Archivi del mese: aprile 2018

Le proposte e il divieto di rifiutarle

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Un freno al cambiamento. La scelta del partito democratico, di non partecipare al confronto con i Cinque Stelle nel giro di incontri da questi avviati prima delle consultazioni del Quirinale, viene interpretata da Di Maio come un’irresponsabile e perdente manifestazione di indisponibilità. Irresponsabile, perché si sottrae al confronto su un’esigenza generale, quella di cercare una convergenza sui contenuti programmatici e di dare così un governo al Paese. E perdente, perché prova a fermare una spinta al cambiamento che i pentastellati presentano come ineluttabile, o quasi. Le proposte sono di buon senso, spiegano. Non hanno etichette ideologiche, aggiungono. Così che le decisioni del Pd possano apparire come una impuntatura infantile, quasi un capriccio. O forse solo il frutto vergognoso di un imbarazzo, quello procurato dalle difficoltà interne: dalla linea imposta da Renzi di starsene buoni all’opposizione per un po’ (non potrà che farci bene, ha detto l’ex segretario), e dalla tentazione dei suoi avversari – Franceschini, non solo Orlando – di aprire il gioco a tutto campo e provare a modificare gli equilibri nei gruppi parlamentari e nel partito, rimescolando le carte.

In realtà, c’è qualcosa di singolare (per usare un eufemismo) nel modo in cui i Cinque Stelle accostano le dinamiche parlamentari e istituzionali. Perché continuano a interpretare il voto del 4 marzo come una specie di voto presidenziale diretto, con il quale i cittadini avrebbero dato un mandato pieno e indiscusso al loro giovane Capo politico, e al programma e alla squadra di governo da lui proposta. Il che non è. Ma non solo perché il 32% raccolto dal M5S non equivale alla maggioranza assoluta, ma perché non è corretto affermare né che gli italiani abbiano scelto un premier, né che debba essere premier il capo politico del partito che ha preso più voti.

Questa elementare grammatica costituzionale è peraltro nota a tutti: tutti sanno che, da un lato, non c’era scritto da nessuna parte, sulla scheda elettorale, chi fosse il candidato premier; dall’altro, che anche se vi fosse stato scritto, sarebbe spettato comunque al Presidente della Repubblica – come in effetti spetta – valutare autonomamente, sulla base dei colloqui con le forze politiche, a chi conferire l’incarico. Tanto più nel contesto di una legge elettorale prevalentemente proporzionale, che obbliga i partiti a cercare un accordo in Parlamento. E ovviamente in un simile accordo, se accordo deve essere, non possono non rientrare tanto gli aspetti di merito, relativi al programma, quanto la scelta politica del futuro Presidente del Consiglio.

I Cinque Stelle invece no. Non ne vogliono sapere (almeno ufficialmente). Si ostinano a presentare la cosa come se queste decisioni fossero già state prese dal corpo elettorale. Come se non fosse da discutere né la composizione del governo né il suo profilo programmatico, e si trattasse solo di verificare se gli altri partiti siano o no pronti a venire sulle loro posizioni.

Ora, nel nuovo clima creatosi con l’approssimarsi del M5S al cuore politico e istituzionale del Paese quasi non usa più presentare i Cinque Stelle come una formazione populista: significherebbe mancare di rispetto ai milioni di elettori che li hanno votati, non vedere quali istanze reali, sociali, profonde, raccolgono. E infine non riconoscere l’acquisita centralità del Movimento, che sempre più starebbe indossando i panni di una nuova Democrazia cristiana, col che si intende di un partito di centro, capace solo per questo, e non per qualunquismo, di guardare a destra come a sinistra.

