Archivi del giorno: aprile 17, 2018

Sottomarino USA, lo svarione di Dema

Risultati immagini per sommergibili cartoni animati

Donald Trunp è avvertito: Napoli è stata dichiarata «citta denuclearizzata», quindi il Presidente degli Stati Uniti d’America faccia il favore di portare i suoi sommergibili da un’altra parte. La lettera del primo cittadino parla chiaro: «qualsiasi natante a propulsione nucleare o che contenga armamenti nucleari» non è gradito, come recita una delibera approvata quasi tre anni fa, che De Magistris non ha mancato di richiamare nella lettera inviata al comandante del porto di Napoli, il Contrammiraglio Arturo Faraone. Possibile che l’Ammiraglio se ne sia dimenticato? Possibile che le forze militari americane non girino al largo del porto, dal momento che c’è la delibera del Municipio? Possibile che Trump muova i suoi natanti nello scacchiere mediterraneo, li faccia andare e venire di qua e di là, di sotto e di sopra, senza tenere in alcuna considerazione la ferma volontà di Palazzo San Giacomo? Possibile. Visto che è andata proprio così. Siccome però il sottomarino nucleare statunitense Uss John Warner ha preso parte all’attacco missilistico in Siria (muovendo per la verità da Gibilterra), allora è il caso di protestare fermamente. La Casa Bianca non potrà rimanere indifferente. I vertici militari non potranno fare orecchie da mercante. E soprattutto il mondo deve sapere, l’opinione pubblica deve essere informata.

Perché la risposta del Contrammiraglio, diciamo la verità, è inappuntabile sotto il profilo formale, ma lascia l’amaro in bocca: «le decisioni in ordine all’arrivo e/o al transito delle unità navali militari straniere nelle acque territoriali nazionali non competono all’Autorità Marittima». Quindi: niente da fare. Il Sindaco, d’altra parte, non ha che la polizia municipale, ma quella contro i sottomarini nucleari non può nulla. Allora che si fa? Si manda una missiva al Contrammiraglio, e si monta il caso dandone diffusione a mezzo stampa. Magari sperando in un bell’incidente diplomatico, così se ne parla per giorni.

E si colgono due o tre piccioni con una stessa fava, cioè con un solo sottomarino. Per prima cosa, si dirotta l’attenzione dai problemi del lungomare liberato al mare solcato dalle unità navali americane. Dai trasporti cittadini ai trasporti navali. Dalle noie dell’amministrazione alla grande politica. Dalla spicciola vita quotidiana ai grandi valori e ideali. Napoli città della raccolta differenziata? No: Napoli città della pace. E il gioco è fatto.

Poi si inserisce un altro tassello nel grande racconto ideologico demagistrisiano. L’antimilitarismo e l’antiamericanismo, infatti, ci stanno benissimo. Con Trump alla Casa Bianca, poi, viene anche più facile: la polemica contro gli Stati Uniti che si ergono a unico gendarme del mondo, che fanno il bello e il cattivo tempo contro ogni principio del diritto internazionale, che minacciano l’ordine e la pace con la loro miope politica di potenza è il sottofondo della ferma presa di posizione del Sindaco (tanto ferma quanto ineffettuale, va da sé), ed appartiene da sempre alla tradizione di una certa sinistra. Berlinguer diede scandalo quando dichiarò di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato; ma, a parte il fatto che non viveva a Napoli, a contatto di gomito con il comando alleato e l’ingombrante presenza americana nel porto cittadino, le cose da allora sono cambiate: non c’è più l’Unione Sovietica né il Patto di Varsavia. Dunque la Nato cosa ci sta a fare? A cosa serve l’ombrello? Non sarà che esso, ben lungi dal proteggere, in realtà nasconde gli interessi imperialisti dell’Occidente capitalista, e del suo Paese capofila, gli USA? Per il Che Guevara del Vomero vecchio, questo è più che ovvio: è lapalissiano.

