Tutti divisi alla meta

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L’idea del vertice domenicale ad Arcore era anzitutto quella di togliere ai Cinque Stelle un argomento: se Di Maio dice che il centrodestra è diviso, noi dimostriamo di essere uniti. Stendiamo un comunicato ufficiale, parliamo con una voce sola, ci presentiamo insieme dal Capo dello Stato per il secondo giro di consultazione, e insieme rivendichiamo la guida dell’esecutivo.
La dimostrazione di compattezza dovrebbe persuadere il Quirinale che l’incarico di formare il governo non può andare a Luigi Di Maio. La matematica non è un’opinione: il suo 32% vale meno del nostro 37%. Tutti e due i numeri sono, per la verità, lontani dall’agognata maggioranza, ma uno è più grande dell’altro: come può Mattarella non tenerne conto?
Siccome la tattica la fa da padrone, in queste settimane, si può aggiungere che si tratta probabilmente solo di una prima mossa, non dello scacco matto finale. Ma, in definitiva, è quello che serve affinché, anche grazie alla moral suasion del Presidente della Repubblica, il Movimento Cinque Stelle tolga dal tavolo la condizione finora reputata irrinunciabile, di rivendicare per il proprio Capo la premiership. A quel punto, avrà ragionato Salvini, e solo a quel punto, non sarà impossibile neppure ottenere un secondo risultato: quello di persuadere Silvio Berlusconi a rimanere in una posizione defilata, tenuto conto delle resistenze che i Cinque Stelle continuano ad opporre a un governo col Cavaliere. Ministri dal profilo non troppo ingombrante, oppure una sorta di appoggio esterno, o un cospicuo bilanciamento sulle posizioni ministeriali, e insomma una formula che salvi capra e cavoli. Se ognuno cede qualcosa, il governo si può fare. Del resto, lo stesso Salvini ha già da tempo messo in conto che non sarà lui il futuro Presidente del Consiglio. Solo un nome “terzo” può infatti consentire di avvicinare fino a congiungere il centrodestra e i Cinque Stelle.
Ma dopo il comunicato ufficiale sono arrivate le dichiarazioni di Salvini, e quelle di Giorgia Meloni. Il primo ha ripetuto per l’ennesima volta che se c’è una cosa di cui è sicuro, è che non farà mai e poi mai un governo con il Pd. Ora, perché il leader della Lega sente così impellente il bisogno di riaffermare, avvalorare, ribadire quel che ai più parrebbe persino scontato? Evidentemente, c’è qualcuno, nel centrodestra, che continua a ventilare l’ipotesi. Qualcuno che immagina che, certo, è anzitutto da scongiurare l’ipotesi dell’incarico a Di Maio, ma che la mossa successiva debba essere quella di mandare un Presidente del Consiglio indicato dal Presidente della Repubblica a cercare una maggioranza in Parlamento. Il centrodestra sosterrebbe anzitutto un tentativo in tal senso di Matteo Salvini, ma il nome, dopo tutto, non è la cosa più importante. I giochi, infatti, potrebbero riaprirsi: Salvini potrebbe non farcela, ma potrebbe farcela un altro nome, che potrebbe rivolgersi, per riuscire, non più ai Cinque Stelle ma ai democratici. Una personalità quasi-istituzionale alla quale il Pd potrebbe aver difficoltà a dir di no.
Così pare debba leggersi la nota diramata dalla Meloni: vogliamo l’incarico a Salvini, e cercheremo una maggioranza pur che sia in Parlamento. Ma così Salvini non ci sta. Non ci può stare. Non è disposto a bruciarsi sull’altare di una riedizione della grande coalizione. Che si scriverebbe non più: centrosinistra-Forza Italia, ma centrodestra-Pd. Cambiano i fattori, cambia il loro peso relativo: ma per Salvini fa lo stesso. E si capisce: una maggioranza simile è proprio ciò da cui la Lega si è tenuta alla larga in tutti questi anni, dal governo Monti in poi. Non solo. Questa è stata anche la principale ragione della grande rimonta leghista, che ha quadruplicato i suoi voti proprio facendo opposizione ai governi a guida Pd, sostenuti dal centrodestra. E, in effetti, è stata Forza Italia a raggiungere in corso di legislatura la Lega all’opposizione, non il contrario.
Dunque: la prima mossa, il vertice unitario, è stata compiuta. Ma su quella che deve seguire non c’è identità di vedute. E per la verità identità di vedute non la si trova ormai da nessuna parte. Non dentro il partito democratico, che procede con le posizioni ufficiali (gli elettori ci hanno collocati all’opposizione) e i distinguo della minoranza (Franceschini: dobbiamo andare a vedere il gioco di Di Maio). Non dentro gli stessi Cinque Stelle, dove tutti rimangono coperti e allineati dietro il Capo politico, ma al contempo tutti si domandano
 a ogni passo che cosa dice Grillo, che cosa pensa la base, che cosa faranno gli ortodossi, i duri e puri, in caso di accordo col centrodestra. Un bel rebus. Che non è detto troverà soluzione. Né è detto che, se pure verrà trovata, il panorama delle forze politiche che oggi osserviamo rimarrà a lungo inalterato.
(Il Mattino, 9 aprile 2018)

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