Archivi del giorno: aprile 21, 2018

Il dovere di accettare, il diritto di dubitare

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Della trattativa Stato-mafia, che ieri ha portato alle prime condanne, inflitte in primo grado a uomini dello Stato come l’ex comandante del ROS Mario Mori e l’ex colonnello Giuseppe De Donno, l’opinione pubblica sa molto più di quanto si sappia a proposito di altri processi. È naturale che sia così, di fronte a fatti gravissimi che implicano il coinvolgimento delle istituzioni in uno scambio di favori con la mafia: in sostanza, la fine delle bombe stragiste in cambio dell’attenuazione del regime di carcere duro. Tuttavia, quel che l’opinione pubblica sa, non lo sa al modo in cui si sanno o si dovrebbero sapere le cose nelle aule di tribunale. Lo sa invece grazie alla «grancassa televisiva, fatta di acritico sostegno e di facile suggestione per il sensazionalismo complottistico», senza di cui «il processo sulla Trattativa non avrebbe avuto la stessa parvenza di legittimità e la stessa risonanza». Le parole che ho posto tra virgolette sono state impiegate da Giovanni Fiandaca a commento della sentenza, a firma del giudice Marina Petruzzella, che a inizio novembre 2015 mandò assolto l’ex ministro Calogero Mannino, pure lui implicato nella trattativa. Anche di questa vicenda si è tornati a parlare, perché è ormai prossimo l’inizio del processo d’appello, e dunque ci sarà modo di dare ulteriore risonanza a tutta la materia. Ma in quell’articolo Fiandaca, più che soffermarsi sulla sentenza, si preoccupava di denunciare «i mostruosi intrecci che da anni legano informazione e giustizia», giungendo a suggerire di fare del processo sulla trattativa «un oggetto esemplare di studio», allo scopo di affrontare con la massima serietà e rigore possibile le patologie della giustizia penale.

Ora non abbiamo un’assoluzione, come nel caso di Mannino, che naturalmente i giornali, all’epoca, quasi nascosero nelle pagine interne, ma una clamorosa condanna, che altrettanto naturalmente finisce in prima pagina. Secondo la Corte di Assise di Palermo, Mori e De Donno commisero il reato di concorso in minaccia a un corpo politico dello Stato, la minaccia essendo quella delle bombe mafiose dell’estate del ’92. Per il periodo successivo, per gli anni del governo Berlusconi, la condanna colpisce Marcello Dell’Utri. L’’ex ministro dell’Interno Mancino è stato invece assolto dall’accusa di falsa testimonianza, mentre condanne hanno riguardato anche il boss Leoluca Bagarella e l’uomo chiave dell’intero processo, Massimo Ciancimino. È lui ad aver documentato (in fotocopia, peraltro: originali non sono stati acquisiti) i termini del patto scellerato fra lo Stato e la mafia, di cui il padre Vito sarebbe stato il mediatore. Ed è soprattutto la sua testimonianza a reggere l’impianto accusatorio.

La sua testimonianza, e la grancassa mediatica. Perché, almeno innanzi all’opinione pubblica, è essa a fornire, per usare ancora le parole di Fiandaca, una parvenza di legittimità. È essa a privare gli imputati di qualsiasi «favor rei», a sospingere tra ali di consenso l’attività delle pubblica accusa, a pronunciare verdetti rispetto ai quali la giustizia dei Tribunali arriva fatalmente dopo, a volte molto dopo i presunti reati (siamo già oltre il quarto di secolo). Con la conseguenza che ogni condanna finisce con l’apparire una conferma, e ogni assoluzione una scandalosa patente di impunità concessa ai potenti.

E invece qualche dubbio è lecito nutrirlo, almeno finché la presunzione di innocenza rimane in vigore nel nostro ordinamento (non è detto che passerà indenne la prossima stagione politica). Anche perché il terreno sul quale si svolgeva il processo è tutto meno che solido. Il reato di trattativa non esiste. All’accusa è toccato dunque dimostrare che gli ufficiali del ROS (gente che non può svolgere indagini tra le scartoffie, come si può ben immaginare) presero iniziative che deviarono dagli scopi di fermare le bombe, e servirono altri fini: nutrirono forse sordidi interessi, consolidarono inconfessabili patti di potere, sostennero indecenti carriere politiche. In larghissima parte, per non dire quasi esclusivamente, la dimostrazione è affidata tuttavia a dichiarazioni di pentiti, e in particolare di quel Massimo Ciancimino, dalla fedina penale non immacolata, che negli anni scorsi è assurto a vera star televisiva, grazie alle sue dichiarazioni.

E così siamo daccapo. Vi è sicuramente, da parte dei giudici palermitani, la volontà di gettare squarci di luce profonda su una stagione torbida della vita pubblica italiana, e non vi è motivo di respingere una sentenza prima ancora di conoscerne le motivazioni. Nessuna critica aprioristica è consentita. Ma vi è invece motivo di tenere desta l’attenzione su tutto quello che si è mosso e si muove attorno a un processo simile, e in particolare modo in cui esso, rilanciato dai giornali, alimenta e infiamma l’indignazione della pubblica opinione, cioè il più grande e decisivo fattore della storia politica della seconda Repubblica, che ne ha in buona misura stabilito il destino (e il fallimento). Non servirà a fini processuali, ma costituirà almeno una linea di resistenza intellettuale, e aiuterà forse, se qualche memoria del passato recente ancora serbiamo, a evitare di assegnare un’altra volta un formato eroico e un potere salvifico al pm di turno.

