Archivi del giorno: aprile 27, 2018

“Lo stop dei giudici tutela il minore”. “Ma è sbagliato escludere i genitori”

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Massimo Adinolfi e Giannino Piana si confrontano su un conflitto antico: le ragioni del cuore e quelle della ragione. Adinolfi, firma ben nota ai lettori del Mattino, è professore associato all’Università di Cassino e docente di Filosofia teoretica. Piana è un presbitero, scrittore e teologo moralista. Insegna presso la Libera Università di Urbino ed Etica ed Economia presso l’Università di Torino. Il loro dialogo consente di guardare oltre le mere vicende di cronaca.

Massimo Adinolfi

Caro professore,

forse anche lei si è sentito in questi giorni rivolgere la seguente domanda: com’è possibile che lo Stato sia così insensibile alle ragioni della famiglia, dei genitori del piccolo Alfie Evans, che non chiedono nulla più che di stare ancora accanto al figlio? Com’è possibile che lo Stato calpesti così freddamente i sentimenti e l’umanissima speranza del padre e della madre e si arroghi il diritto di eliminare una vita reputandola inutile? Ho trovato difficile dare una risposta, perché le ultime ore di questa storia drammatica – il distacco dalle macchine, la resistenza tenace di Alfie, la cittadinanza italiana per motivi umanitari, l’opposizione dell’ospedale e dei giudici al trasferimento in Italia – sembrano davvero delineare un conflitto tragico e insolubile: le ostinazioni del cuore contro quelle della legge. Antigone contro Creonte. Ed è sempre difficile schierarsi dalla parte di Creonte. Creonte fa sempre la figura del ‘cattivo’. Tuttavia sento il dovere di dire almeno una cosa, che no, l’Alta Corte e il giudice Hayden non hanno giudicato inutile la vita di Alfie Evans, ma la situazione e i trattamenti che lo tengono ancora in vita. E io mi sento rassicurato, non minacciato, al pensiero che un tribunale dello Stato, in nome del migliore interesse del minore, intervenga per assicurargli una fine dignitosa. Che lo possa anche sottrarre, in taluni casi, ad un eccesso di cure. Che difenda anche il giudizio dei medici, quando affermino in scienza e coscienza che è stato fatto tutto il possibile, o per esempio che un eventuale trasporto aereo potrebbe provocare ulteriori danni al cervello. Capisco che ciò possa apparire inumano o crudele, soprattutto dal punto di vista dei genitori del bambino: è umanamente comprensibile che non ci si voglia arrendere a ciò che la razionalità medica e scientifica dice, in un caso come questo. Capisco meno chi volesse sostenere, tuttavia, che l’amore dei genitori e la loro ‘proprietà’ sul bambino debbano prevalere sul parere dei medici e il giudizio del tribunale.

Giannino Piana

La questione è senz’altro complessa, e aggiungerei confusa. Trovo intanto piuttosto deplorevole il modo aggressivo con cui i media l’hanno affrontata, con interventi polemici da tutte le parti, che non hanno certo contribuito a stabilire un confronto sereno tra le argomentazioni delle diverse posizioni in campo. La delicatezza della situazione imponeva una maggiore riservatezza, ma tant’è: siamo nell’era dei social network ed è difficile evitare la spettacolarizzazione di eventi come questo. Entrando nel merito del problema, al di là e prima del giudizio di merito sulla soluzione fornita dalla magistratura, credo si possano fare alcune riserve sul metodo adottato. Il drastico esautoramento della famiglia (per quanto mi risulta) nell’assunzione della decisione mi sembra davvero eccessivo. So bene che il giudizio di chi nutre legami affettivi forti nei confronti della persona malata, in questo caso i genitori, non è sempre il più oggettivo: le ragioni del cuore possono prevalere su quelle di una corretta razionalità e non è del tutto infrequente che si infiltrino anche motivazioni egoistiche, che rischiano di far prevalere la ricerca del proprio interesse, e non quello della persona che si trova nello stato di difficoltà. Pur con queste riserve, ritengo tuttavia che non si possa prescindere dal loro giudizio, e che la via da percorrere debba essere quella della “alleanza terapeutica”, cioè di un serio confronto tra la competenza del medico (o dei medici) e le ragioni dei parenti in modo che si possa pervenire a una soluzione concordata. Non so se questo è stato fatto, ma le informazioni che, a livello di opinione pubblica, possediamo non sembrano confermarlo. Sul merito della questione, cioè sulla positività della soluzione cui è giunta la magistratura – personalmente ho peraltro una certa perplessità sulla competenza dei magistrati ad emettere sentenze in questi campi – ho qualche dubbio. Ma su questo, se ritiene di riprendere il tema, mi riservo di ritornare.

