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Archivi del mese: Maggio 2018
Gli attacchi violenti e la violenza delle parole
Le parole che ha usato De Luca all’indirizzo di De Magistris sono gravi e sbagliate. È vero che si trattava di un colloquio privato, ed è vero che De Luca non sapeva di essere registrato, ma anche in un colloquio privato non è certo auspicabile che il Presidente della Regione inviti gli interlocutori a sputare in faccia al Sindaco di Napoli. Non è una giustificazione sufficiente neppure aggiungere, come ha fatto ieri il Vicepresidente della Regione, Fulvio Bonavitacola, che “non è la prima volta che il Presidente della Regione si esprime con linguaggio popolare quando parla con il popolo, e con lo stile di Kant quando parla con i filosofi”. De Luca fa benissimo ad usare un linguaggio popolare, e qualche volta non sarebbe male che anche i filosofi lo usassero: nel più antico programma dell’idealismo tedesco, tre buoni amici – i filosofi Schelling e Hegel, il poeta Hölderlin – si auguravano anche loro che le idee della ragione si facessero mitologiche, cioè sensibili, comprensibili, altrimenti “non avranno alcun interesse per il popolo”; ma poi aggiungevano, che, di converso, la “mitologia” cioè i racconti e le narrazioni più popolari dovevano essere razionali, altrimenti “il filosofo deve provarne vergogna”. E dunque: non solo il filosofo, come il politico, non deve usare parole di cui debba in seguito vergognarsi, ma anche il linguaggio popolare non è vero affatto che sia fatto solo di parole vergognose, di insulti o imprecazioni. Si fa un gran torto al popolo, quando si pensa che capisca solo un linguaggio da trivio.
La dichiarazione dell’onorevole Bonavitacola tuttavia dice anche altro. E cioè che sono mesi che il governatore è bersagliato da provocazioni e aggressioni, che paiono ben studiate, e che provengono sempre dagli stessi ambienti, da quei centri sociali e da quei gruppi antagonisti che a Napoli godono, di fatto, di una particolare condiscendenza da parte di Palazzo San Giacomo Nessuno tollera la violenza, per carità. Ma nessuno dice una parola di condanna. Nessuno inneggia alla rivolta, non sia mai. Ma nessuno prende le distanze. È andata così all’ospedale di Pozzuoli, è andata così al teatro Politeama, ed è andata così in diverse altre occasioni. Una volta è la signora arrabbiata, un’altra volta sono i sacchetti di spazzatura, un’altra volta sono i disordini per strada. Si ha quasi l’impressione che venga demandata a questa specie di ronda spontanea ed effervescente se non la gestione dell’ordine pubblico, almeno la regolazione della temperatura in città. Che si surriscalda o si raffredda alla bisogna, offuscando sistematicamente quella linea della legalità che sembra decisamente troppo elastica, quando si tratta della base sociale del Sindaco.
Sarebbe bene dunque che si facesse punto e a capo. La dialettica politica può essere anche dura, aspra, ma non può trascinare con sé le istituzioni del Comune e della Regione. Se De Luca è bersaglio di continue provocazioni, ha spalle abbastanza larghe per non rispondere, così come ha tutti i mezzi per popolarizzare il suo discorso senza venir meno al rispetto dovuto anche all’avversario politico. È avvilente dover commentare ogni volta parole dal sen fuggite, pubbliche o private che siano. Ma è deprimente anche dover constatare quanto poco si tenga, a Napoli, all’osservanza di regole elementari del vivere civile, quasi che fossero soltanto un elemento decorativo, oppure l’ipocrita cintura protettiva dei ceti proprietari – come l’ideologia radicaleggiante e benecomunista del Sindaco vorrebbe – e non anche un prerequisito del buon ordine e dello sviluppo economico e sociale di tutta la città.
(Il Mattino, 20 maggio 2018)
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La scossa che sfiora l’azzardo
Con l’intesa sul contratto di governo fra Lega e Movimento Cinquestelle non siamo ancora alla formazione del governo, ma quasi. I contenuti dell’ultima bozza circolata non si discostano poi molto da quelli anticipati nei giorni scorsi, e non c’è da meravigliarsene: sotto il profilo ideologico, questo programma aveva un’impronta già chiaramente tracciata. Se dunque non si legge più di percorsi di uscita dall’euro, viene tuttavia richiesto un ripensamento dell’intero impianto della governance economica europea, ivi compresa la politica monetaria. L’esempio più chiaro della direzione intrapresa è offerto nel capitolo relativo alle riforme istituzionali, là dove si prevede il superamento della regola dell’equilibrio di bilancio, cioè della riforma approvata in tutta fretta dal Parlamento italiano nel 2012, nel punto più alto della crisi finanziaria del Paese. Il testo mantiene una certa ambiguità e non è chiaro dunque fin dove ci si vorrà spingere, dal momento che fa riferimento alla necessità di far saltare la regola del pareggio «per far fronte ai diversi cicli economici», quando la cosa è, in realtà, già prevista nell’articolo della Costituzione sotto mira, il quale pure tiene conto «delle fasi avverse e sfavorevoli del ciclo economico». Quel che però conta è la volontà politica che così si esprime: rimettere in discussione l’architettura economica e finanziaria dell’Unione da Maastricht in poi. Un quarto di secolo di regole e trattati finanziari che vengono rimessi in discussione: da questo punto di vista, Salvini e Di Maio hanno ragione di parlare di governo del cambiamento e di Terza Repubblica, perché il loro contratto segna effettivamente un punto di rottura rispetto alle politiche perseguite in questi anni.
Se la versione definitiva che sarà approvata nelle prossime ore non si scosterà da quella che è già possibile leggere, si ritroveranno infatti tutti insieme: la flat tax voluta dalla Lega, il reddito di cittadinanza e la pensione di cittadinanza voluti dai Cinquestelle, il superamento della Legge Fornero voluto da entrambi, più altre misure di spesa, in particolare nel settore della giustizia e nel comparto sicurezza. In queste condizione, è inevitabile lo sfondamento delle regole europee, al quale il testo allude quando pudicamente parla, oltre che di un non precisato e non quantificato «taglio agli sprechi», di «gestione del debito e appropriato ricorso al deficit». Si può avanzare la considerazione che in fondo tutti i governi avrebbero voluto fare quel che la coalizione giallo-verde si appresta a fare, avendone finalmente la piena e convinta volontà politica. Nel criticare Bruxelles si sono infatti esercitati un po’ tutti; ora si tratterebbe di passare ai fatti. Solo che tra i fatti ci sono pure la bassa crescita del Paese e un debito pubblico che viaggia sopra il 130%: non sono precisamente le condizioni che consentano di far la voce grossa in Europa, o di tener buoni i mercati.