E a proposito del porto e della presenza americana nel capoluogo partenopeo, come non notare che nella sua missiva De Magistris si riferisce alle «acque della nostra città», che vorrebbe libere da navi a stelle e strisce, mentre il Contrammiraglio gli risponde che quelle acque sono «acque territoriali nazionali», e nazionali non vuol dire certo municipali? Ecco il terzo piccione: il municipalismo, per cui a De Magistris non riesce proprio di immaginarsi sindaco di una città che sta dentro una regione che sta dentro uno Stato. Anzi: lui liscia il pelo  ogni volta che può all’anima partenopea, all’identità cittadina, al cuore di Napoli. Non lo fa solo lui: lo fanno un po’ tutti in giro per lo Stivale, approfittando della cronica debolezza delle istituzioni statuali. Lui però lo fa un po’ di più, anche perché l’enorme storia della città glielo consente. E lui se ne appropria, la tira dalla sua parte, la colora del maggior numero di valori possibili e se ne fa l’ultimo, donchisciottesco rappresentante.

(Il Contrammiraglio però ha scritto, e non c’è bisogno di leggere fra le righe: caro Sindaco, stia tranquillo, nessuno ha autorizzato mezzi a propulsione nucleare o con carico radioattivo ad attraccare. Come Autorità marittima mi tocca regolare la navigazione, per ragioni di sicurezza. Che è proprio quel che ho fatto. Peccato, deve aver pensato il Sindaco: per la polemica ripasserò un’altra volta).

(Il Mattino, 17 aprile 2018)

Rebus governo, leader più distanti

Risultati immagini per regolo

Prendere le misure alla crisi? Difficile oggi come quaranta giorni fa, all’indomani del terremoto elettorale che ha consegnato al Movimento Cinque Stelle la palma di primo partito d’Italia, e al centrodestra il primato come coalizione, con il sorpasso della Lega su Forza Italia. Il Presidente della Repubblica si è riservato di prendere una decisione, che probabilmente cadrà a metà della prossima settimana. Ma finora non ha ricevuto dalle forze politiche nessuna indicazione che gli consenta di dare una soluzione al Paese. Lo stallo continua. Per un Di Maio che lamenta l’ostinazione di Salvini a proporre un centrodestra unito («una strada non percorribile che può fare anche danno al Paese»), c’è un Salvini che invita il capo dei Cinque Stelle a «sforzarsi a fare qualcosa di più», e cioè a rinunciare al veto su Forza Italia. Per un Berlusconi che, all’uscita delle consultazioni, accusa i grillini di ignorare l’ABC della democrazia, c’è un Di Battista che tratta irridente Salvini come «il Dudù di Berlusconi».  La crisi siriana ha poi reso, se possibile, il quadro ancora più incerto, perché ha divaricato le posizioni di Lega e Cinque Stelle, e rilanciato, almeno a titolo di ipotesi, la possibilità che il Pd torni in campo. È uno dei regoli, con cui è possibile misurare le distanze fra le forze politiche. Accanto al regolo internazionale, c’è il regolo elettorale, il regolo del gioco politico, il regolo temporale, e infine il regolo del Quirinale: quello che proverà ad usare Mattarella per fare uscire le forze politiche dallo stallo in cui si sono cacciate.

Il regolo internazionale

È la novità delle ultime ore. Al termine delle consultazioni, il Capo dello Stato aveva espresso preoccupazione per la possibile escalation in Siria. I fatti gli hanno dato ragione: il bombardamento voluto da Trump, con l’appoggio di Francia e Inghilterra, ha posto sul tavolo il tema della politica estera, che né in campagna elettorale né nelle settimane successive ha occupato l’agenda politica nazionale. L’Italia non ha dovuto autorizzare l’uso delle basi militari, e questo ha reso meno evidente il problema rappresentato dall’assenza di un governo pienamente legittimato dal voto, ma le parole di Salvini, che ha giudicato l’attacco voluto da Trump «sbagliato, pericolosissimo, pazzesco», hanno scavato un solco profondo con Forza Italia. Era meglio tacere, gli ha mandato a dire Berlusconi. Che nella lettera al «Corriere della Sera» ha tenuto una posizione più equilibrata: confermando anzitutto la collocazione atlantica del nostro Paese, per rievocare poi lo spirito di Pratica di Mare, l’accordo fra Europa Usa e Russia con il quale si riconosceva a Putin il ruolo di partner strategico nella costruzione dell’ordine internazionale. È chiara la volontà di Berlusconi di mostrarsi come l’unico, nell’ambito del centrodestra, in grado di dare assicurazioni agli alleati occidentali sulla politica estera del nostro Paese. Un argomento al quale il Colle non può rimanere insensibile.