Adinolfi

Solo sul punto finale, cioè sulla competenza dei magistrati, credo di essere in netto disaccordo. Perché quando “l’alleanza” si rompe, quando la famiglia respinge le valutazioni dei medici, è giusto che un tribunale sia chiamato a dirimere la questione: non penso che un’opinione possa prevalere sull’altra senza il pronunciamento del giudice. La battaglia legale diviene allora inevitabile, soprattutto se intorno al caso si formano nell’opinione pubblica, opposti partiti.

Non me la sento perciò di descrivere l’ospedale in cui Alfie è ricoverato come la prigione in cui è trattenuto dalle autorità. Anche questa affermazione, che leggo e ascolto in queste ore, contribuisce alla spettacolarizzazione del caso. Considerata poi la ricostruzione che il giudice Hayden ha offerto nella sua sentenza, e i pareri in essa raccolti, non direi neppure che la famiglia è stata esautorata. Piuttosto, non ha avuto l’ultima parola, e, sia pure in punta di piedi e con tutto il rispetto dovuto al loro dolore, penso sia giusto così. È vero però che neanche io ho simpatia per i toni di indignazione e di collera che ha usato Michela Marzano su Repubblica, a proposito della decisione del governo italiano di concedere la cittadinanza per motivi umanitari. È molto meglio reprimere la tentazione di rievocare tutto il rosario delle battaglie civili e di fare così di tutte le erbe un fascio. Le sensibilità delle persone e le emozioni pubbliche vanno maneggiate con molta più attenzione. Vorrei invece accogliere la sua correzione. Io ho parlato prima di una «razionalità medica e scientifica», lei di una «corretta razionalità». Convengo con lei: abbiamo bisogno di un concetto non univoco di razionalità. Non solo il cuore, anche la filosofia ha le sue ragioni che la ragione scientifica non conosce. Chissà perché, i difensori dei diritti individuali pensano che la scienza stia dalla loro parte, mentre se la filosofia entra in campo – e lo fa con ragioni sue proprie, senza limitarsi a dar man forte alla scienza – allora è facile che si intorbidino le acque e che la causa del progresso finisca con l’essere spacciata.

Piana

Torno anzitutto rapidamente sul tema della competenza del giudice. Forse ho esagerato ma la mia perplessità nasce dal fatto che spesso le sentenze vengono date in base a una valutazione scientifica di cui i magistrati sono incompetenti. Ma la questione è più ampia e ha risvolti di carattere sociale ed etico. Ci si può chiedere intanto – lo pongo come problema – fin dove lo Stato e le istituzioni pubbliche possono intervenire, in termini decisionali, in ambiti privati, come la famiglia, soprattutto in presenza di situazioni così delicate e problematiche. Non è qui forse in gioco il principio di autodeterminazione, che personalmente non considero un assoluto, ma al quale in alcuni casi di conflitto occorre dare il primato? È vero che, nel caso specifico, non si tratta di una persona capace di decidere, ma allora a chi spetta l’ultima decisione? La domanda non ha una risposta facile. Ma mi pare chiaro che i genitori, a meno che sia evidente, nella loro presa di posizione, la negazione di un diritto fondamentale del minore, debbano avere la priorità. Molto interessante e ricca di spunti di riflessione è la sua affermazione finale sul rapporto tra scienza e filosofia. Credo anch’io, e ne sono pienamente convinto, che se non si vuole incorrere in una forma pericolosa di scientismo, la sporgenza filosofica vada assolutamente coltivata. Ne va del rispetto integrale della persona umana.