Per questo è facile attendersi, purtroppo, robusti scossoni. Dai quali Salvini e Di Maio provano fin d’ora a cautelarsi stringendo i bulloni dell’accordo. L’indirizzo di politica generale è infatti già formato: il futuro Presidente del Consiglio, chiunque egli sia, ben lungi dal dirigere il governo, sarà diretto dall’organo di conciliazione di cui il contratto fissa la composizione. In luogo di un premier, rischiamo così di avere un semplice portavoce, al più una figura di raccordo, certo non un leader politico autorevole, pienamente autonomo nelle decisioni. Anche sotto questo profilo siamo quindi a un punto di rottura. L’Italia ha già sperimentato, negli anni scorsi, una perdita di centralità del Parlamento. Con il vero di un «Comitato di conciliazione» nel quale siederanno, oltre al Presidente del Consiglio e ai capigruppo in Parlamento, anche i due capi delle forze politiche di maggioranza, si determinerà evidentemente anche una forte diminuzione di peso e di ruolo del futuro primo Ministro. Il punto di equilibrio fra Lega e Cinquestelle viene infatti trovato non nel governo, ma fuori di esso. Se ciò non è contrario alla Costituzione, di certo vi è assai poco conforme: diciamo allora che rappresenta un’innovazione robusta sotto il profilo della Costituzione materiale.
Cinquestelle e Lega non hanno del resto rinunciato neppure a ambizioni di riforma in questa materia: Salvini intende rilanciare le autonomie regionali, mentre i Cinquestelle, oltre alla valorizzazione dell’istituto referendario, mettono nel programma il «vincolo di mandato», che, se attuato sul piano della norma costituzionale, rischia davvero di cambiare i connotati della democrazia rappresentativa.
A scorrere le diverse voci del contratto si coglie insomma il senso di una grande scommessa politica. La cui posta viene ulteriormente elevata in quei campi nei quali forte è l’investimento simbolico e il tratto identitario: nel contrasto al fenomeno migratorio, ad esempio, o nella lotta alla corruzione. Due atout che Lega e Cinquestelle intendono giocarsi fino in fondo, dando forma a un indirizzo giustizialista, panpenalistico e securitario che risponde pienamente alle pulsioni profonde, di stampo populista e nazionalista, presenti oggi sulla scena politica nazionale, europea e internazionale.
Anche di questo, però, c’è poco da meravigliarsi. Non solo perché sia Salvini che Di Maio dovevano rassicurare il proprio elettorato, mostrando di non aver dimenticato la propria, rispettiva ragione sociale, ma anche, anzi soprattutto perché si tratta di un esperimento politico che non attinge la sua legittimazione in alcuna delle tradizioni politiche che hanno retto il nostro Paese. Anche la seconda Repubblica nasceva dal venir meno di un paesaggio tradizionale, ma i partiti che l’hanno governata mantenevano comunque, direttamente o indirettamente, un rapporto con il passato. Lega e Cinquestelle non sentono invece il bisogno di rivendicare alcuna eredità, ed è possibile che provino anzi a spingersi il più lontano possibile dalle contrade finora frequentate dalla politica italiana. È doveroso sospendere il giudizio, per verificare alla prova dei fatti se questo tentativo prenderà il volo, o abortirà ancor prima di nascere. Ma, insieme al giudizio, bisognerà trattenere pure il fiato.
(Il Mattino, 17 maggio 2018)
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Se i voti non fanno la testa
Le difficoltà in cui si dibattono da giorni Movimento Cinque Stelle e Lega sarebbero legate all’entità del compito: così almeno dichiarano, con comprensibile ipocrisia, i due leader. C’è bisogno di un accordo programmatico chiaro e dettagliato per un governo che deve durare l’intera legislatura, ripetono. Come se davvero i problemi stessero dal lato dei contenuti da inserire nel patto di governo. È sempre più evidente, invece, che le difficoltà stanno altrove, nel sigillo politico che il nome del Presidente del Consiglio fatalmente imprimerà all’esecutivo. Così, mettendo a dura prova la pazienza del Presidente della Repubblica e le consuetudini istituzionali, Salvini e Di Maio sono venuti giù dal Colle, a due mesi e mezzo dal voto, annunciando l’ennesimo rinvio.
La gatta frettolosa fa i figli ciechi: così recita la saggezza popolare. Ma non sembra affatto prudenza, o accortezza politica, quella che ispira i comportamenti delle due forze. Piuttosto, è il timore di vedere il governo inclinarsi da un solo lato, per due leader che possono forse accettare di uscire cardinali dai conciliaboli di questi giorni, a condizione che però pure l’altro non diventi papa. È allora inevitabile affidarsi al papa straniero, al nome terzo? Sembrerebbe di sì. Ma un governo politico presieduto da un nome terzo, prelevato da qualche altra parte, è una cosa che non si capisce. L’Italia ha avuto – com’è noto – tecnici alla guida del governo, ma sono state eccezioni rese necessarie dalla debolezza ed estrema fragilità del quadro politico. È stato così con il governo Monti, ma anche con il governo Ciampi. Non è però lo schema in cui Lega e Cinque Stelle amerebbero calarsi, come se ancora una volta la politica e i partiti avessero bisogno di forme di supplenza o di tutela. Non a caso, dalla giornata che doveva essere decisiva e che invece si è rivelata interlocutoria sono venuti via annunciando un nuovo passaggio politico: la sottoposizione dell’accordo, ancora in corso di definizione, alle rispettive basi. La Lega coi gazebo, i Cinque Stelle con la consultazione online. Ma moltiplicare le fonti di legittimazione non risolve il problema. Non lo risolvono le mitologie sulla società civile che manda fior di curriculum, come ha dimostrato la rapida scomparsa dalla scena del governo presentato da Di Maio prima delle elezioni, e non lo risolve neppure lo scouting di queste ore: quello che ci vuole non è un professore, per Palazzo Chigi. Si vuol fare la rivoluzione, il governo del cambiamento, la terza Repubblica: è possibile mettere una simile scommessa politica nelle mani di uno studioso o di un grand commis? No che non lo è. E così Lega e Cinque Stelle hanno i voti, ma non hanno (ancora) la testa.
Mattarella ha concesso dunque del tempo, ma non è chiaro in che modo verrà impiegato. Per affinare l’accordo, per rimpolparlo di contenuti, certo: ma al termine della settimana leghisti d pentastellati saranno di fronte al medesimo nodo: a chi sarà intestato il governo? Non si tratta di una banale questione di poltrone, e neppure di ambizione personale, ma di segno politico. E la storia della Repubblica non offre precedenti. I governi di coalizione della prima Repubblica potevano essere presieduti dai leader dei partiti minori quando il partito maggiore, la DC, veniva a trovarsi in difficoltà. Non è questo il caso. Oppure potevano sedere a Palazzo Chigi esponenti di minor rilievo del maggior partito, quando però i partiti avevano al loro interno un’articolazione oggi scomparsa. Neppure questo è dunque il caso. Più in generale, i Cinque Stelle non hanno un personale politico all’altezza, mentre nella Lega le personalità di un certo rilievo sono legate ad un’altra stagione e a un’altra leadership.