Anche Di Maio ha fatto (insolita) professione di atlantismo, mentre chiedeva l’intervento delle diplomazie, e così ha finito col ritrovarsi vicino al Pd. Che infatti ha mostrato di apprezzare la prudenza con cui il capo del Movimento si è mosso sulla crisi siriana. Misurata col regolo internazionale, insomma, l’ipotesi di un governo giallo-verde, fra Cinque Stelle e Lega, non appare più a portata di mano.

Il regolo elettorale.

I numeri, però, contano. E sostengono ancora gli argomenti con cui le forze politiche continuano a confrontarsi. I grillini sono il primo partito. Il centrodestra è la prima coalizione. Di Maio non perde occasione per ricordare i suoi 11 milioni di voti; Salvini, a sua volta, conta i parlamentari del centrodestra e ribadisce che i suoi sono di più. Per arrivare ad un accordo bisogna che i partiti ragionino tenendo conto del nuovo ambiente proporzionale in cui sono chiamati a misurarsi; ma la legge elettorale ha tuttavia richiesto che si mantenessero, su un terzo dei seggi assegnati, le coalizioni: come si fa allora a chiedere a Salvini di rinunciarvi? Lo stallo è dentro una rappresentanza parlamentare sghemba, che ha portato in Parlamento liste uniche e liste collegate: le ragioni degli uni non sono quelle degli altri. Anche l’idea di fare un governo solo per cambiare la legge elettorale si scontra col fatto che gli interessi di una forza a un eventuale premio di lista sono opposti a quelli dell’altra, interessata invece a un premio di coalizione.

Misurato col solo regolo elettorale, lo stallo rischia di ripetersi anche in caso di elezioni anticipate. Tutti fanno ovviamente mostra di non temerle, di considerarle più vicine o più lontane ma comunque di non averne paura. Ma nessuno ha in mano sondaggi che assegnerebbero a questa o a quella formazione politica la maggioranza. Per questo, Mattarella sa che nuove elezioni non sono affatto la via d’uscita dall’impasse.

Il regolo temporale.

E allora come? Sono trascorsi ormai 40 giorni. Tempo sufficiente a Gesù per uscire dal deserto, non ancora ai partiti per trovare il bandolo della matassa. Il fattore tempo ha finora regolato il confronto fra le forze politiche. Prima un giro di consultazione, poi un altro. Nulla di fatto. La crisi internazionale ha sostenuto, nelle ultime ore, la convinzione che non si possa fare tardi, ma non c’è una vera emergenza alle porte, che costringa per esempio i partiti a dire di sì a un esecutivo formato da una personalità autorevole, super partes, indicata dal Quirinale. Ci sono però un paio di scadenze elettorali: il voto in Molise, domenica prossima; il voto in Friuli, quella dopo. È opinione diffusa che, superati questi appuntamenti, le forze politiche potranno essere più malleabili. In particolare, molti sono persuasi che se la Lega dovesse fare il pieno in Friuli, avrebbe modo di ridurre Forza Italia a più miti consigli. E anche Di Maio avrebbe forse meno da temere i mugugni interni per le prove di moderatismo che sta dando, cercando di tenersi aperte le due strade del «contratto alla tedesca»: sia l’accordo con un centrodestra senza Forza Italia, sia un accordo con un Pd non più derenzizzato. Se si usasse dunque il regolo temporale, bisognerebbe misurare le determinazioni del Presidente della Repubblica, sul pre-incarico o sul mandato esplorativo, in base al numero di giorni necessari, grazie al loro espletamento, a scavallare quei due appuntamenti col voto regionale. (L’altro, l’assemblea nazionale del Pd, che doveva tenersi il 21 aprile, è stato saggiamente rinviato).

Il regolo del gioco politico.

Passi pure del tempo. Ma per fare cosa? Che cosa si propongono Salvini, Di Maio, Berlusconi (e, eventualmente, il Pd)? Non la stessa cosa, evidentemente. Altrimenti un governo l’avremmo già. Di Maio vuole un governo pentastellato da lui presieduto. Che cosa è disposto a fare per raggiungere questo obiettivo? Non un governo col Cavaliere. Non può: la base (ma anche Grillo) non glielo perdonerebbe. Di Maio deve formare un governo e poter dire: il Pd lo ha tenuto in vita, il Cavaliere; noi lo abbiamo fatto fuori. Se può dire questo ai suoi elettori, simpatizzanti e militanti, tutto il resto, sul programma o sui ministri, può passare.

