentemente no, se con la scadenza successiva, il terzo tempo delle consultazioni al Quirinale apertosi ai primi di aprile, il clima è mutato. Fino alle ruvidissime parole di ieri. Il fatto è che per Salvini tenere unito il centrodestra è una priorità: è la condizione che permette alla coalizione di stare davanti ai Cinque Stelle e di aspirare alla premiership. Per Di Maio, invece, che passi indietro in questa fase non è disposto a farne, un accordo con Forza Italia è politicamente troppo oneroso, e d’altra parte se gli riuscisse di spaccare il centrodestra peserebbe il doppio della Lega. Gli obiettivi politici dei due contendenti sono dunque opposti.

Quel che si può aggiungere, è che entrambi pensano, al punto in cui sono, di avere ancora tempo a disposizione per presentarsi a Mattarella senza formulare ipotesi subordinate, con tutta la forza di cui possono disporre: Salvini andando ad Arcore per dare del centrodestra una rappresentazione unitaria (cosa non facile, visto che da quelle parti c’è chi ancora prova a tirar dentro il Pd, più che il M5S), Di Maio facendosi i selfie insieme a Grillo e Casaleggio, per dimostrare che non ci sono divisioni interne al Movimento.

Ora, ci sarà un altro tempo, dopo che si sarà consumato quello del tatticismo spigoloso di quest’ultima settimana? È difficile fare previsioni, perché nessuno, neppure gli attori politici protagonisti di questo tiro alla fune, sanno fino a quando la corda reggerà. E la verità sta probabilmente nel mezzo: forse non è il 51%, ma non è neanche lo zero.

(Il Mattino, 10 aprile 2018)

 