Così siamo daccapo: siamo a Salvini e Di Maio. Rispetto a qualche giorno fa la novità è la ritirata strategica che un’eventuale bocciatura dell’accordo nella consultazione offrirebbe. Uno dei due contraenti potrebbe così sfilarsi, e il patto saltare. Ma il prezzo da pagare, al punto in cui sono giunte le cose, sarebbe assai alto. L’accusa di dilettantismo troverebbe nuovi argomenti. Salvini pagherebbe uno scotto a Forza Italia, e a un Berlusconi ritornato nuovamente in pista, facendo la figura dello scavezzacollo avventuratosi per una strada impraticabile. E dall’altra parte Di Maio scoprirebbe ancor più logorata la sua leadership sul Movimento (a tutto vantaggio di Di Battista). E tutti e due dovrebbero per giunta rassegnarsi ad elezioni più lontane, senza più disporre, contro il governo del Presidente, dell’obiezione che non si può fare un governo coi voti dei perdenti, perché a quel punto il voto dei vincitori avrebbe dimostrato di non funzionare.
Così i due sono costretti a spingersi sempre più avanti, ognuno confidando forse in una qualche arrendevolezza dell’altro, riservandosi magari di frenare prima dell’ultima curva, accettando compensazioni su altri fronti, a cominciare dalla composizione del Ministero. Comunque andrà a finire, sarà la dimostrazione che la politica, dopo tutto, ha le sue ragioni, che anche i populismi devono, prima o poi, riconoscere.
(Il Mattino, 15 maggio 2018)
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Severino-Penrose, viaggio al centro della mente
In fondo, le tesi che Sir Roger Penrose ha esposto ieri, nell’incontro con il filosofo Emanuele Severino, tenutosi a Milano, presso il Centro Congressi della Fondazione Cariplo, sono semplici, e sono due. La prima: la mente umana ha qualità non computazionali. La seconda: la fisica quantistica è necessaria per spiegare quello che avviene nel cervello dell’uomo. La prima tesi traccia un confine al momento inoltrepassabile fra intelligenza naturale e intelligenza artificiale. Gli studi sull’intelligenza artificiale hanno fatto progressi enormi, e tuttavia computer e robot e macchine intelligenti non esibiscono affatto un comportamento umano. Di più: anche se lo esibissero, non diremmo per ciò stesso che posseggono una “mente cosciente”. Non è lo stesso simulare la mente umana ed “essere” una mente umana (le virgolette sono indispensabili, perché il senso di questo essere è precisamente ciò che è in questione). La seconda tesi è, al momento, poco più di una congettura. Cosa avviene precisamente nei microtubuli del cervello di cui parla Penrose noi, infatti, non lo sappiamo. Tuttavia per Penrose la fisica quantistica, con il suo carico di paradossi e di “indeterminazione”, può darci una mano a capire come una mente emerga dal cervello: come un effetto quantistico. Penrose è un matematico e uno scienziato: ha bisogno di una teoria fisica e di un orizzonte naturalistico entro il quale collocare la mente, e più specificamente di una teoria fisica che non sia scombussolata dalle prestazioni non computazionali di cui la mente umana è capace. La rivoluzione quantistica fa dunque al caso suo.
Fin qui, dunque tutto bene, o quasi. Ma poi doveva esserci il confronto con la tradizione del pensiero filosofico, rappresentata nell’incontro milanese da Emanuele Severino. Se le sale della Fondazione erano colme all’inverosimile, trovando peraltro l’organizzazione largamente impreparata – file ai cancelli, calca, ritardi, attesa sotto un sole caldissimo, corsa all’accaparramento dei posti, gente in piedi o accovacciata per terra tra stucchi, lampadari e tele di Luca Giordano – era per via della possibilità, piuttosto eccezionale, di ascoltare un dialogo inedito fra un grande filosofo e un grande scienziato. Chissà: al di là della legittima curiosità, forse il pubblico si aspettava davvero che accadesse qualcosa, qualcosa che non riproducesse semplicemente quello che si trova già nei libri – sia Penrose che Severino sono autori prolifici – e che scaturisse invece dall’urto fra teorie e prospettive assai distanti, persino contrapposte.
Così non è stato. A lamentarsene è stato lo stesso Severino, che nella replica finale, pur cortese e garbata, ha mosso tuttavia un rimprovero per nulla velato a Penrose, di non aver fatto nessun tentativo di comprendere le ragioni della filosofia. Ben s’intende: si tratta pur sempre delle ragioni addotte dal filosofo bresciano. E però, diamine: se si apparecchia un tavolo simile, con fisici e psicologi a contorno, non è solo per sorridere per il sottile humour britannico o per ascoltare l’ultimo oratore che ai propri interlocutori si rivolge con la terza persona plurale. Loro sapranno, dice amabilmente Severino, e sottintende che invece non sanno affatto quel che c’è da sapere, o almeno da discutere. “Non vedo nessun tentativo di capire il discorso della filosofia”, borbotta ancora, schiarendosi un po’ la voce, ed effettivamente i quattro punti elencati dal filosofo sono rimasti completamente fuori dall’orizzonte delle considerazioni di Penrose.
Primo punto. Penrose si domanda dove mai risiede la coscienza, ma non si domanda se la domanda non sia mal posta. Non è infatti cosa ovvia, per la filosofia, che la coscienza debba trovare un posto nel mondo, e non essere invece l’apparire stesso del mondo. Ci si può certamente rifiutare a una prospettiva trascendentale del genere, e sostenere empiristicamente che al mondo non ci sono che fatti (l’apparire del mondo non è un fatto), ma bisognerebbe ragionarne e discuterne, e non farne una cosa ovvia, affidandosi al comune buon senso, che vede cose apparire ma non vede apparire l’apparire. Beninteso: bisognerebbe ragionarne, se di filosofia e con i filosofi si vuol discutere, e rendere proficuo un incontro pubblico.