Sarà. Ma resta un tratto tipico delle forze populiste quello di presentare le proprie proposte come se fossero quello che tutti vogliono, e a cui dunque non si può dir di no senza essere irresponsabili, antidemocratici,  moralmente indifendibili. In questo schema rientra pure la pretesa di scegliersi gli interlocutori dall’altra parte del campo. I Cinque Stelle parlano con Forza Italia, ma non ne vogliono sapere di Berlusconi: una pregiudiziale morale rende per loro il dialogo impossibile. In realtà, sul piano della semplice logica, non si capisce come si possa inciampare nel Cavaliere, ma non nella forza politica che al Cavaliere deve il suo consenso. Evidentemente, dietro il moralismo c’è sempre una buona dose di ipocrisia.

Infine, è ancora tipico del populismo non riconoscere la funzione liberale delle istanze di controllo, grazie alle quali si svolge ordinata la vita nelle istituzioni. La facilità con cui è saltata la nomina in Parlamento di un questore che fosse espressione del Pd, cioè dell’opposizione, ne è l’ovvia conseguenza. Il Pd non l’ha presa bene. Ma lì le acque sono già così agitate, le questioni aperte – dalla scelta del Segretario in giù – così delicate, che i Cinque Stelle han gioco facile ad approfittarne, facendo magari da sponda alla battaglia politica interna. Perciò possono dire ad alta voce: che si tratti del governo o delle Camere, I Cinque Stelle non trattano sulle poltrone. Dopodiché, però, in nome del popolo (e mentre gli altri discutono), hanno già pensato come occuparle tutte.

(Il Mattino, 3o marzo 2018)

Il linguaggio segreto di un’intesa che avanza

Salvatore e quel bacio tra Di Maio e Salvini che ha fatto il giro del mondo

Vedi alla voce: amore. Sarà il bacio tra un esitante Di Maio e un più deciso Salvini, apparso sui muri di Roma (e subito cancellato). Sarà l’esaurirsi di ipotesi alternative. Sarà l’ingolosirsi delle prime e delle seconde file all’idea di andare al governo o, forse, la scoperta che le distanze ideologiche, culturali e programmatiche non sono affatto insormontabili. Sarà perché tra populisti alla fine ci si intende. Sarà per tutte queste ragioni e chissà quali altre ancora, ma l’incontro tra il centrodestra e i Cinque Stelle sembra avvicinarsi ogni giorno di più sui colli fatali di Roma. Anche quando il diario politico della giornata registra irrigidimenti e impuntature, la direzione di marcia non sembra affatto mutare, e anzi si fa evidente che, da una parte e dall’altra, non vi sono più né pregiudiziali né pregiudizi da superare, nessun don Rodrigo che dica ancora: “questo matrimonio non s’ha da fare”, ma solo i posizionamenti e le schermaglie che precedono la trattativa vera e propria.

Ieri ha cominciato Alfonso Bonafede, ministro della giustizia in pectore di un governo pentastellato, a pronunciare l’aut-aut: o Di Maio premier o non se ne fa nulla. Questo però significa perlomeno una cosa: che con Di Maio premier si può fare. Che cioè tutte le storie sugli elettorati incompatibili, sui punti programmatici irrinunciabili, sul Nord e sul Sud sono tutte già evaporate: rimane solo un punto tutto politico, e bisognerà lavorare su quello.

Alle parole di Bonafede seguono quelle di Salvini: Di Maio non può dire o io o niente, perché allora niente. E aggiunge: se Di Maio mi chiede di lasciar fuori Forza Italia, io lo saluto. Orbene, si salutano quelli con cui si sta parlando. Dunque si stanno parlando. E si stanno dicendo anche cose carine: “Conoscevo poco Di Maio e i Cinque Stelle, ho trovato persone ragionevoli, costruttive e propositive”. Dopodiché anche Salvini ha il suo aut-aut, il suo punto tutto politico: portare al governo il centrodestra intero, quindi anche Forza Italia, quindi anche Berlusconi, ed è su quello che il leader della Lega dovrà lavorare.