Tutti divisi alla meta

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L’idea del vertice domenicale ad Arcore era anzitutto quella di togliere ai Cinque Stelle un argomento: se Di Maio dice che il centrodestra è diviso, noi dimostriamo di essere uniti. Stendiamo un comunicato ufficiale, parliamo con una voce sola, ci presentiamo insieme dal Capo dello Stato per il secondo giro di consultazione, e insieme rivendichiamo la guida dell’esecutivo.
La dimostrazione di compattezza dovrebbe persuadere il Quirinale che l’incarico di formare il governo non può andare a Luigi Di Maio. La matematica non è un’opinione: il suo 32% vale meno del nostro 37%. Tutti e due i numeri sono, per la verità, lontani dall’agognata maggioranza, ma uno è più grande dell’altro: come può Mattarella non tenerne conto?
Siccome la tattica la fa da padrone, in queste settimane, si può aggiungere che si tratta probabilmente solo di una prima mossa, non dello scacco matto finale. Ma, in definitiva, è quello che serve affinché, anche grazie alla moral suasion del Presidente della Repubblica, il Movimento Cinque Stelle tolga dal tavolo la condizione finora reputata irrinunciabile, di rivendicare per il proprio Capo la premiership. A quel punto, avrà ragionato Salvini, e solo a quel punto, non sarà impossibile neppure ottenere un secondo risultato: quello di persuadere Silvio Berlusconi a rimanere in una posizione defilata, tenuto conto delle resistenze che i Cinque Stelle continuano ad opporre a un governo col Cavaliere. Ministri dal profilo non troppo ingombrante, oppure una sorta di appoggio esterno, o un cospicuo bilanciamento sulle posizioni ministeriali, e insomma una formula che salvi capra e cavoli. Se ognuno cede qualcosa, il governo si può fare. Del resto, lo stesso Salvini ha già da tempo messo in conto che non sarà lui il futuro Presidente del Consiglio. Solo un nome “terzo” può infatti consentire di avvicinare fino a congiungere il centrodestra e i Cinque Stelle.
Ma dopo il comunicato ufficiale sono arrivate le dichiarazioni di Salvini, e quelle di Giorgia Meloni. Il primo ha ripetuto per l’ennesima volta che se c’è una cosa di cui è sicuro, è che non farà mai e poi mai un governo con il Pd. Ora, perché il leader della Lega sente così impellente il bisogno di riaffermare, avvalorare, ribadire quel che ai più parrebbe persino scontato? Evidentemente, c’è qualcuno, nel centrodestra, che continua a ventilare l’ipotesi. Qualcuno che immagina che, certo, è anzitutto da scongiurare l’ipotesi dell’incarico a Di Maio, ma che la mossa successiva debba essere quella di mandare un Presidente del Consiglio indicato dal Presidente della Repubblica a cercare una maggioranza in Parlamento. Il centrodestra sosterrebbe anzitutto un tentativo in tal senso di Matteo Salvini, ma il nome, dopo tutto, non è la cosa più importante. I giochi, infatti, potrebbero riaprirsi: Salvini potrebbe non farcela, ma potrebbe farcela un altro nome, che potrebbe rivolgersi, per riuscire, non più ai Cinque Stelle ma ai democratici. Una personalità quasi-istituzionale alla quale il Pd potrebbe aver difficoltà a dir di no.
Così pare debba leggersi la nota diramata dalla Meloni: vogliamo l’incarico a Salvini, e cercheremo una maggioranza pur che sia in Parlamento. Ma così Salvini non ci sta. Non ci può stare. Non è disposto a bruciarsi sull’altare di una riedizione della grande coalizione. Che si scriverebbe non più: centrosinistra-Forza Italia, ma centrodestra-Pd. Cambiano i fattori, cambia il loro peso relativo: ma per Salvini fa lo stesso. E si capisce: una maggioranza simile è proprio ciò da cui la Lega si è tenuta alla larga in tutti questi anni, dal governo Monti in poi. Non solo. Questa è stata anche la principale ragione della grande rimonta leghista, che ha quadruplicato i suoi voti proprio facendo opposizione ai governi a guida Pd, sostenuti dal centrodestra. E, in effetti, è stata Forza Italia a raggiungere in corso di legislatura la Lega all’opposizione, non il contrario.
Dunque: la prima mossa, il vertice unitario, è stata compiuta. Ma su quella che deve seguire non c’è identità di vedute. E per la verità identità di vedute non la si trova ormai da nessuna parte. Non dentro il partito democratico, che procede con le posizioni ufficiali (gli elettori ci hanno collocati all’opposizione) e i distinguo della minoranza (Franceschini: dobbiamo andare a vedere il gioco di Di Maio). Non dentro gli stessi Cinque Stelle, dove tutti rimangono coperti e allineati dietro il Capo politico, ma al contempo tutti si domandano
 a ogni passo che cosa dice Grillo, che cosa pensa la base, che cosa faranno gli ortodossi, i duri e puri, in caso di accordo col centrodestra. Un bel rebus. Che non è detto troverà soluzione. Né è detto che, se pure verrà trovata, il panorama delle forze politiche che oggi osserviamo rimarrà a lungo inalterato.
(Il Mattino, 9 aprile 2018)

C’era una volta il Vaffa. E ora?

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Che cos’è il Movimento Cinque Stelle? Si fa torto al Movimento se si considera l’intervista rilasciata a «Repubblica» da Di Maio, il Capo politico, come un documento attendibile di ciò che sono oggi i Cinque Stelle? Forse sì, dal momento che in questa fase è inevitabile che prevalgano esigenze di natura puramente tattica: il centrodestra fa mostra di compattezza annunciando di presentarsi unito al prossimo appuntamento col Presidente della Repubblica; Di Maio reagisce aprendo al Partito democratico. E tuttavia i lineamenti di questa inedita apertura meritano di essere considerati. Perché disegnano i contorni di una formazione politica che non ha più nulla, o quasi, del Movimento delle origini.