Adinolfi

La scienza può dirci quando il cuore comincia a battere o quando l’elettroencefalogramma è piatto ma non può essere l’unico sapere che riempie di significato parole come «vita» o «morte»: su questo siamo d’accordo, credo. Incidentalmente, aggiungo che neanche parole come «mangiare» o «bere» devono la loro significazione a una stipulazione meramente scientifica, e in ciò io trovo ottime ragioni per sostenere che l’alimentazione e l’idratazione artificiale sono trattamenti medici e non meri sostegni vitali (espressione che mi pare velata di ipocrisia). Questo vale anche nel caso del piccolo Alfie e giustifica, ai miei occhi, l’intervento medico, dunque la mediazione dell’autorità sanitaria e, in caso di controversia, giuridica. Convengo però che non è affatto facile la risposta sull’«ultima decisione», e non demonizzerei certo un ordinamento che, fatte tutte le verifiche sullo stato (cognitivo, psicologico, affettivo) in cui la decisione viene presa, la affidasse ai genitori. D’altronde, non saprei trovare un motivo valido sotto ogni longitudine per affermare che o i genitori da un lato, o lo Stato dall’altro, non possono farsi difensori della vita umana in quanto umana. Ecco però un’altra famiglia di parole – uomo, umano, umanità – il cui senso non può essere statuito dalla scienza né da nessun’altra autorità, e che perciò deve impegnarci sempre di nuovo nella definizione di che cosa mai quelle parole vogliano ancora dire per noi.

(Il Mattino, 26 aprile 2018)

P.S. Rispetto al testo a stampa, il professor Piana aveva mandato quest’ultimo intervento, che riproduco qui, scusandomi per il suo mancato inserimento in pagina:

Piana: “Non entro nel merito  del problema della alimentazione e dell’idratazione, anche se penso che ambedue le definizioni – atto medico e sostegno vitale – vadano superate, introducendo il criterio della proporzionalità della cura, che rende obbligante somministrarle in alcuni casi e altrettanto obbligante non somministrarle in altri. Ribadisco la difficoltà di posizioni nette circa decisioni così gravi, e la necessità di un supplemento di riflessione di fronte a situazioni nuove, e talora drammatiche, alle quali siamo sottoposti in ragione del progresso scientifico-tecnologico in costante, rapido avanzamento. Sono pienamente d’accordo sulla necessità di dare alle parole da lei evocate un senso autentico, che non può essere rintracciato se non attraverso un processo di ridefinizione dei loro contenuti, sia pure nell’alveo della tradizione più vitale del passato”.

Trombetti e Nitsch, i numeri primi e la “matemagica”

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«Non ho mai fatto nulla di utile. Nessuna delle mie scoperte ha fatto, o verosimilmente farà, direttamente o in direttamente, nel bene o nel male, la più piccola differenza al benessere del mondo»: chi mai potrà vantarsi di non aver mai combinato nulla di buono? Solo un matematico. Uno che magari ha trascorso tutta la vita sui numeri e le loro magiche proprietà, senza essersi mai preoccupato di trovare un’applicazione concreta ai suoi calcoli. Chi ha pronunciato quelle parole, G. H. Hardy, il matematico interpretato da Jeremy Irons nel film «L’uomo che vide l’infinito», sarebbe rimasto profondamente deluso se avesse saputo che invece delle sue scoperte si sarebbe giovata la meccanica quantistica, e la dinamica delle popolazioni.