Ma la politica è l’arte del possibile, sa inventare soluzioni anche là dove sembra che non ve ne siano. Figuriamoci in un caso come questo, in cui l’interesse a tradurre in governo la gran messe di voti raccolta il 4 marzo è di gran lunga superiore ai penultimatum che i partiti si rimbalzano vicendevolmente. Questi anzi servono da un lato a rassicurare i rispettivi elettorati, dall’altro a prepararli all’inevitabile compromesso. A Salvini preme anzitutto rafforzare la propria egemonia sulla coalizione, facendosi garante di tutto il centrodestra. Andrà dunque avanti per questa strada finché potrà, e finché, soprattutto, tornare indietro e far saltare tutto si rivelerà improponibile. Allo stesso modo Di Maio ha da far accettare ai simpatizzanti duri e puri del Movimento, agli ortodossi e agli antemarcia un qualche accordo con Berlusconi. Andrà dunque avanti anche lui con la sua condizione irrinunciabile, finché anche lui potrà mettere i Cinque Stelle di fronte se non proprio al fatto compiuto, almeno al suo compiersi finale.

Al quale, a quel punto, mancherà solo un ultimo tassello, che tolga tutti dagli ultimi, residui imbarazzi: un papa nero. Un premier, cioè, che non sia Di Maio ma neppure Salvini, e che magari spinga Forza Italia ad un appoggio soltanto esterno, o ad una presenza al governo solo di area. Può darsi che per trovare questo papa sia necessario fare più giri di consultazione. Può darsi che alla sua ricerca debba mettersi in prima persona il Quirinale; può darsi che per avere il papa qualcuno debba rinunciare alla porpora cardinalizia, e fare spazio, nella composizione del collegio, a qualche figura terza, ma la cosa più probabile è che dal camino esca, alfine, una fumata bianca.

C’è, fin d’ora, un atteggiamento di disponibilità. È già in corso la rimodulazione delle promesse elettorali che dovranno tradursi in programma di governo. C’è, più di ogni altra cosa, la piena consapevolezza che nessuna soluzione tecnico-istituzionale darebbe quel che una maggioranza politica dai numeri assai ampi potrebbe dare: vi sono dunque motivi più che sufficienti per assumersi insieme il peso del governo.

Poi, certo, la strada per arrivare a Palazzo Chigi è ancora lunga e mille cose restano da fare. Ma ormai questo almeno è chiaro, che Roma non è più ladrona e il Parlamento non è più una scatoletta di tonno. Convolare a nozze è diventato possibile.

(Il Mattino, 28 marzo 2018)

 

La base di sinistra che frena i Cinque Stelle

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C’è una decisione che attende il M5S: formare oppure no un governo «con chi ci sta». Ma chi ci sta, o ci potrebbe stare, al momento è il centrodestra. Ovvero – perché il centrodestra si presenta ancora unito – anche Forza Italia. Ovvero – perché il Cavaliere ne rimane il leader – Silvio Berlusconi. Pare poco.

Per sondare gli umori della base su un’eventualità simile, il sismografo della Rete è attendibile solo fino a un certo punto. A leggere i commenti che fioccano sui social, la questione è comunque, per tutti, all’ordine del giorno. Dopo l’elezione di Roberto Fico alla Camera, con i voti del centrodestra, e di Maria Elisabetta Casellati al Senato, con i voti dei Movimento, le distanze si sono accorciate. E i Salvini e i Di Maio che tengono banco in questi giorni hanno tutta l’aria di chi intanto prova a accorciarle: poi si vedrà.

La prima cosa che tuttavia è da vedere, almeno per il Movimento, e se, in generale, un governo sia davvero il caso di farlo, oppure no. Dal modo in cui Di Maio si è mosso fin dal giorno dopo il voto è parsa chiara l’intenzione di provarci. Non era affatto ovvio, per un Movimento nato all’insegna del rifiuto della mediazione politico-parlamentare, che si facesse così facilmente strada l’ipotesi di un accordo con altre forze politiche. A quanto pare, però, come i Cinque Stelle non hanno perso un solo voto quando subivano le critiche per la mancanza di democrazia interna, così ora sembra che non temano affatto di perderli anche se lasciano scivolare in secondo piano tutta la fraseologia partecipativa: dall’«uno vale uno» allo streaming, dal voto online alla democrazia diretta.