Per cominciare, sono cambiati completamente i toni. E non è solo questione di galateo, naturalmente, o di coerenza. Ma di giudizio politico. Di Maio non sembra più ritenere il Pd responsabile dei mali del Paese, come i grillini hanno ripetuto ossessivamente in questi anni. Per lui, solo Berlusconi rappresenta il passato, ed è questa la ragione che adduce per giustificare l’indisponibilità a discutere con l’intero centrodestra. Eppure è il Pd ad aver governato ininterrottamente nell’ultima legislatura, non Forza Italia. Se poi deve farsi un bilancio dell’intera seconda Repubblica, di nuovo: il centrosinistra è stato al governo per quasi quindici anni su venticinque. C’è di più. All’indomani del voto del 4 marzo, Di Maio ha salutato trionfalmente il risultato elettorale come l’inizio di una terza Repubblica. Un’espressione che solo in una prospettiva storica si potrà sapere quanto appropriata ma che, al momento in cui veniva pronunciata, valeva anzitutto come volontà di determinare una rottura definitiva, sia politica che istituzionale, con il recente passato. Ora, a leggere l’intervista di ieri, di quel tratto non rimane praticamente nulla, salvo appunto l’ostracismo verso Berlusconi. Il Movimento era nato per favorire l’avvento di nuove forme di partecipazione: il sogno della democrazia diretta. Ma Di Maio non lo richiama da nessuna parte. Nel suo preteso o presunto contratto alla tedesca, il primo partito digitale al mondo – così lo presenta Casaleggio, sul «Corriere» – non inserisce nessun punto al riguardo non dirò dello streaming o delle consultazioni online, il cui sapore propagandistico è ormai acclarato, ma di cose come le concentrazioni monopolistiche delle infrastrutture digitali, la difficile tutela online dei dati personali, gli effetti manipolatori e non solo liberatori delle nuove tecnologie. Nulla. Del resto, l’enfasi per l’orizzontalità della Rete è stata rapidamente sostituita dalla formula più verticistica possibile, quella che rimette tutte le decisioni più rilevanti al Capo.

L’attenzione va allora portata sul programma. Da scrivere insieme. Al Pd o alla Lega: indifferentemente (per la nota teoria che non essendo il Movimento né di destra né di sinistra può rivolgersi altrettanto bene agli uni o agli altri). Ma le indicazioni che Di Maio fornisce sul programma sfumano in una preoccupante indeterminatezza. Ai più era parso di capire che il reddito di cittadinanza sarebbe stata l’atout principale della politica economica e sociale di un governo pentastellato; il Capo dei 5S è ora disposto a derubricarlo alla voce: «misure contro la povertà». Il Movimento ha assunto negli anni toni decisamente critici nei confronti dell’UE? Di Maio mette ora ogni cura nel rassicurare i partner europei, giungendo addirittura ad affermare che il famoso rapporto deficit/PIL – quello che per le regole di Maastricht non può sforare il 3% – va tenuto all’1,5%! E così anche della polemica nei confronti dell’austerità di Bruxelles non resta più traccia, con buona pace del keynesismo pentastellato del ministro dell’economia in pectore, Andrea Roventini.

Si potrebbe continuare: per l’immigrazione Di Maio pensa a una «sintesi», ma è pronto a cercarla sia con la Lega che col Pd. Decisamente improbabile che venga fuori la stessa cosa. Quanto alla politica estera, terreno che pareva calcato con accenti filo-putiniani, Di Maio si ritrae imbarazzato da ogni presa di posizione netta: per le sanzioni alla Russia vedremo; quanto ai dazi di Trump, ci vuole pragmatismo. Campa cavallo. Persino sui provvedimenti simbolo della passata legislatura – dalla buona scuola al jobs act – Di Maio non sente più l’esigenza di marcare una distanza inequivoca. Di tutto si impegna ragionevolmente a discutere, su nulla pronuncia un insuperabile «non possumus».

Ma se non è il terreno programmatico quello che restituisce il senso della proposta politica che i Cinque Stelle formulano; se non lo è il profilo ideologico di un partito che si sottrae per principio all’onere di fornire le coordinate storiche, culturali, ideali della propria identità; se non lo è neppure l’assetto costituzionale dei poteri pubblici, di cui non si indica alcuna linea di riforma, che cosa rimane? Un esercizio di democristianeria nel senso deteriore del termine. E l’unico contenuto che, dopo dieci anni, il “vaffa” grillino rivela, anzi conferma, di avere: la liquidazione del ceto politico della seconda Repubblica, e la sua sostituzione con nuovi attori politici. Il cambiamento di cui parla con enfasi Di Maio nell’intervista è solo questo.

(Il Mattino, 8 aprile 2018)