(Il Mattino, 21 aprile 2018)

Vincenti nelle urne e confusi alla meta

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Una commedia degli equivoci? È lecito persino pensare questo, al termine di una giornata che prima ha visto avvicinarsi, poi di nuovo allontanarsi la formazione di un governo e di una maggioranza. Il mandato affidato alla Presidente del Senato Casellati dal Presidente della Repubblica era volto a verificare (ancora una volta, si potrebbe aggiungere) se vi fossero condizioni tali da consentire il varo di un esecutivo sostenuto dal centrodestra e dai Cinque Stelle. Era doveroso, da parte di Mattarella, rivolgersi alla seconda carica dello Stato, eletta con i voti delle forze tra le quali si è in cerca di un’intesa fin dal giorno dopo il voto. L’ottimismo diffuso a piene mani da Salvini, a seguito dei contati coi pentastellati, ha fatto pensare, per tutta la giornata, che fossero cadute le pregiudiziali poste dai Cinque Stelle sulla presenza di Forza Italia. Ma in serata Di Maio ha chiarito che le colonne d’Ercole oltre le quali il Movimento non intende spingersi sono quelle che prevedono al più un appoggio esterno di Forza Italia e Fratelli d’Italia (ovviamente indisponibili a una ipotesi del genere). Il contratto alla tedesca, come lo chiamano i grillini, può insomma essere firmato solo con Salvini. Che però ha subito replicato ribadendo che il governo o lo si fa con tutto il centrodestra, o non lo si fa.

E siamo alle solite. È difficile dire che cosa vi sia dietro questo faticoso andirivieni: Salvini ha provato a forzare la mano ai Cinque Stelle? O è piuttosto Di Maio che ha margini molto limitati di pensiero e di azione, per cui quello che lascia intendere in un incontro rischia di essere da lui stesso sconfermato al successivo? Oppure è cambiata la valutazione delle ipotesi subordinate? È evidente infatti che è più facile tener duro se si dispone di un piano B. Dalle parti del Movimento, si son fatte più esplicite, nei giorni scorsi, le avances verso i democratici, ma è pur vero che la prima condizione che il Pd pone, per intavolare qualunque trattativa, è di veder rotolare la testa di Di Maio. Dall’altra parte, Forza Italia non ha mai smesso di guardare al Pd, ma Salvini ha escluso con ogni vigore possibile accordi con quelli che hanno perso. E anche un governo del Presidente, che dovrebbe comunque avere il sostegno dei democratici, comporterebbe per lui l’inconveniente di imbrigliarlo in uno schema di responsabilità senza vere contropartite, ma anzi con un inevitabile appannamento del profilo populista e sovranista uscito vincente dalle elezioni.

Questo è in realtà il nodo cruciale. Perché quel profilo è uscito effettivamente vincente dalle elezioni, tanto nella variante leghista quanto in quella grillina. Ma non riesce a produrre un’alleanza di governo. Rimane la carta vincente sul piano elettorale, ma non può esser giocata al tavolo del governo. Se non nella forma di un’interdizione ‘simbolica’ nei confronti di Berlusconi.

Così, quando Di Maio si riferisce al “governo del cambiamento” che dovrebbe dare agli italiani quello che gli italiani aspettano da trent’anni, per tenersi le mani libere lascia ormai del tutto indeterminato in cosa consisterebbe il cambiamento tanto atteso, a parte l’abolizione dei vitalizi. In una ripresa dello slancio riformatore? In un rinnovato europeismo? In un rinvigorimento dei contenuti sociali dello Stato entro un quadro di democrazia liberale? Oppure, all’opposto, nel superamento della forma rappresentativa della democrazia parlamentare, nel rinfocolare i sentimenti anti-europeisti degli italiani colpiti dalla crisi, nella sostituzione di nuove politiche welfaristiche con la misura universale del reddito di cittadinanza e nella mano dura su immigrazione, giustizia, sicurezza? Il voto, piaccia o no (e a noi, per la verità piace assai poco), aveva dato un’indicazione che nei logoranti tatticismi di queste settimane i Cinque Stelle hanno smarrito, anteponendo la questione del governo e della leadership di Di Maio ad ogni altra questione, senza però riuscire a tradurre in una scelta strategica questo mutamento di impostazione. Non è per un caso che Salvini appaia in questa fase quello risoluto, e Di Maio in preda invece ai demoni del dubbio. I suoi due forni non sono la rendita di posizione di una forza centrale nella vita del Paese e nello Stato, come lo erano invece nella originale formulazione democristiana; sono piuttosto espressione di una indecisione di fondo, di una serie di “vorrei, ma non posso” o di “potrei, ma non voglio”, che non vengono a soluzione. A pensarci, infatti: perché non potrebbe essere proprio il profilo politico, ideologico e programmatico di un accordo con la Lega ritagliato sul populismo speso a piene mani in campagna elettorale a tenere prima o poi fuori Forza Italia, che dopo tutto vuole ancora avere i tratti di una forza politica liberale e moderata? Probabilmente, c’era e c’è una quota elevata di impraticabilità, o forse di immaturità politica, in quelle posizioni, che ne impedisce la conversione esplicita nei fondamenti di un patto di governo. Per il bene dell’Italia, aggiungerei, ma anche con la confusione che tutto ciò continua a ingenerare.

(Il Mattino, 20 aprile 2018)