C’è di più. Le neuroscienze sono in genere abbastanza convinte che la coscienza sia una roba che scaturisce dal cervello: niente cervello, niente coscienza, non è ovvio? Non tanto. Perché magari un cervello da solo non fa una coscienza, così come un cervello da solo non fa un linguaggio. Questa completa trascuratezza della situazione intersoggettiva in cui si manifesta la coscienza, in cui è parlato un linguaggio ed esercitato un pensiero, è iscritta a fondo nel programma di ricerca del cognitivismo contemporaneo, e difficilmente viene rilevata come un limite fondamentale di quel programma. (Anche perché sotto risonanza magnetica funzionale e scansione cerebrale ci va un cervello alla volta). Severino, a modo suo, ha posto questo secondo punto: che cosa sappiamo della coscienza degli altri? Che cosa e come, come cioè vi abbiamo accesso, come essa appare in quanto altra? Se c’è un tema che la filosofia del Novecento ha posto, è proprio quello del rapporto con l’altro (e con gli altri). Da Sartre a Lévinas, da Wittgenstein a Derrida, lo si ritrova un po’ dappertutto, salvo – è da dire – negli studi sull’IA. Non ci si accorge così che la macchina intelligente che si vuol far nascere è profondamente sola. A differenza del Dio della Bibbia, noi che siamo (o saremmo) i suoi creatori non ci siamo posti il problema di dargli, traendolo dalla sua costola, un compagno o una compagna. Essa nasce come Minerva dalla testa di Giove: ha già tutto in dotazione nei suoi circuiti al silicio. Certo, è sempre più in grado anche di apprendere, ma apprendere significa solo immagazzinare e poi elaborare in proprio. Nel che non vi è solo un’aporia logica e ontologica, ma pure una minaccia pratica. Quanto più in futuro dialogheremo con macchine così costituite, tanto più rischia di indebolirsi la nostra stessa costituzione comunitaria e transindividuale.
Terzo punto. La creatività umana è irriducibile a qualunque prestazione meccanica, o algoritmica, si dice. Che trent’anni fa la nanotecnologia molecolare abbia cominciato a scuotere questa ovvietà non sembra aver sfiorato molto le convinzioni di Penrose. Al contrario, Severino può ben dire che, ben prima dei motori di creazione di Eric Drexler, era già del parere che vita e tecnologia non differiscono affatto, quanto ai presupposti concettuali di fondo, quanto cioè alla comprensione produttivistica e tecnica del loro essere. Questo era ed è, del resto, il suo ultimo punto, attorno a cui tutto ruota. Per quale motivo si allestisce infatti un confronto sul tema dei rapporti fra intelligenza naturale e intelligenza artificiale, se non per domandarsi quali siano i limiti della tecnica, se limiti vi sono? Ora, per Severino quei limiti non ci sono, fintanto che, almeno, si rimane dentro quella che chiama la follia dell’Occidente, ossia la fede nel divenire delle cose, nel loro venire dal nulla e tornare nel nulla. La tecnica, nel suo illimitato dispiegamento, è solo l’estrema conseguenza di questa fede, che comporta l’infinita trasformabilità del tutto. E la scienza, a sua volta, è alleata della tecnica. Anzi: va a rimorchio. Ha per scopo la potenza e il dominio sul mondo, non già la verità come incontrovertibilità.
Queste ultime proposizioni richiederebbero naturalmente di essere fondate in modo appropriato. Ma è il senso di una intera vita filosofica, quella che Severino ha condotto, lavorando sui classici della metafisica occidentale, da Parmenide in poi. E certo non si poteva sperare che Penrose si portasse su questo terreno.
Però è curioso l’effetto. Da una parte, il filosofo quasi novantenne, carico di anni e di libri, che cita ancora a memoria Platone e Cartesio, ma riesce ad essere assolutamente spregiudicato a riguardo di quella vecchia cosa che è l’uomo, senza false consolazioni o umane, troppo umane preoccupazioni. Dall’altra un formidabile scienziato, un ricercatore brillante e un valentissimo matematico, che usa i microtubuli cerebrali per salvare l’onore dell’umanità. Uno dice tutto è macchina, tutto è tecnica (entro la storia dell’Occidente), l’altro no, l’altro si intenerisce e per l’uomo fa un’eccezione. Quelli che sono abituati a pensare che il più metafisico e il più antropocentrico tra lo filosofo e lo scienziato sia, per mestiere, il primo, avrebbero trovato nell’incontro milanese un buon motivo per ricredersi.
(Il Mattino, 14 maggio 2018)
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La Dc e il Pci dopo Moro. La lezione di 40 anni fa
«Il Pci è a mezza strada tra il governo e l’opposizione»: lo aveva detto Aldo Moro a Bari, alla Fiera del Levante, il 12 settembre 1975. Meno di un anno dopo, alle elezioni politiche del ’76, la Democrazia cristiana raccoglie il 38,7%, dei voti, ma il Partito comunista arriva sino al 34,4%. Il primo effetto dell’avanzata comunista fu l’elezione, agli inizi di luglio, di Pietro Ingrao alla Presidenza della Camera dei Deputati. La prima volta di un comunista ai vertici delle istituzioni. Il secondo, dopo circa due mesi dalle elezioni, la formazione di un governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti, con l’astensione di tutti gli altri partiti (salvo radicali e missini). Per marcare la discontinuità rispetto alla stagione del centrosinistra, socialisti e comunisti non avevano voluto che a presiederlo fosse Moro, nonostante fosse stato Moro l’iniziatore, già dalla fine degli anni Sessanta, della «strategia dell’attenzione» verso i comunisti italiani. Quel governo rimase in carica fino al marzo 1978; poi entrò in crisi, sotto la spinta dei comunisti che puntavano a realizzare il compromesso storico fra le due grandi forze popolari del Paese. Pochi giorni prima della crisi, che doveva preludere all’ingresso del Pci nell’area di governo, in un discorso ai gruppi parlamentari della DC della Camera e del Senato, Aldo Moro prese la parola e disse fra l’altro: «Nelle elezioni del 20 giugno 1976 abbiamo avuto una vittoria, ma non siamo stati i soli. Siamo in due i vincitori e due vincitori in una battaglia creano certamente dei problemi». Per risolvere i quali, Moro lasciava aperta la futura evoluzione del quadro politico: «Non mi sento di dire che non vi saranno novità politiche», affermò allora. Qualche giorno dopo, il 16 marzo, Moro fu rapito dalle Brigate Rosse. Il 9 maggio 1978, giusto quarant’anni fa, il suo cadavere fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault rossa parcheggiata in via Caetani.
Due vincitori, un Presidente della Camera inedito per il Paese, un governo che nasce a due mesi dal voto. Se si guarda a quei fatti lontani oggi, nel bel mezzo di una crisi profonda, che segnala – ben più di un mancato accordo fra i partiti – l’affanno complessivo del sistema politico e istituzionale, si rimane colpiti dalla diversa consapevolezza che ispira i comportamenti degli attori politici. Non c’è bisogno di scomodare verità inconfessabili e misteri ancora da chiarire per sapere quali difficoltà incontrò lungo tutti gli anni Settanta il progetto politico di Moro e la svolta della solidarietà nazionale: che cosa avevano significato, nel ’73, la crisi cilena e il colpo di Stato di Pinochet; quali preoccupazioni si avvertivano nelle cancellerie occidentali e quanto forti fossero le diffidenze americane (del segretario di Stato Kissinger in particolare); che cosa si avvertiva minacciosamente agitarsi nei corpi limacciosi dei nostri servizi segreti; quali resistenze infine incontrasse l’azione di Moro nella stessa Dc. Cionondimeno lo statista democristiano aveva piena coscienza che una fase nuova e diversa della politica italiana doveva ormai aprirsi: Per Moro, l’incontro con i comunisti italiani era legato all’obiettivo del raggiungimento di una democrazia finalmente compiuta, non più frenata dalla mancata maturazione democratica del Pci e dunque dai condizionamenti di politica estera, in cui sarebbe stato possibile che la Dc, il partito-Stato, passasse all’opposizione, dopo oltre trent’anni di ininterrotte responsabilità di governo. I «due vincitori» dovevano divenire, nel disegno di Moro, non semplicemente i condomini più o meno litigiosi di un governo di programma, ma i perni di una nuova democrazia dell’alternanza.
