Massimo Adinolfi e Giannino Piana si confrontano su un conflitto antico: le ragioni del cuore e quelle della ragione. Adinolfi, firma ben nota ai lettori del Mattino, è professore associato all’Università di Cassino e docente di Filosofia teoretica. Piana è un presbitero, scrittore e teologo moralista. Insegna presso la Libera Università di Urbino ed Etica ed Economia presso l’Università di Torino. Il loro dialogo consente di guardare oltre le mere vicende di cronaca.
Massimo Adinolfi
Caro professore,
forse anche lei si è sentito in questi giorni rivolgere la seguente domanda: com’è possibile che lo Stato sia così insensibile alle ragioni della famiglia, dei genitori del piccolo Alfie Evans, che non chiedono nulla più che di stare ancora accanto al figlio? Com’è possibile che lo Stato calpesti così freddamente i sentimenti e l’umanissima speranza del padre e della madre e si arroghi il diritto di eliminare una vita reputandola inutile? Ho trovato difficile dare una risposta, perché le ultime ore di questa storia drammatica – il distacco dalle macchine, la resistenza tenace di Alfie, la cittadinanza italiana per motivi umanitari, l’opposizione dell’ospedale e dei giudici al trasferimento in Italia – sembrano davvero delineare un conflitto tragico e insolubile: le ostinazioni del cuore contro quelle della legge. Antigone contro Creonte. Ed è sempre difficile schierarsi dalla parte di Creonte. Creonte fa sempre la figura del ‘cattivo’. Tuttavia sento il dovere di dire almeno una cosa, che no, l’Alta Corte e il giudice Hayden non hanno giudicato inutile la vita di Alfie Evans, ma la situazione e i trattamenti che lo tengono ancora in vita. E io mi sento rassicurato, non minacciato, al pensiero che un tribunale dello Stato, in nome del migliore interesse del minore, intervenga per assicurargli una fine dignitosa. Che lo possa anche sottrarre, in taluni casi, ad un eccesso di cure. Che difenda anche il giudizio dei medici, quando affermino in scienza e coscienza che è stato fatto tutto il possibile, o per esempio che un eventuale trasporto aereo potrebbe provocare ulteriori danni al cervello. Capisco che ciò possa apparire inumano o crudele, soprattutto dal punto di vista dei genitori del bambino: è umanamente comprensibile che non ci si voglia arrendere a ciò che la razionalità medica e scientifica dice, in un caso come questo. Capisco meno chi volesse sostenere, tuttavia, che l’amore dei genitori e la loro ‘proprietà’ sul bambino debbano prevalere sul parere dei medici e il giudizio del tribunale.
Giannino Piana
La questione è senz’altro complessa, e aggiungerei confusa. Trovo intanto piuttosto deplorevole il modo aggressivo con cui i media l’hanno affrontata, con interventi polemici da tutte le parti, che non hanno certo contribuito a stabilire un confronto sereno tra le argomentazioni delle diverse posizioni in campo. La delicatezza della situazione imponeva una maggiore riservatezza, ma tant’è: siamo nell’era dei social network ed è difficile evitare la spettacolarizzazione di eventi come questo. Entrando nel merito del problema, al di là e prima del giudizio di merito sulla soluzione fornita dalla magistratura, credo si possano fare alcune riserve sul metodo adottato. Il drastico esautoramento della famiglia (per quanto mi risulta) nell’assunzione della decisione mi sembra davvero eccessivo. So bene che il giudizio di chi nutre legami affettivi forti nei confronti della persona malata, in questo caso i genitori, non è sempre il più oggettivo: le ragioni del cuore possono prevalere su quelle di una corretta razionalità e non è del tutto infrequente che si infiltrino anche motivazioni egoistiche, che rischiano di far prevalere la ricerca del proprio interesse, e non quello della persona che si trova nello stato di difficoltà. Pur con queste riserve, ritengo tuttavia che non si possa prescindere dal loro giudizio, e che la via da percorrere debba essere quella della “alleanza terapeutica”, cioè di un serio confronto tra la competenza del medico (o dei medici) e le ragioni dei parenti in modo che si possa pervenire a una soluzione concordata. Non so se questo è stato fatto, ma le informazioni che, a livello di opinione pubblica, possediamo non sembrano confermarlo. Sul merito della questione, cioè sulla positività della soluzione cui è giunta la magistratura – personalmente ho peraltro una certa perplessità sulla competenza dei magistrati ad emettere sentenze in questi campi – ho qualche dubbio. Ma su questo, se ritiene di riprendere il tema, mi riservo di ritornare.
Adinolfi
Solo sul punto finale, cioè sulla competenza dei magistrati, credo di essere in netto disaccordo. Perché quando “l’alleanza” si rompe, quando la famiglia respinge le valutazioni dei medici, è giusto che un tribunale sia chiamato a dirimere la questione: non penso che un’opinione possa prevalere sull’altra senza il pronunciamento del giudice. La battaglia legale diviene allora inevitabile, soprattutto se intorno al caso si formano nell’opinione pubblica, opposti partiti.