Dopo aver nutrito un’avversione profonda, formidabile, viscerale, nei confronti dei partiti. sostenuta da continue campagne contro vitalizi, sprechi, corruzione, debbono ora trovare il modo di mettersi d’accordo con un pezzo di quel sistema. E che pezzo! Non solo la Lega, ma addirittura Berlusconi. Ma può nascere davvero la terza Repubblica di cui ha parlato Di Maio la sera del 4 marzo con un governo che abbia come azionista di maggioranza uno dei protagonisti della seconda: lo «psico-nano», per dirla con Grillo? La scelta dei Presidenti non ha richiesto foto-opportunity: ma la nascita di un governo?

D’altra parte, cosa vorrebbe dire tirare i remi in barca? Starsene per un’altra legislatura all’opposizione, per vedere naufragare un qualunque accordo fra tutti gli altri partiti e tornare poi alla carica in elezioni, che è ragionevole pensare si terrebbero, a quel punto, molto presto? Può darsi, ma se la situazione precipitasse rapidamente verso le urne, senza l’intermezzo di governi o governicchi istituzionali, non sarebbe facile non prendersi la propria quota di responsabilità. Chi causa le elezioni di solito qualcosa ci rimette. Chi poi lo fa per lucrare in una situazione di stallo, di solito viene ancor più punito dagli elettori. Che se poi un governo dovesse davvero nascere, e magari anche durare, non è detto affatto che il Movimento ne avrebbe da guadagnare da un altro giro all’opposizione. E che dire poi di tutti quei parlamentari, Di Maio compreso, che essendo già al secondo mandato dovrebbero, secondo le regole del Movimento, rimanere a casa? Sicuri che il treno passa una seconda volta?

Così bisogna che di Maio ci pensi bene. Del resto, lui è stato scelto come Capo politico del movimento proprio perché più abile nella manovra, più duttile di un Di Battista o di un Roberto Fico: più «democristiano» di quegli altri, insomma. Fare un governo col centrodestra significa sicuramente pagare un prezzo in termini di coerenza, ma avere anche la possibilità di dimostrare un po’ di cose sul piano dell’azione di governo, e soprattutto provare a costruire un nuovo centro politico, ponendosi fra la destra nazionalista e sovranista monopolizzata da Salvini e una sinistra fortemente ridimensionata e divisa. Il piano potrebbe fare un primo tagliando relativamente a breve: alle prossime europee, giusto il tempo necessario per fare qualche operazione simbolica (per esempio sul versante vitalizi), ma non pagare dazio per il mancato rispetto delle promesse elettorali. Condendo il tutto con la ruvida polemica contro Bruxelles (che porta voti), e con una nuova legge elettorale in senso maggioritario e bipolare, costruita per favorire i partiti più grandi.

Certo, tutto questo sarebbe meno imbarazzante farlo solo con Salvini: gli interessi politici sono convergenti, molto più di quanto non divergano le proposte programmatiche. Berlusconi però non molla. E finché non molla, finché continua a farsi concavo, il problema per i grillini rimane sul tappeto. Tanto più che col centrodestra unito non è immaginabile un incarico a Di Maio.

Ma la voglia di governo è tanta, anche se l’intransigenza morale sbandierata fin qui non può essere abbandonata tutta in una volta. Sarà dunque un difficilissimo tira e molla, quello che andrà in scena dopo Pasqua, con le consultazioni del Quirinale. Una prova di resistenza e di pazienza. Che nessuno sa come finirà: se tutti per terra, o tutti intorno al tavolo di Palazzo Chigi.