Nonostante si presenti unito, il centrodestra non ha invece un unico obiettivo. Perché Berlusconi vuole, lo ha scritto al «Corriere», «non un governo qualsiasi, con una qualsiasi maggioranza parlamentare, ma un governo autorevole sul piano interno e internazionale». L’autorevolezza che non riconosce ai Cinque Stelle è per il leader di Forza Italia criterio per formare un governo. Vale a dire: meglio, molto meglio un governo con il Pd che con i grillini. Salvini pensa l’opposto: tutto vuole meno che il Pd. Non vuole nemmeno «governissimi o governoni», cioè soluzioni avallate dal Quirinale che però non trovino fondamento in un accordo politico. Dunque continua a cercare un’intesa con Di Maio, e probabilmente pensa o di convincere Forza Italia a rimanere fuori (magari dopo il voto in Friuli), o che i 5S potrebbero far partire un governo col centrodestra, che potrebbe però perdere per strada il pezzo dei fedelissimi di Silvio. Un po’ come è accaduto nella scorsa legislatura. Col regolo del gioco politico, i prossimi giorni misureranno le mosse e le contromosse per forzare una soluzione o l’altra. Che se poi il gioco non riuscisse, il Pd potrebbe a quel punto (e solo a quel punto), provare a rientrare nella partita, aprendo un dialogo con i Cinque Stelle fino a qualche settimana fa impensabile.

Il regolo del Quirinale.

Il Capo dello Stato ha però per le mani un unico strumento di misura: l’incarico. Improbabile che sia pieno. Il centrodestra ha fatto, all’unisono, il nome di Salvini. Ma il capo della Lega ha chiarito lui stesso che non intende cercare i voti in Parlamento: accetterebbe un incarico solo avendo in tasca l’accordo. Poiché l’accordo non c’è, è ragionevole pensare che il Quirinale si orienterà per una soluzione diversa. Il mandato esplorativo, affidato per esempio alla Presidente del Senato, Casellati, rischierebbe di restituire la stessa fotografia già scattata nel corso delle consultazioni. Tuttavia, se Mattarella si convince che il tempo gioca a favore di una soluzione, allora può effettivamente imboccare questa strada; se invece pensa che rischierebbe di provocare ulteriori irrigidimenti, e per giunta di rendere più difficile la posizione del Paese sul piano internazionale, allora potrebbe osare un po’ di più e giocare la carta del pre-incarico, con la quale dare più chiare indicazioni sulla volontà del Colle. I nomi che circolano non sono molti: Giorgetti, il volto raziocinante e mediatore della Lega; oppure di nuovo la Casellati, con il diverso mandato di formare un esecutivo istituzionale, con tutti (o quasi) dentro. Oppure Fico, per verificare l’altra strada, quella di un governo 5S-Pd. O infine una personalità lontana dai partiti, ma di grande autorevolezza, a cui fosse difficile dire pregiudizialmente di no. Per nessuna di queste ipotesi Mattarella dispone purtroppo di certezze: misurata col regolo del Quirinale la crisi politica presenta ancora margini di indeterminatezza troppo ampi.

(Il Mattino, 16 aprile 2018)

I leader nel vicolo cieco

Risultati immagini per vicolo cieco

Il secondo giro di consultazioni non ha cambiato di molto i termini del problema. È vero che i colloqui con Mattarella sono stati preceduti dall’intesa fra Cinque Stelle e Lega sul nome del Presidente della commissione speciale della Camera, il leghista Molteni, ma si è trattato, nelle dichiarazioni dei protagonisti, solo di una intesa istituzionale: l’intesa politica ancora non c’è.

Di Maio è tornato a chiedere un passo di lato a Berlusconi, Salvini ha rivendicato anzitutto l’unità di intenti del centrodestra. Per il capo dei Cinque Stelle è incomprensibile l’ostinazione di Salvini; per Salvini sono i grillini a non mostrare senso di responsabilità. Di Maio non chiude le porte al partito democratico, e ribadisce che la proposta del contratto alla tedesca, e il lavoro sul programma, è finalizzato a un confronto sia con la Lega che col Pd (anche se «il Pd non sta aiutando», mentre con la Lega «il Parlamento sarebbe subito operativo»). Salvini invece non contempla ipotesi subordinate: esclude ancora una volta sia l’accordo coi democratici, che di formare un governo senza aver prima definito chiaramente i contorni della maggioranza parlamentare. Sono l’una e l’altra tattiche dettate dalla situazione: Di Maio prova a ventilare ipotesi alternative per far pressione su Salvini; Salvini, al contrario, le ipotesi alternative le deve bocciare sonoramente per scoraggiare quanti, dentro Forza Italia, spingono per incarichi “istituzionali”. E tutti e due provano a gettare sull’altro l’eventuale colpa di un avvitamento senza soluzione della crisi, e di nuove elezioni.