Non me la sento perciò di descrivere l’ospedale in cui Alfie è ricoverato come la prigione in cui è trattenuto dalle autorità. Anche questa affermazione, che leggo e ascolto in queste ore, contribuisce alla spettacolarizzazione del caso. Considerata poi la ricostruzione che il giudice Hayden ha offerto nella sua sentenza, e i pareri in essa raccolti, non direi neppure che la famiglia è stata esautorata. Piuttosto, non ha avuto l’ultima parola, e, sia pure in punta di piedi e con tutto il rispetto dovuto al loro dolore, penso sia giusto così. È vero però che neanche io ho simpatia per i toni di indignazione e di collera che ha usato Michela Marzano su Repubblica, a proposito della decisione del governo italiano di concedere la cittadinanza per motivi umanitari. È molto meglio reprimere la tentazione di rievocare tutto il rosario delle battaglie civili e di fare così di tutte le erbe un fascio. Le sensibilità delle persone e le emozioni pubbliche vanno maneggiate con molta più attenzione. Vorrei invece accogliere la sua correzione. Io ho parlato prima di una «razionalità medica e scientifica», lei di una «corretta razionalità». Convengo con lei: abbiamo bisogno di un concetto non univoco di razionalità. Non solo il cuore, anche la filosofia ha le sue ragioni che la ragione scientifica non conosce. Chissà perché, i difensori dei diritti individuali pensano che la scienza stia dalla loro parte, mentre se la filosofia entra in campo – e lo fa con ragioni sue proprie, senza limitarsi a dar man forte alla scienza – allora è facile che si intorbidino le acque e che la causa del progresso finisca con l’essere spacciata.
Piana
Torno anzitutto rapidamente sul tema della competenza del giudice. Forse ho esagerato ma la mia perplessità nasce dal fatto che spesso le sentenze vengono date in base a una valutazione scientifica di cui i magistrati sono incompetenti. Ma la questione è più ampia e ha risvolti di carattere sociale ed etico. Ci si può chiedere intanto – lo pongo come problema – fin dove lo Stato e le istituzioni pubbliche possono intervenire, in termini decisionali, in ambiti privati, come la famiglia, soprattutto in presenza di situazioni così delicate e problematiche. Non è qui forse in gioco il principio di autodeterminazione, che personalmente non considero un assoluto, ma al quale in alcuni casi di conflitto occorre dare il primato? È vero che, nel caso specifico, non si tratta di una persona capace di decidere, ma allora a chi spetta l’ultima decisione? La domanda non ha una risposta facile. Ma mi pare chiaro che i genitori, a meno che sia evidente, nella loro presa di posizione, la negazione di un diritto fondamentale del minore, debbano avere la priorità. Molto interessante e ricca di spunti di riflessione è la sua affermazione finale sul rapporto tra scienza e filosofia. Credo anch’io, e ne sono pienamente convinto, che se non si vuole incorrere in una forma pericolosa di scientismo, la sporgenza filosofica vada assolutamente coltivata. Ne va del rispetto integrale della persona umana.
Adinolfi
La scienza può dirci quando il cuore comincia a battere o quando l’elettroencefalogramma è piatto ma non può essere l’unico sapere che riempie di significato parole come «vita» o «morte»: su questo siamo d’accordo, credo. Incidentalmente, aggiungo che neanche parole come «mangiare» o «bere» devono la loro significazione a una stipulazione meramente scientifica, e in ciò io trovo ottime ragioni per sostenere che l’alimentazione e l’idratazione artificiale sono trattamenti medici e non meri sostegni vitali (espressione che mi pare velata di ipocrisia). Questo vale anche nel caso del piccolo Alfie e giustifica, ai miei occhi, l’intervento medico, dunque la mediazione dell’autorità sanitaria e, in caso di controversia, giuridica. Convengo però che non è affatto facile la risposta sull’«ultima decisione», e non demonizzerei certo un ordinamento che, fatte tutte le verifiche sullo stato (cognitivo, psicologico, affettivo) in cui la decisione viene presa, la affidasse ai genitori. D’altronde, non saprei trovare un motivo valido sotto ogni longitudine per affermare che o i genitori da un lato, o lo Stato dall’altro, non possono farsi difensori della vita umana in quanto umana. Ecco però un’altra famiglia di parole – uomo, umano, umanità – il cui senso non può essere statuito dalla scienza né da nessun’altra autorità, e che perciò deve impegnarci sempre di nuovo nella definizione di che cosa mai quelle parole vogliano ancora dire per noi.
(Il Mattino, 26 aprile 2018)
P.S. Rispetto al testo a stampa, il professor Piana aveva mandato quest’ultimo intervento, che riproduco qui, scusandomi per il suo mancato inserimento in pagina:
Piana: “Non entro nel merito del problema della alimentazione e dell’idratazione, anche se penso che ambedue le definizioni – atto medico e sostegno vitale – vadano superate, introducendo il criterio della proporzionalità della cura, che rende obbligante somministrarle in alcuni casi e altrettanto obbligante non somministrarle in altri. Ribadisco la difficoltà di posizioni nette circa decisioni così gravi, e la necessità di un supplemento di riflessione di fronte a situazioni nuove, e talora drammatiche, alle quali siamo sottoposti in ragione del progresso scientifico-tecnologico in costante, rapido avanzamento. Sono pienamente d’accordo sulla necessità di dare alle parole da lei evocate un senso autentico, che non può essere rintracciato se non attraverso un processo di ridefinizione dei loro contenuti, sia pure nell’alveo della tradizione più vitale del passato”.