(Il Mattino, 27 marzo 2018)

Aperta l’opa su Palazzo Chigi

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Tutto è bene quel che finisce bene? I Cinque Stelle portano in cima all’assemblea di Montecitorio Roberto Fico, il leader dell’ala ortodossa del Movimento, mentre Forza Italia porta la senatrice Casellati, fedelissima berlusconiana, alla guida di Palazzo Madama. La Lega di Salvini fa un passo indietro, per tenere unito il centrodestra: non ottiene né una Presidenza né l’altra, ma costruisce l’alleanza da cui può nascere domani il futuro governo del Paese.

Orbene, la si può raccontare così, come la racconta a sera, con un sorriso assai tirato, Silvio Berlusconi, e allora si dirà, dinanzi alle telecamere, che «è una soluzione positiva per l’alleanza di centrodestra. Sono molto felice per questo accordo: per il bene del Paese, per gli italiani. Noi guardiamo agli interessi degli italiani con responsabilità».

Oppure la si può raccontare guardando al modo burrascoso in cui si è arrivati alle elezioni dei due Presidenti, e allora non son tutte rose e fiori.  Anzi. Di mezzo c’è «l’atto di ostilità a freddo»: il colpo sferrato da Salvini, almeno secondo il Cavaliere. Non però quello di ieri, quello costretto a fare buon viso a cattivo gioco, ma quello della prima giornata di votazioni. Quello che aveva dovuto prendere atto che il M5S mai avrebbe votato il suo candidato, Paolo Romani. Quello che aveva allora provato a sedersi allo stesso tavolo dei grillini per ridiscutere di eventuali, nuove candidature, trovandosi dinanzi a un insuperabile rifiuto. Quello che aveva dovuto quindi subire la decisione presa autonomamente da Salvini, di far confluire i voti della Lega su Anna Maria Bernini, ottenendo dal M5S la disponibilità a votarla, o a votare un profilo simile. Quello che, infuriato, aveva fatto capire che, avendo Salvini deciso di fare di testa sua, l’unità del centrodestra era rotta, e Forza Italia sarebbe andata fino in fondo con Romani. Quel Berlusconi lì ha dovuto sbollire la rabbia nella notte fra venerdì e sabato. Per farsi poi da parte. Al suo posto, nel vertice che il centrodestra ha riunito ieri mattina, si è seduto il Berlusconi disponibile all’accordo coi pentastellati. E accordo è stato.

Cosa è successo da un giorno all’altro? Perché il Cavaliere non ha potuto che accodarsi, ingoiando il rospo di un’alleanza coi Cinque Stelle che sancisce la leadership di Salvini su tutto il centrodestra? Probabilmente non c’è una sola spiegazione. Perché sicuramente c’entra la mancanza di sponde sufficienti dentro il partito democratico: se Berlusconi avesse avuto numeri per ribaltare il gioco, lo avrebbe fatto. Ma c’entra anche la preoccupazione di rimanere fuori gioco nella partita più importante, quella che si apre a partire da domani, sulla formazione del nuovo governo. E c’entra, infine, la tenuta del partito. Cosa sarebbe successo se, a un Paolo Romani riproposto come candidato di bandiera di Forza Italia fossero venuti a mancare voti, mentre d’all’altra parte Lega e Cinque Stelle si fossero eletti il Presidente del Senato? Non è un’ipotesi affatto peregrina, perché fra gli azzurri serpeggia tra molti la convinzione che ormai le carte le dà Matteo, e che per il centrodestra c’è un futuro solo dietro il leader leghista. In ogni caso, il voto di ieri dimostra che sull’accordo col M5S, Forza Italia si è divisa. Sarà pure unito il centrodestra, come da dichiarazioni ufficiali, ma nell’urna questa unità non si è vista. A Roberto Fico, alla Camera, che avrebbe dovuto contare su 480 voti, sono andati 422 voti. Mancano all’appello una sessantina di voti: la cifra del dissenso dentro Forza Italia.