Quarant’anni dopo, quali forze hanno in campo un’idea che vada oltre l’impasse politica in cui si sono ficcate? Abbiamo due vincitori anche oggi: due partiti che hanno affrontato la campagna elettorale promettendo di far tabula rasa del recente passato. Il loro successo elettorale è dipeso in larga misura da questa iperbolica promessa. Ma una promessa elettorale non è una strategia politica, non è un disegno istituzionale, e non è nemmeno una bussola per affrontare con realismo i compromessi necessari a portare avanti una prospettiva politica. Certo, si vedono bene i possibili tornaconti: se si rivota subito, Forza Italia rischia di saltare. Se si rivota subito, la sinistra non fa a tempo a riprendersi. Più in là però di questo nuovo voto, non si vede gran che: quale Italia, che tipo di democrazia, quale cultura politica, quale quadro di alleanze, interne e internazionali.
Ma c’è una differenza ancora più sostanziale. I due vincitori di Moro erano forze alternative sul piano dei programmi e della prospettiva storica: di qui la necessità di costruire nel tempo, un tempo lungo un decennio, le condizioni di un possibile incontro, che immettesse nuova linfa nelle istituzioni democratiche. I due vincitori del 4 marzo, invece, fingono soltanto di presentarsi l’un contro l’altro: in realtà stanno dalla stessa parte, cavalcano la stessa onda d’urto populista che deve rovesciare il sistema. Per questo hanno balbettato due mesi senza venir a capo della crisi, ma hanno impiegato pochissimo a vedere, dopo la rottura con il Quirinale, quale fosse il loro miglior interesse. Che esso, con un voto in pieno luglio, rafforzi, e non logori, la democrazia italiana, è purtroppo altamente improbabile.
(Il Mattino, 9 maggio 2018)
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De Magistris e il trenino dell’illegalità
«Eh, meu amigo Charlie Brown»: è festa, è il compleanno di un caro amico, e il sindaco di Napoli fa il trenino. Negli spazi occupati dal centro sociale Insurgencia. Tra un canto popolare ed un bicchiere, qualche passo di danza e un delizioso stuzzichino, Insurgencia festeggia il suo leader, Egidio Giordano, e il primo cittadino si fa fotografare alla sua festa, senza alcun imbarazzo. L’occupazione è abusiva? E che sarà mai! Non si pretenderà mica che il sindaco di Napoli si formalizzi, quando c’è di mezzo un amico che deve spegnere le candeline!
In realtà, quel Giordano non è solo un amico. È anche un acceso sostenitore di Luigi De Magistris. Ed è il compagno di Eleonora Di Maio, anche lei storica attivista del gruppo e pasionaria del consiglio comunale. Egidio Giordano è, insomma, un pezzo della base elettorale su cui conta il primo cittadino, uno di quelli che non si perde una manifestazione, e che con la retorica degli spazi comuni che il sindaco spande a piene mani ci va a nozze. Che cosa sono infatti gli spazi che Insurgencia occupa se non quei beni collettivi di cui la città è tornata a riappropriarsi? Per il diritto e la legge, in realtà, sarebbero ancora proprietà dell’ente regionale per il diritto allo studio. Siccome sono occupati, la Regione si era impegnata a liberarli, ma nulla in questi mesi è accaduto, e così, evidentemente, sono rimasti a disposizione delle feste di compleanno degli amici di De Magistris.
Ma non è bella questa effervescenza di idee, di fantasia, di vita? C’è ancora qualcuno che vuole contrapporgli l’odiosa violenza del diritto di proprietà: l’ottusità dei dispositivi di legge contro la gioiosa espansione dei corpi liberati; le passioni tristi del risentimento e del rancore proprietario contro la potenza emancipatrice della festa popolare; il conformismo legalistico contro l’allegria della trasgressione; multe, licenze e sanzioni contro canti e balli?
La Napoli di De Magistris è questa cosa qua. O almeno, questo è il modo in cui il sindaco la racconta e la incarna. Il rispetto della legge non è in cima ai suoi pensieri. Come se Napoli non avesse un problema di legalità, di infrazione quotidiana delle norme di civiltà, di scarso senso civico, di debolissimo attaccamento alla cosa pubblica. Come se Napoli potesse ancora godere e anzi rivendicare uno status eccezionale rispetto ai percorsi della modernità, alle sue regole e ai suoi principi, e nascondere così i suoi ritardi, le sue carenze, la sua arretratezza. C’è il treno dello sviluppo, e sì: c’è pure, su un altro binario, il trenino di De Magistris.
Il quale non è che queste cose non le sappia. Le sa anzi fin troppo bene. Ma sa anche che sta per entrare in un tunnel elettorale, fra Europee e Regionali, e ha quindi bisogno di giocarsi tutte le carte, e di attingere anzitutto alle quote di consenso che in questi anni ha saputo costruirsi presso i centri sociali. A cui ha regalato da tempo la retorica di Napoli città dei beni comuni, in cui rivendicare con fierezza di avere lasciato spazi inutilizzati a «gruppi e/o comitati di cittadini secondo logiche di autogoverno e di sperimentazione della gestione diretta», in modo che quei beni potessero essere percepiti come «luoghi suscettibili di fruizione collettiva e a vantaggio della comunità locale» (ivi comprese – s’intende – le care, vecchie feste di compleanno).
Questa è la filosofia, che viene evidentemente applicata non solo ai beni di proprietà del comune, ma più estensivamente a tutte le occupazioni abusive che godono della simpatia dell’Amministrazione. Perché sia chiaro: il diritto allo studio non c’entra nulla; c’entra invece la condiscendenza verso gruppi sociali cosiddetti antagonisti, che agiscono al di fuori della legalità.