Eppure è andata così. E Guido Trombetti, che lo ricorda nel suo ultimo, aureo libretto, «Anche le cicale sanno contare» (Salerno editrice, p. 89), ci presenta più di una storia, in cui le ricerche pure della matematica sono entrate nel nostro mondo reale. Un intero capitolo è dedicato per esempio alla crittografia, dal cifrario di Leon Battista Alberti alla macchina Enigma messa appunto agli inizi del ‘900 da  Arthur Scherbius e usata dai tedeschi per le comunicazioni militari. La grande diffusione della comunicazione online ha oggi reso indispensabile anche in ambito civile l’uso di chiavi cifrate, ed è la matematica a fornirle. Il sistema RSA, oggi il più diffuso al mondo «è basato sull’idea che la scomposizione di un numero in fattori primi è una operazione matematicamente elementare ma com­putazionalmente disperata». Il che vuol dire che anche le macchine più potenti e sofisticate debbono chinare il capo dinanzi al mistero di quei veri e propri mattoni dell’aritmetica che sono i numeri primi.

Di idee di questo tipo, di problemi irrisolti e di brillanti scoperte è pieno il libro di Trombetti, che riesce nell’obiettivo che sempre i matematici si propongono, quando si rivolgono al più vasto pubblico: di mostrare la bellezza della loro scienza senza spaventare con formule impervie e un linguaggio tecnico il lettore più ignaro. Questo libro si fa capire, dalla prima all’ultima riga. Ed è capace di sorprendere, fin dalla prima pagina.

Anzi dal titolo. Cos’è infatti questa storia di cicale? Una specie di questi insetti ha un ciclo vitale di 13 anni. Il che significa che dopo 13 anni trascorsi sotto terra allo stato larvale escono dal suolo, effettuano la muta, si accoppiano e nel giro di poche settimane muoiono. Stessa cosa fa un’altra specie di cicale, il cui ciclo vitale è però di 17 anni. Bene, grazie alle proprietà dei numeri primi, le due specie di cicale si incontrano sugli alberi solo una volta ogni 221 anni: il minimo comune multiplo fra 13 e 17. Evidentemente, nei milioni di anni in cui le specie si sono evolute, hanno anche appreso la matematica necessaria a non pestarsi i piedi!

«Deus calculat, fit mundus», disse un grande filosofo, Leibniz, che di matematica ne sapeva parecchio. Che sia Dio o la natura a calcolare, i risultati si vedono. Se anche noialtri entrassimo sempre meglio dentro le magie dei numeri, forse, sembra essere l’auspicio dell’Autore, potremmo dare un non piccolo contributo a far avvenire un mondo migliore.

(Il Mattino, 24 aprile 2018)

La parabola dei due forni che restano sempre aperti

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L’incarico che con tutta probabilità Roberto Fico riceverà dal Quirinale è rivolto anzitutto ad esplorare la possibilità di un’intesa fra Movimento Cinque Stelle e partito democratico. Si tratta del secondo forno. Qualche giorno fa Di Maio aveva detto che avrebbe aspettato ancora qualche giorno, poi uno dei due forni, quello leghista, si sarebbe chiuso. L’incarico a Fico avrebbe potuto o forse dovuto significare qualcosa del genere, e invece le ultime dichiarazioni di Di Maio non vanno affatto in questa direzione: «Io credo fortemente nel fatto che con la Lega di Matteo Salvini si possa fare un buon lavoro per il Paese. Possiamo fare cose molto importanti». Altro che chiudere il forno: Di Maio nelle ultime ore lo ha tenuto non aperto, ma spalancato. Se lo ha fatto, è perché ha i suoi buoni motivi. Uno soprattutto ce l’ha in casa: se Fico riferisse per davvero al Colle che c’è una concreta chance di stringere un accordo con i democratici, Di Maio dovrebbe con tutta probabilità dire addio alle sue personali aspirazioni di andare a Palazzo Chigi. Perché un accordo del genere non potrebbe mai farsi con Di Maio premier: il Pd metterebbe in cima alle sue condizioni un suo dietrofront. D’altra parte, se fosse Fico a portare a casa l’accordo, come potrebbe non esser lui a formare il governo? E come potrebbe Di Maio dire di no solo per la sua personale ambizione? Dunque, in questa fase, per il capo dei Cinque Stelle il forno da tenere chiuso è proprio quello democratico. E dunque: non sappiamo se il mandato al Presidente della Camera sarà formalmente o temporalmente circoscritto; quel che comunque è certo è che è ben circoscritto – anzi: quasi vanificato – sul piano politico dalla corrente di simpatia che Di Maio ha prontamente ristabilito con Salvini. Rendendo ancora meno plausibile che il Pd accetti anche solo di intavolare una discussione coi Cinque Stelle, mentre il loro capo spende parole zuccherine sull’affidabilità del leader del Carroccio.