Il M5S la sua parte, invece, l’ha fatta tutta. Senza tentennamenti. A fine giornata, i giornalisti hanno provato a strappare qualche manifestazione di imbarazzo fra i grillini che avevano votato la berlusconiana di ferro sullo scranno più alto di Palazzo Madama. In realtà, nel segreto dell’urna, i Cinque Stelle sono stati assolutamente compatti. È una dimostrazione di forza, ma anche di una direzione politica precisa, che il Movimento ha intrapreso forte di una solida intesa fra Di Maio e Salvini. La girandola di ieri – prima i nomi di Fraccaro e Bernini, poi oplà: ecco spuntare i nomi giusti, quelli di Fico e Casellati – non sarebbe stata possibile senza un’azione coordinata fra i due leader.

Ha voglia dunque il centrodestra di dichiarare che «le intese intercorse in questa fase non sono prodromiche alla formazione di un governo e che non avranno nessuna influenza sul percorso istituzionale successivo per il quale l’indicazione spetterà al Presidente della Repubblica». Parole formalmente corrette, ma che a mala pena nascondono la sostanza di quanto è accaduto. Un passo alla volta, Di Maio e Salvini stanno in realtà provando a fare esattamente questo: un governo. Non è facile, naturalmente. Ma le difficoltà sono meno sul piano programmatico, che su quello politico. Ed è su questo piano che i due stanno lavorando: per il programma si vedrà poi. Per ora, Di Maio avvicina il Movimento al governo facendolo entrare nella logica delle mediazioni politico-parlamentari, senza di cui nessuna maggioranza potrebbe mai vedere la luce. Salvini, dal canto suo, impone la sua linea a tutto il centrodestra e intravede la possibilità di un primo incarico dalle mani di Mattarella: non è lui ad essere il capo della coalizione che ha più voti?

L’ombra, però, di quei sessanta voti che sono mancati a Fico rimane. Rimane il dissenso messo a verbale da Romani, che non ha condiviso la giravolta del Cavaliere; rimangono le parole di Brunetta, che Salvini leader non lo riesce a mandar giù e che non ne vuol più sapere di fare il capogruppo di Forza Italia alla Camera.

La strada, dunque, è ancora disseminata di ostacoli. Quando si entrerà nel vivo delle consultazioni per la formazione del nuovo governo, si vedrà. Se il duo Salvini-Di Maio riuscirà a piegare le resistenze, che sono ancora forti tra gli azzurri. Se Berlusconi reggerà ancora il moccolo ai due, volente o nolente. Se i Cinque Stelle sapranno essere duttili abbastanza da accettare i compromessi necessari. Di sicuro, il ventaglio delle possibilità che, all’indomani del 4 marzo, erano sul tavolo si sta riducendo. Il partito democratico è sempre più decisamente collocato all’opposizione, e d’altra parte le soluzioni di marca istituzionale, i governi del Presidente e i governi “di tutti” stanno progressivamente retrocedendo sullo sfondo. Quei due, insomma, Salvini e Di Maio, fanno sul serio. E appaiono sempre più convinti di poter disegnare loro, da Palazzo Chigi, le regole del gioco della terza Repubblica del futuro. Che, a ben vedere, dopo il voto di ieri non è mica più tanto futura.