Così da un lato si miete consenso, e dall’altro si alimentano i motivi politici generali che dovranno poi confluire nelle future competizioni elettorali. Dalla lotta contro il neoliberismo alla difesa dei Sud del mondo, dalle polemiche contro il Palazzo (ivi compreso – va da sé – quello calcistico) alle polemiche contro i poteri forti: ce n’è abbastanza per deviare l’attenzione dalle banali preoccupazioni di una normale amministrazione, e scaldare i cuori dei napoletani. Perché c’è poco da fare: questo sanguigno e sgangherato populismo di sinistra ha funzionato, finora, e promette di funzionare ancora. Per chi aspirasse soltanto al semplice decoro di una città normale, con servizi pubblici normali e una normale gestione della cosa pubblica, senza trenini in spazi occupati e bandane sventolanti sopra Palazzo San Giacomo, non è ancora venuta l’ora. E chissà quando mai verrà.
(Il Mattino, 7 maggio 2018)
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L’unità di facciata del partito immobile
Finisce all’unanimità. Una dimostrazione di unità, compattezza, condivisione di intenti? Forse solo una dimostrazione di ragionevolezza e, chissà, buona volontà. Ma, per il resto, il voto unanime della Direzione nazionale del Pd significa semmai che è stato raggiunto il punto di massima impotenza politica, il grado zero di iniziativa e di proposta. Sessanta giorni non sono bastati alle forze politiche per superare lo stallo. È accaduto però che, come il lungo rimbombo di un’eco, lo stallo si trasferisse anche dentro il partito democratico.
Gentiloni non parla. Renzi parla, ma non può parlare. Martina parla, ma le sue parole non contano. Orlando e Franceschini parlano, ma le loro parole non bastano. Gli altri raccolgono firme e scrivono documenti, ma firme e documenti vengono poi ritirati. Insomma, l’impasse. Replicando un copione già utilizzato altre volte, i maggiorenti del partito si sono avvicinati alla Direzione promettendo fuoco e fiamme; ne sono usciti quasi alla chetichella. Martina ha detto che non è stata una resa per nessuno, che così si fa politica e che ha avuto confermati i pieni poteri fino all’Assemblea. Ma pieni poteri per far cosa? Per andare dove? Forse è inevitabile che a queste domande possa rispondere solo un percorso pienamente congressuale, che non può essere aperto in questo momento. Quel che però l’unanimità della Direzione certifica è che la sospensione della conflittualità interna è ottenuta solo a prezzo dell’immobilismo. Il punto di equilibrio è raggiunto reprimendo qualunque inclinazione da una parte o dall’altra.
Si può fare un semplice esperimento mentale, al riguardo. Chiunque saprebbe saturare una funzione del tipo: «Noi siamo la Lega, e per questo…», completando quel che i puntini sospensivi lasciano in bianco. Che cosa significhi essere la Lega è chiaro alla maggior parte degli elettori leghisti, e pure a coloro che leghisti non sono. Lo stesso dicasi per i Cinque Stelle, anche se le capriole Di Maio in cerca di un incarico di governo hanno lasciato sconcertata la base e fatto venire a molti qualche dubbio. Qualcosa però da mettere al posto dei puntini sospensivi i grillini ce l’hanno ancora, e si può star sicuro che non mancheranno di riproporlo con forza, se si scivolasse verso una nuova campagna elettorale.
E i democratici? Si sono ascoltati, in queste giornate, dirigenti del partito che provavano a dire qualcosa del genere: «Noi siamo il Pd e quindi non possiamo neanche ipotizzare di fare un governo coi Cinque Stelle, capeggiato da Di Maio». La Lega ha un suo «non possumus»: Salvini non può fare un governo col Pd. Il M5S ha il suo «non possumus»: Di Maio non può fare un governo con Berlusconi. Il Pd, invece, non ce l’ha. Ce l’hanno i renziani, ce l’ha Orfini, ce l’ha Calenda che pur di non allearsi coi grillini strapperebbe la tessera, ma poi c’è Veltroni che dice che è una buona idea, si può fare, Fassino che dice che si può tentare di costruirci insieme un nuovo bipolarismo (nientemeno!), Franceschini che dice che è quasi doveroso provarci (ci proverebbe con tutti, in realtà), e così via.
Allora, si potrebbe pensare che una qualche forma di divieto stia dall’altra parte, che per esempio un Cuperlo, ultimo alfiere della sinistra nel Pd, si proponga di dire: «Noi siamo la sinistra e quindi di un governo con il centrodestra proprio non se ne parla». Ma questa volta sono i renziani ad essere accusati di aver varcato e di voler ancora varcare troppo disinvoltamente questa linea. Da sempre: il Nazareno, Lotti che parla con Verdini, il Rosatellum fatto insieme per tagliar fuori i Cinque stelle. Il refrain si ripete: questi vogliono andare a braccetto con Berlusconi, adesso manderebbero giù persino un leghista buono, tipo Giorgetti, pur di farci insieme le riforme. E così via.
Né da una parte né dall’altra, insomma: il Pd non ha, allo stato, alcuna agibilità di movimento. Non ce l’ha nella partita ravvicinata che si è giocata in queste settimane – alla quale, con la Direzione di ieri, ha sostanzialmente confermato di non poter spingere in nessuna direzione, ma eventualmente solo là, dove il Colle vorrà – e non ce l’ha, al momento, nemmeno su uno scacchiere più ampio, sul quale dovrebbe reinventarsi una strategia che, dopo la sconfitta nel referendum costituzionale, nessuno ha più provato a tracciare. Perché, fino al 4 dicembre 2016, cosa volesse il Pd era noto. Cosa vuole oggi è invece assolutamente ignoto. Nessuno lo sa, probabilmente non lo sanno nemmeno gli stessi dirigenti del partito. Che infatti ieri discutevano non di cosa il Pd sia o voglia essere ma di chi dovesse parlare e di come e di quando e in quale sede. E si rinfacciavano questioni di metodo, di forma, di galateo e di rispetto reciproco, salvo poi quietarsi in una unanimità di facciata. Cioè nella più bellicosa di tutte le tregue possibili.
(Il Mattino, 4 maggio 2018)
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L’azionista scomodo
Ivan Matteo Lombardo: chi era costui? Ve lo dico subito, non posso mica fare come Manzoni: ho Wikipedia alle calcagne. Ivan Matteo Lombardo è stato segretario del Partito Socialista Italiano nell’immediato dopoguerra, fra il ’46 ed il ’47. Mesi decisivi, che precedono la scissione di Palazzo Barberini, capeggiata da Saragat, e la successiva sconfitta del Fronte popolare alle elezioni dell’aprile ’48. Lombardo fu scelto perché considerato non organico al gioco delle correnti. Un segretario di transizione, insomma, vaso di coccio fra i vari Nenni, Lombardi, Basso, Pertini.
Non è un gran che, come paragone, ma nella storia della sinistra italiana non vi sono stati molti altri segretari a cui facessero ombra i veri padroni del partito. Sicché la situazione in cui si trova il Pd dopo il voto del 4 marzo, con Matteo Renzi che controlla ancora la maggioranza della Direzione e dei gruppi parlamentari, senza tuttavia occupare la casella di Segretario, può difficilmente essere illustrata tramite precedenti storici. (La Dc: quella è un’altra storia).