L’unica novità della giornata è forse rappresentata dall’impiego della lingua dei segni all’uscita delle delegazioni dal Quirinale. Non che vi fosse, per la prima volta, un interprete. Ma c’era Berlusconi, al quale riusciva difficile rimanere nella parte che il copione gli assegnava: quella di stare, composto e silenzioso, di fianco al leader della coalizione. Così, prima ha dato lui la parola a Salvini, volendo con ciò ridurlo a semplice speaker del comunicato steso insieme, chiedendogli solo di darne lettura. Poi, quando Salvini ha preso la parola, non ha mai smesso di sottolineare, con una mimica fin troppo eloquente, i passaggi del discorso: contando sulle dita i punti del programma, muovendo il capo e le mani, mostrandosi serio e grave quando si trattava della Siria e disinvolto e sicuro invece quando si trattava di ribadire l’unità del centrodestra. Il Cavaliere – è chiaro – non sa fare la spalla: prova sempre a prendersi tutta la scena. Questa volta c’era però un di più di intenzione: la volontà di mostrare quanto forte rimanga la sua presa sulla linea politica decisa insieme con gli alleati.

Il che vuol dire che così non è. E del resto, appena Salvini ha lasciato il microfono, Berlusconi ne ha approfittato per una breve dichiarazione diretta contro i Cinque Stelle, che «ignorano l’Abc della democrazia». Di Maio ha forse ragione, allora, quando afferma che nonostante le apparenze il centrodestra è «tuttora diviso». Il fatto è che quella divisione non è profonda abbastanza perché la coalizione si spezzi. E non per lealtà, cavalleria, o fedeltà al mandato elettorale. È ormai chiaro a tutti, infatti, e non dovrebbe essere difficile spiegare agli elettori, che la ricerca di un accordo fra forze diverse è inevitabile. No, il punto è un altro: che Salvini, senza Forza Italia, vale in termini di voti e seggi la metà dei Cinque Stelle.

Ora, così stando le cose, non restano molte strade: il ritorno al voto, sempre possibile e che il Capo dello Stato ha il dovere di provare fino all’ultimo ad evitare (anche perché non è chiaro come potrebbe modificare gli equilibri, col rischio di riproporre dunque l’attuale stallo). Oppure un governo del Presidente, con un mandato limitato, formato da personalità fuori dai partiti: è una soluzione, però, da cui proprio i partiti vincitori, che dovrebbero portarne il peso maggiore, hanno tutto da perdere, dovendosi accollare gli oneri del governo senza poterne occupare le posizioni. O infine un cambio di strategia, qualcosa che spinga i Cinque Stelle a rinunciare al veto assoluto nei confronti di Forza Italia e/o che consenta alla Lega di prendere le distanze da Forza Italia. Nella prima Repubblica, che è vissuta a pane e proporzionale e che ha sperimentato formule di compromesso varie e diverse, era il partito maggiore che faceva i sacrifici più grandi. Le forze minori finivano con l’essere sovrarappresentate in cambio della loro disponibilità a far nascere il governo. Probabilmente, l’unica maniera per non andare a sbattere è questa: i Cinque Stelle non possono pensare di ottenere insieme la guida dell’esecutivo, la riduzione della Lega a junior partner e il centrodestra spaccato.

Ma ci vuole una certa maturità politica per provarci davvero. Non limitandosi a rivendicare di essere arrivati primi, ma costruendo sul piano programmatico un’intesa che Forza Italia potrebbe aver difficoltà a digerire (sulla giustizia, ad esempio, o sui migranti, o in materia di conflitto di interessi). E fare poi alla Lega, in termini di composizione del governo, una di quelle offerte che non si possono rifiutare.