(Il Mattino, 25 marzo 2018)

Lega e M5S, prove di governo

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La Lega vota la senatrice azzurra Anna Maria Bernini. Che giura: «non sapevo», e in tarda serata a Berlusconi offre la sua rinuncia: non avremo un Presidente del Senato a sua insaputa. Ma è una partita di poker, e la posta è ormai altissima. Berlusconi ha considerato la decisione della Lega «un atto di ostilità a freddo». Salvini aveva provato a presentarlo, al contrario, come «un atto d’amore verso il Parlamento e verso il centrodestra», ma il Cavaliere non l’ha affatto presa così: la scelta del Carroccio, ha dichiarato furente, «rompe l’unità della coalizione del centrodestra e smaschera il progetto per un governo Lega-M5S». Perché, con la sua mossa, Salvini fa un clamoroso sgambetto al Cavaliere: vota un candidato di Forza Italia, ma al contempo toglie dal tavolo il nome di Paolo Romani su cui i Cinque Stelle avevano dichiarato la loro indisponibilità. Al dunque, Salvini fa una scelta che piace di più ai grillini (ai quali peraltro conferma che darà i voti alla Camera), che non al suo alleato. Piuttosto che provare a eleggere Romani con i voti del solo centrodestra, o cercare intese con il partito democratico, il leader della Lega sceglie risolutamente di puntare su un nome su cui Di Maio può far confluire i voti del Movimento, senza pagare l’insostenibile prezzo stabilito da Berlusconi: l’incontro ufficiale con lo psico-nano, secondo il nomignolo che Beppe Grillo affibbia nei suoi spettacoli al Cavaliere.

Così infatti si erano lasciati: Forza Italia aveva avanzato il nome del suo capogruppo, Romani; i Cinque Stelle avevano rifiutato di votarlo perché gravato da una condanna per peculato (il cellulare di servizio in uso alla figlia); Berlusconi si era allora offerto di ridiscuterne, a condizione però di sedere intorno allo stesso tavolo. Un invito irricevibile per i pentastellati. In una situazione ancora bloccata, si era dunque aperta ieri mattina la seduta di Palazzo Madama. E in mezzo alle schede bianche della prima votazione, che certificavano il mancato raggiungimento di un accordo fra il M5S e il centrodestra, quella che era risuonata con forza era stata la voce di Giorgio Napolitano.

Il Presidente emerito, chiamato alla presidenza provvisoria dell’Assemblea, ha aperto la seduta sottolineando la «drastica sconfitta» del Pd, «respinto all’opposizione» dopo aver guidato tre esecutivi nella scorsa legislatura. Non proprio una dichiarazione di gentile benvenuto ai democratici e al senatore di Scandicci, Matteo Renzi. Accomodatosi silenzioso sugli scranni di Palazzo Madama, tra Teresa Bellanova e il fedelissimo tesoriere Bonifazi: «Ora sto zitto per due anni» è l’unica dichiarazione che rilascia ai giornalisti.

Mentre l’Aula è riunita Matteo Salvini, da Montecitorio, fa la sua prima uscita. Neanche questa è un capolavoro di gentilezza: «Bye-bye Presidente» twitta, all’indirizzo di Laura Boldrini. Non è un “ciaone”, ma quasi. Scaramucce: la vera partita si gioca nell’altro ramo del Parlamento. Renato Brunetta è tra i più attivi nel ribadire la linea della coalizione: «il centrodestra ha tre leader e non è possibile parlare solo con uno. Noi abbiamo detto che i presidenti di Camera e Senato devono essere figure di garanzia e devono essere scelti di tutti. Se qualcuno non vuole sedersi con Berlusconi poco male, andiamo avanti». Perentorio: o si ragiona tutti insieme, e Di Maio stringe la mano a Berlusconi, o il centrodestra tirerà dritto sul nome di Romani. È il modo in cui Berlusconi prova a tenere legato a sé Salvini: se vuole essere il leader del centrodestra non può accettare i diktat di Maio su un suo alleato. Il Cavaliere pensa ancora che Salvini non romperà l’unità della coalizione, perché romperla significa presentarsi dai 5S in rappresentanza non del 37% dell’intera coalizione, ma solo con il 18% della Lega. Non gli conviene, è il suo ragionamento.