Altro esempio, un po’ più ingombrante: Bettino Craxi, esponente della minoranza, viene eletto segretario del Partito Socialista grazie ai voti di un pezzo della maggioranza demartiniana in frantumi. Ma anche in quel caso alle sue spalle non c’è un vero dominus; vi sono piuttosto le diverse anime del partito che hanno raggiunto una precaria intesa sul suo nome. Senza, peraltro, neppure capire che non eleggevano un prestanome.
Maurizio Martina si trova dunque in una posizione assai più scomoda: non solo perché svolge solo le funzioni di reggente in attesa che il Pd riprenda il suo percorso naturale, verso un congresso o verso una nuova segreteria, ma perché dietro di sé, deve ancora fare i conti con una maggioranza sufficientemente compatta da dettare ai dem – e a lui stesso – tutte le mosse. Che non ci si trovi a suo agio lo hanno dimostrato le parole di ieri: dal ritorno in televisione di Renzi, che ha di fatto vanificato l’apertura di un tavolo di confronto con i Cinque Stelle, Martina ha tratto una traumatica conclusione: «è impossibile guidare un partito in queste condizioni».
Guidare, in effetti, è una parola grossa. Gravi nel metodo e nel merito, per Martina le dichiarazioni di Renzi significano comunque la violazione di un principio di collegialità di cui, accettando l’incarico, aveva voluto farsi espressione. Ora, collegialità è in realtà parola dal duplice significato, a seconda dei contesti: quando esiste una maggioranza forte e coesa, che non è sotto lo schiaffo di qualche rovescio elettorale e non ha complessi di sorta, collegialità significa il coinvolgimento della minoranza negli organismi di partito; quando invece regna la confusione, perché una maggioranza non c’è oppure non può dichiararsi tale, a seguito di una sconfitta politica o elettorale, allora collegialità è solo la foglia di fico dietro la quale si combatte senza esclusione di colpi la lotta per il controllo del partito.
Che è quello che sta chiaramente avvenendo nel partito democratico. Il rapporto con i Cinque Stelle c’entra fino a un certo punto, perché su un punto almeno è difficile dar torto a Renzi: senatori democratici che, allo stato, votino un governo Di Maio, non se ne vedono. Il fatto è che, dicendolo lui, prima della riunione della Direzione, Renzi ha dimostrato al colto e pure all’inclita che i numeri, nel partito, sono i suoi. Perché Renzi continua ad essere l’azionista di riferimento, anche se è costretto, nell’attuale congiuntura, a dire che i renziani non esistono.
La stessa cosa, per la verità, la diceva D’Alema: ecco un esempio forse più calzante. Anche i dalemiani, nelle parole del loro leader, non sono mai esistiti, e tuttavia è sempre esistita un’influenza determinante di D’Alema sui Democratici di sinistra, anche dopo la fine del suo governo e la successiva vittoria del centrodestra nel voto del 2001. Nemmeno D’Alema, insomma, perse le elezioni regionali del 2000, e dimessosi da Palazzo Chigi, si ritirò a vita privata.
Quale ruolo possa o debba giocare Renzi nel futuro prossimo dei democratici non è chiaro. I vari Franceschini, Orlando, Cuperlo, agevolerebbero volentieri la collocazione di Renzi in quel di Rignano, in soffitta, nel Pantheon dei padri nobili, o anche in qualche prestigiosa posizione internazionale, ma insomma: da qualunque altra parte che non fosse il Nazareno. Renzi, lui, rimane convinto, che il progetto politico riformista, che si è infranto sullo scoglio del referendum istituzionale, sia non solo la sua carta migliore, ma pure l’unica a disposizione del centrosinistra. È vano, allora, e francamente anche un po’ ridicolo, farne una questione psicologica, di personalità o di carattere. Renzi che non sa perdere, Renzi a cui non sono bastate le scoppole rimediate. E via recriminando. Se mai, sono gli altri che non sanno vincere: in politica è sempre così. Si tratta dunque di un nodo politico vero. Che non c’è modo di affrontare senza mettere in campo strategie alternative. Non dunque mere differenze di sensibilità, romantiche spruzzate di questione sociale e, appunto, l’immancabile richiesta della collegialità. Piuttosto, se ci sono, idee diverse del Pd, del Paese, del mondo. Che, se non ci sono, forse è vano pure cercare l’Ivan Matteo Lombardo di turno.
(Il Mattino, 1° maggio 2018)
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Le monetine contro Craxi e l’incompiuta istituzionale
Venticinque anni fa, la folla che sostava dinanzi all’hotel Raphael lanciò all’indirizzo di Bettino Craxi insulti, banconote e monetine, indignata per il voto del Parlamento che aveva negato l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex Presidente del Consiglio. La scena, consegnata ai libri di storia, ha lasciato la sua impronta sull’intero arco della seconda Repubblica, ed è ancora tanto potente che Marco Travaglio ha potuto dire, rievocando quei giorni, che quella folla inferocita aveva perfettamente ragione, e aggiungere: «il problema è che hanno smesso troppo presto». Non così presto, tuttavia, da non forgiare un tratto permanente della politica italiana, che ha convertito il furore giustizialista di quegli anni in un fenomeno politico di prima grandezza. Lo chiamiamo populismo, che è parola sfuggente, ambigua, imprecisa, sotto la quale finiscono certamente cose diverse, ma che coglie almeno un aspetto, il rumore sordo del rancore che cova in tratti ampi della società, come hanno mostrato le analisi del Censis qualche mese fa. Accresciuto certo dalle difficoltà economiche che l’Italia ha attraversato, soprattutto nell’ultimo decennio, ma nutrita anche dal declino progressivo della cultura pubblica del Paese e delle sue classi dirigenti.
E certo lo stallo in cui il Paese è bloccato dopo il voto del 4 marzo non rappresenta un’iniezione di fiducia. Forse però è proprio in momenti di emergenza politica e istituzionale che è possibile imboccare una strada diversa. Questa almeno è la tesi che ha provato a sostenere Renzi, ieri sera in tv. La questione del governo viene dopo, e non prima un accordo sulle regole del gioco, su una riforma elettorale e costituzionale che col doppio turno alla francese ci tiri fuori dall’impasse. Renzi ha anche retrodatato la sconfitta del Pd: al 4 dicembre 2016, il giorno del referendum costituzionale che bocciò la riforma portata avanti dal suo governo. Indisponibile fino all’irrisione a votare la fiducia a un governo a guida Cinque Stelle, Renzi ha però indicato un’alternativa a nuove elezioni, chiedendo ai partiti usciti vincitori dalle urne di provare a percorrere la strada che già il Pd aveva tentato nella scorsa legislatura, quella del cambio di sistema. Chiedessero i voti non per fare un governo pur che sia, ma per aprire una stagione costituente, per riformare il bicameralismo, cambiare la legge elettorale, introdurre il doppio turno, rimettere ai cittadini la scelta di governo, vista la difficoltà di farne nascere uno dal confronto politico e parlamentare. Sotto l’egida del Presidente della Repubblica, a cui spetterebbe il compito di trovare la personalità in grado di guidare il processo.