(Il Mattino, 13 aprile 2018)

Debito ingiusto e alibi creati dal “sistema”

Risultati immagini per LE DUE PIAZZE

La partita che si giocherà sabato mattina, nell’interpretazione che ne offre il Sindaco di Napoli, vede scendere in piazza «la forza e la potenza del popolo napoletano» contro una «legalità formale violenta e ingiusta», che impone ai cittadini e a chi li amministra di pagare per un «debito illegale, ingiusto, odioso». Un debito, sostiene Luigi De Magistris, che non grava sulla Città (che il primo cittadino, conformemente alla sua roboante retorica, scrive sempre con la maiuscola) per colpa dei napoletani o di chi li amministra, ma «per le azioni ed omissioni di chi ha devastato nei decenni passati la Città».

Le cose non stanno così. Le osservazioni della Corte dei Conti, contro le quali il Sindaco chiama a raccolta i napoletani, riguardano debiti non messi a bilancio dal Comune di Napoli, ma in questo monte di debiti non vi sono solo retaggi delle passate amministrazioni, ma anche debiti accumulati dalla giunta De Magistris. Sui 265 milioni di debiti fuori bilancio, il famoso Cr8, che arriva dagli anni Ottanta, grava per 85 milioni circa. Una cifra consistente, ma è consistente anche la somma di 48 milioni di euro, che risalgono invece al 2015, quando la rivoluzione arancione era già in corso.

I numeri hanno la testa dura, si dice. Ce l’hanno pure i sindaci, bisogna aggiungere. De Magistris ha scelto consapevolmente di andare a infrangersi contro la giustizia contabile. Ha scelto di non mettere a bilancio una massa debitoria ben più ampia di quella riconducibile a passate responsabilità. Ha scelto di non indicare a bilancio tutte le poste, vecchie e nuove, dovute dal Comune di Napoli, aggravando i conti degli oneri finanziari che han fatto ulteriormente lievitare quella somma. Soprattutto, ha scelto di non rispondere, ma di accusare.

Il tema del debito si presta, infatti, perché collima alla perfezione non con una cultura istituzionale, drammaticamente assente, ma con una retorica che De Magistris conosce e pratica con grandissima disinvoltura. Chi è l’indebitato, soprattutto in questi tempi di crisi? Chiunque, trovatosi in difficoltà, sia finito nelle grinfie di speculatori, banchieri, creditori senza scrupoli che lo strozzano e lo affamano. Su un piano generale, è il neoliberismo, è il capitalismo finanziarizzato che stritola tutti i Sud del Mondo. Quindi anche Napoli. La cornice ideologica è già lì, insomma: si tratta solo di inserirvi la città partenopea. Se poi si riesce con grande spudoratezza ad inscrivere tutto il debito in una storia di peccati originali commessi da altri, allora, oltre all’ingiustizia e all’odiosità, ecco che può comparire anche il terzo aggettivo demagistrisiano: quel debito oltre a essere ingiusto e odioso è pure illegale. Nientemeno!

Le cose non stanno così: l’ho detto poc’anzi. Napoli non è la vittima di nessun «sistema». Non più di quanto lo siano Roma o Torino. Più semplicemente, dopo sette anni sette a Palazzo San Giacomo, De Magistris: è lui il sistema. E dunque dovrebbe venire anche per lui il «redde rationem»: di quanti altri mandati altrimenti avrebbe bisogno De Magistris per prendersi intera la responsabilità dell’azione amministrativa fin qui condotta?

Se dunque sabato c’è un’altra piazza, non è perché si voglia gridare «sì al debito» contro i sostenitori del Sindaco che dicono no. Non sono questi i termini della contrapposizione che va in scena sabato. Né è il Sindaco che fa eroicamente da scudo alla città contro i poteri forti, ma è casomai lui a farsi furbescamente scudo della città per parare le critiche al suo operato. E lo fa con slancio e passione, senza nulla tralasciare al caso: chiamando a raccolta gli antagonisti dei centri sociali, ma anche tutto il sistema di potere che negli anni si è consolidato attorno alla gestione della cosa pubblica e delle aziende partecipate.

Ma i trasporti pubblici: c’entra qualcosa l’ingiustizia del debito? E la raccolta differenziata, lontanissima dagli obiettivi dichiarati? E il degrado urbano, e l’anarchia del lungomare liberato? Se c’è un’altra piazza, forse è perché ci vuole pure un luogo per parlare di tutto questo. Per togliere qualche alibi e sfrondare almeno un po’ la retorica che gronda e rumoreggia intorno al municipio napoletano.

(Il Mattino, 12 aprile 2018)