Fico si muove peraltro in un quadro almeno nei toni modificato rispetto a quello che si è trovato dinanzi la Presidente Casellati. Vi sono state infatti le dichiarazioni sopra le righe di Berlusconi (i grillini a cui far pulire i cessi), e soprattutto la sentenza della Corte di Assise di Palermo. Le prime sono servite a Salvini per smarcarsi dal Cavaliere, anche se non ancora a rompere; la seconda è servita invece a Di Maio per allargare ulteriormente il solco che allontana i grillini da Forza Italia. Senza farsi alcuno scrupolo nel maneggiare politicamente, e nella maniera più sfacciata, una sentenza di primo grado, il capo politico dei Cinque Stelle l’ha usata per esortare Salvini a separarsi definitivamente dalle nequizie berlusconiane (tra i condannati dai giudici palermitani c’è infatti anche Dell’Utri, il braccio destro del Cavaliere).

Il leader leghista non sembra però ancora pronto al grande passo. Sa che l’intesa coi Cinque Stelle è l’unico modo per evitare sfuggire a ipotesi di governi istituzionale, che si affacceranno dopo che anche Fico avrà esaurito il suo giro, dal momento che il Presidente della Repubblica dovrà provare in ogni modo a scongiurare nuove elezioni, ma sa anche che il giorno dopo la rottura non sarebbe più il candidato premier di una coalizione del 37%, ma solo il segretario di una forza politica al 17%.

E per allentare la cogenza di questi numeri non può certo fare affidamento sul voto molisano. A meno di clamorose inversioni di tendenza rispetto al 4 marzo, quel che le urne in Molise possono fare è registrare assestamenti, ma non è che la poltrona di Palazzo Chigi possa essere assegnata sulla base di quel che succede a Campobasso. Che i Cinque Stelle siano il primo partito, che la marea gialla si gonfi ulteriormente o si ritiri un poco, che siano in grado di conquistare per la prima volta la guida di una regione, è già nelle cose, riescano o no nell’impresa in questo turno elettorale.

Se mai, Salvini vorrà aspettare l’esito delle regionali in Friuli, domenica prossima. Datemi ancora qualche giorno, ha detto. Non ha infatti motivo di incrinare l’alleanza proprio ora, a ridosso di un voto in cui il centrodestra si presenta unito, e dal quale la Lega, che esprime il candidato governatore, può ricevere una nuova spinta, colorando di verde un altro lembo di Nord. Nel comizio di ieri, Salvini ha quindi ribadito che lui rispetta i patti, che resta nella squadra in cui si è presentato, che mantiene le promesse (e ha specificato: compresa la riforma della giustizia, accennando quindi a un terreno sul quale il rapporto con Forza Italia è senz’altro condizionante).

Dopodiché però una strada la dovrà trovare. Perché una cosa è certa: i Cinque Stelle il governo con Berlusconi non lo fanno (e la cosa si capisce bene che è reciproca). Perciò, alla fine, Salvini dovrà ad andare a vedere da solo di che pasta è fatto il fantomatico contratto alla tedesca dei grillini: lo farà – o magari dirà di farlo – in nome di tutto il centrodestra, per cercare di lasciare nelle mani di Berlusconi il cerino della rottura. Ma scavallato il Molise, scavallato Fico e il Friuli, il percorso sarà se non altro po’ meno ingombro di ostacoli.

(Il Mattino, 23 aprile 2018)