Passa così mezz’ora, e Brunetta fissa nuovamente i paletti: «Oggi al Senato ci saranno due votazioni a scheda bianca, dalla terza votazione noi votiamo Romani, che è il nostro candidato ma anche di tutto il centrodestra unito». Un’unità che però si rompe subito, già nella votazione pomeridiana. Perché dalle urne non esce il nuovo Presidente del Senato; escono piuttosto i 57 voti della Lega per Anna Maria Bernini. Tutta la Lega compatta segue il suo Segretario, che senza consultare gli alleati prova a cambiare le carte. A uscire dal pantano, dice, ma per Berlusconi il leader del Carroccio sta, in realtà, uscendo dalla coalizione. E, per un atto del genere, così fragoroso, vi può essere una sola motivazione: Palazzo Chigi. I sospetti dei giorni scorsi si materializzano tutti in una volta: Salvini – è la convinzione che comincia a farsi strada – ha in tasca un accordo con Luigi Di Maio.

Tutto il quadro politico entra in fortissima fibrillazione. I democrat, per bocca di Rosato, fanno subito sapere che loro non voteranno comunque per la senatrice azzurra. Questioni di metodo: quel nome non è stato concordato. Ma questioni di sostanza, anche. Perché in una situazione di stallo il Pd sarebbe potuto rientrare in gioco, promettendo i suoi voti alla Camera per eleggere un grillino, ricevendo in cambio sostegno per Luigi Zanda, o forse per Emma Bonino. L’asse Lega-Cinque Stelle li costringe invece a restare a guardare.

Giorgetti, braccio destro di Salvini, prova intanto a minimizzare, e Giorgia Meloni a vestire gli inediti panni di pontiere. La leader di Fratelli d’Italia invita gli alleati a fare tutti un passo indietro. A tenere un nuovo vertice. A cercare ancora margini per ricomporre l’unità del centrodestra. Bisognerebbe azzerare tutto, par di capire, per cercare un’intesa su un nuovo nome. Ma è chiaro che per Berlusconi, ormai, il nome è l’ultimo dei problemi. Il problema vero è Salvini, che ai suoi occhi si è mosso non per dare un Presidente al Senato, ma per dare un governo al Paese.

Lo aveva promesso, del resto, il capo della Lega: mai col Pd. Tutto il resto è possibile. Ma senza i voti del Pd, c’è poco da girarci intorno, l’unico governo che può avere la maggioranza, a meno di non voler dare vita a un governo tecnico-istituzionale (che Salvini ha sempre dichiarato di aborrire), è un governo coi grillini. Che però non ne del Cavaliere vogliono sapere: «Noi diciamo no a un Nazareno bis per legittimare Berlusconi che ha perso le elezioni», tuona il capogruppo grillino Toninelli. Più chiaro di così si muore: no a Berlusconi, sì alla Bernini. Ma si può leggere anche in questo modo: no a Berlusconi, sì a Salvini. E in tarda serata Di Maio rigira il coltello nella piaga: i pentastellati non hanno difficoltà a votare un nome di Forza Italia, va bene Anna Maria Bernini o anche «un profilo simile». L’unico che non va bene, insomma è Silvio Berlusconi. Sotto tiro (politicamente, s’intende) è lui. E, a quanto pare, ad averlo messo nel mirino sono insieme Lega e Cinque Stelle

Per il Senato tutto torna così in alto mare. Dopo la rinuncia della Bernini, Berlusconi può decidere di insistere con Romani, cercando voti a sinistra ma spingendo pericolosamente la Lega verso un accordo col M5S anche per le presidenze del Parlamento: a quel punto, infatti, il Senato potrebbe andare ai leghisti, la Camera ai grillini. Oppure fare un terzo nome: capitolando, ma portando almeno a casa un risultato. In un caso e nell’altro, gli tocca prendere atto che Salvini non ha affatto intenzione di lasciarsi imbrigliare. E, in vista di Palazzo Chigi, il leader del Carroccio giocherà la partita esattamente allo stesso modo. Con la stessa, ruvidissima disinvoltura.

(Il Mattino, 24 marzo 2018)