Il terzo tempo della partita giocata dalle forze politiche in questo inizio di legislatura volge al brutto. Ieri i due vincitori delle elezioni – così ci siamo abituati a chiamarli, anche se non hanno ancora conquistato il trofeo di Palazzo Chigi – se le sono date di santa ragione. Salvini ha provato inizialmente a fare l’ottimista, concedendo a un governo di coalizione fra il centrodestra e i Cinque Stelle il 51% di probabilità di nascere. Di Maio non ha perso tempo: un governo del genere – con Berlusconi e «l’ammucchiata di centrodestra», per dirla con la carineria che ha voluto usare – avrebbe zero probabilità di nascere. Secca replica del leader della Lega: «Di Maio in questo momento mi interessa meno di zero». Siamo, insomma, al muro contro muro.
Non è così che è cominciata la partita tra Lega e Cinque Stelle. All’indomani del voto, era prevalente il legittimo orgoglio per il successo elettorale, ma anche la doverosa fiducia circa la possibilità di formare un governo. Come se la forza delle cose, manifestatasi così prepotentemente nelle urne, dovesse bastare a convincere tutti che non fosse più possibile frenare la spinta al cambiamento. La nascita della Terza Repubblica. Per Di Maio, le elezioni erano state «un trionfo», grazie ai voti di 11 milioni di italiani, a cui – spiegava – bisognava dare una risposta sui temi. E, per darla, il Capo dei Cinque Stelle si dichiarava aperto al confronto con tutte le forze politiche, a partire dalla scelta dei Presidenti delle Camere. Non diceva tutte meno una, Di Maio. Non diceva: tutte meno Forza Italia. Non era ancora il momento di provare a spaccare il centrodestra, per ottenere la guida del governo in quanto prima forza politica del Paese. Dal canto suo, Salvini aveva da festeggiare lo storico sorpasso sugli azzurri: «La Lega ha vinto all’interno della coalizione – dichiarava il leader del Carroccio – e rimarrà alla guida del centrodestra. Abbiamo il diritto-dovere di governare».
Naturalmente non mancavano gli altolà. Il 10 marzo Di Maio postava un video su Facebook in cui metteva in guardia dal fare un governo di tutti senza il Movimento: «sarebbe un clamoroso insulto alla democrazia e ai cittadini». Il giorno dopo anche Salvini chiariva le sue idee a riguardo di soluzioni diverse da quelle che riconoscessero la vittoria del centrodestra: «se bisogna inventarsi pateracchi o minestroni, non sono assolutamente a disposizione», diceva. E se Di Maio ribadiva nei giorni seguenti che il governo i Cinque Stelle lo avrebbero fatto solo partendo dalla squadra presentata in campagna elettorale, Salvini escludeva dal novero delle cose possibili solo una collaborazione col Pd: «non esiste», e fine delle trasmissioni.
Poi è venuta la prima, importante scadenza istituzionale: l’elezione dei Presidenti delle Camere. E dalle puntute dichiarazioni di principio si è passata alla più morbida ricerca di un accordo. Che è stata trovato, forzando la mano al Cavaliere. Lì si è disegnata per la prima volta la possibilità di un asse fra Cinque Stelle e Lega, che potrebbe fare da perno anche alla formazione del governo. Perché Di Maio e i suoi hanno rifiutato di intavolare una discussione con Berlusconi e di votarne la prima scelta, Paolo Romani, e il gioco è riuscito. Salvini ha fatto il bel gesto di non chiedere nulla per la Lega, rendendo possibile che il centrodestra votasse il grillino Fico alla Camera, per avere i voti dei Cinque Stelle al Senato, sulla Casellati. Dentro Forza Italia vi sono stati forti malumori: dopo tutto, Berlusconi era quello che pochi giorni prima aveva detto che lui avrebbe aperto la porta ai Cinque Stelle «solo per cacciarli via». Ma il Cavaliere, si sa, è un ottimo incassatore e non ha fatto un plissé.
A indicare un clima diverso erano comunque dichiarazioni al miele come quelle di Beppe Grillo, che subito dopo l’elezione dei due Presidenti affermava: «Salvini è uno che quando dice una cosa la mantiene, che è una cosa rara». Dall’altra parte il braccio destro di Salvini, Giorgetti, interrogato sul reddito di cittadinanza ci ragionava un po’ su per poi assicurare che «se è qualcosa che incentivi la ricerca del lavoro, allora può essere valutato».
Tutte rose e fiori? Evidentemente no, se con la scadenza successiva, il terzo tempo delle consultazioni al Quirinale apertosi ai primi di aprile, il clima è mutato. Fino alle ruvidissime parole di ieri. Il fatto è che per Salvini tenere unito il centrodestra è una priorità: è la condizione che permette alla coalizione di stare davanti ai Cinque Stelle e di aspirare alla premiership. Per Di Maio, invece, che passi indietro in questa fase non è disposto a farne, un accordo con Forza Italia è politicamente troppo oneroso, e d’altra parte se gli riuscisse di spaccare il centrodestra peserebbe il doppio della Lega. Gli obiettivi politici dei due contendenti sono dunque opposti.
Quel che si può aggiungere, è che entrambi pensano, al punto in cui sono, di avere ancora tempo a disposizione per presentarsi a Mattarella senza formulare ipotesi subordinate, con tutta la forza di cui possono disporre: Salvini andando ad Arcore per dare del centrodestra una rappresentazione unitaria (cosa non facile, visto che da quelle parti c’è chi ancora prova a tirar dentro il Pd, più che il M5S), Di Maio facendosi i selfie insieme a Grillo e Casaleggio, per dimostrare che non ci sono divisioni interne al Movimento.
Ora, ci sarà un altro tempo, dopo che si sarà consumato quello del tatticismo spigoloso di quest’ultima settimana? È difficile fare previsioni, perché nessuno, neppure gli attori politici protagonisti di questo tiro alla fune, sanno fino a quando la corda reggerà. E la verità sta probabilmente nel mezzo: forse non è il 51%, ma non è neanche lo zero.
(Il Mattino, 10 aprile 2018)