Non è facile: la transizione infinita in cui il Paese è impegnato non accenna a concludersi proprio perché non riesce l’impresa di convertire la sfiducia nel vecchio assetto politico nell’investimento in un nuovo sistema, in una nuova fisionomia istituzionale. Renzi fissa l’asticella troppo in alto? Può darsi. Può darsi che gli serva farlo a fini tattici, per non doversi limitare a dire soltanto di non voler fare da forno ai Cinque Stelle.
Cionondimeno è vero che lo spettacolo deprimente di queste settimane di trattative e consultazioni sempre più al ribasso, in cui i Cinque Stelle hanno progressivamente accantonato tutti i nodi politici veri pur di trovare il modo di portare Di Maio a Palazzo Chigi, hanno ulteriormente depresso il valore della politica. Che non è semplicemente un condominio di amministrazione, ma il punto di identità di una nazione, l’orizzonte di senso in cui si iscrive la sua azione collettiva, lo spazio in cui si riconosce e si rinnova l’esercizio della cittadinanza. Se non si ha un alfabeto per compitare queste parole, non solo non si faranno le riforme, ma si lascerà che si odano ancora soltanto le parole di una inconcludente, interminabile stagione di discredito e sfiducia, di populismo sempre più arrabbiato e, chissà, prima o poi anche di un autoritarismo strisciante.
P.S. A proposito della pioggia di monetine di venticinque anni fa, con cui tutto è iniziato, Travaglio ha detto che «la gente si riversò davanti al Raphael dopo aver visto la scena di arroganza di un ladro conclamato che l’aveva fatta franca con la complicità del Parlamento». Travaglio si sbaglia: l’uomo politico che quella sera tra le contumelie usciva frettolosamente dall’hotel proteggendosi col soprabito dal lancio di oggetti non era affatto un ladro conclamato. Nessuna sentenza definitiva lo aveva ancora colpito. Era innocente, fino a prova contraria. L’unico clamore era dunque quello sollevato dalla folla, quella che Travaglio volentieri continuerebbe ad aizzare. Questo tipo di errore in sede logica si chiama «hysteron proteron»: usare quello che è successo dopo per giustificare quello che è successo prima. In sede penale non so: dipenderà dalla querela che Stefania Craxi si è riservata di sporgere contro il giornalista. Ma in sede di analisi politica e storica, è la più evidente dimostrazione di come si continui ad applaudire la gogna mediatica, a condannare senza processare, a riconoscere nella piazza il luogo della condanna anticipata, e a fornire così l’albero genealogico di tutti i Vaffa Day della nostra storia recente.
(Il Mattino, 30 aprile 2018)
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Contro gli sfascisti c’è il robot per amico
È altamente sconsigliabile, per non farsi prendere dallo sconforto, leggere il libro di Claudio Cerasa, «Abbasso i tolleranti. Manuale di resistenza allo sfascismo» (Rizzoli, € 18), da oggi in libreria, in giorni di affannosa e per ora inconcludente ricerca di un governo. O forse è consigliabilissimo: è, anzi, la lettura più indicata per alzare un po’ lo sguardo oltre il balletto di incontri di questi giorni, i forni e i contratti alla tedesca, i governi di cambiamento in cui non si capisce cosa mai significhi cambiare, che cosa nutre davvero il cambiamento: quali forze positive dell’economia e della società, quale visione del futuro e della modernità.
Cerasa queste idee le ha invece chiare, e le snocciola in brevi e gustosissimi capitoletti, che forniscono una mappa precisa e aggiornata delle trasformazioni che nel prossimo futuro cambieranno il paesaggio delle nostre società. Non a caso, nelle prime pagine del libro si fa l’incontro con «un robot per amico»: ecco un’ottima cartina di tornasole per verificare con quale disposizione guardiamo alla rivoluzione tecnologica in corso. Chi è il robot? Un alieno venuto in terra per toglierci il lavoro e defraudarci del senso stesso dell’esistenza, riducendoci tutti a schiavi delle macchine, o piuttosto un’opportunità per migliorare le nostre vite, per inventare daccapo i termini stessi della nostra esperienza? Cerasa non ci fa vedere il robot in fabbrica, o in qualche centro di ricerca sperimentale all’avanguardia: ce lo mostra nel quotidiano delle relazioni familiari, in cui il robot si inscriverà a breve, divenendo un compagno di giochi o di studi dei nostri figli. Bene, che si fa? La cosa vi spaventa o vi attrae? Cerasa non ha molti dubbi, al riguardo: «Per comprendere il mondo bisogna comprendere i robot e chi ha paura dei robot oggi ha un problema con il mondo che sarà».
I robot, ma non solo quelli. Anche gli ogm, l’alta velocità, i vaccini, o i termovalorizzatori. Un Paese capace solo di diffidare di tutto questo, altro che cambiamento: rischia di morire di sclerosi. L’elenco delle diffidenze che frenano l’Italia è peraltro molto più lungo. Le sette sezioni in cui il libro è diviso indicano con decisione le battaglie politiche e culturali che il direttore de «Il Foglio» conduce: abbasso i pessimisti, abbasso gli incompetenti, abbasso i duri e puri, abbasso i nostalgici, abbasso i professionisti della lagna, abbasso gli immobilisti, abbasso il politicamente corretto. Su alcuni di questi fronti si avverte il senso di un’urgenza maggiore, là dove ne va della salute stessa dei sistemi democratici. Una democrazia non è infatti solo diritti soggettivi e suffragio universale: è anche l’articolazione di un sistema istituzionale, è un’opinione pubblica informata, è un’amministrazione pubblica efficiente, è, soprattutto, una classe dirigente che non si vergogna di essere tale.
Non sembra essere la strada che l’Italia ha intrapreso, per uscire dalla seconda Repubblica. La retorica populista e il moralismo giustizialista che tiranneggiano lo spirito pubblico sono dunque il bersaglio che Cerasa ha di mira, ed è difficile, su questi versanti, dargli torto: difficile non preoccuparsi del modo in cui le competenze vengono travolte da «quello che dice la Rete», di come si stia invertendo il senso di una leadership, che non consiste più nel guidare ma nell’essere guidati dall’esercito dei follower, di come un avviso di garanzia diventi una condanna anticipata, di come l’ideologia della trasparenza e la cultura del sospetto si mangino quote crescenti di libertà individuale, di come i controlli di qualità e l’esercizio della responsabilità nell’informazione rischino di essere travolti online, di come i monopoli in Rete, nel mondo dei social media, mettano in pericolo gli equilibri tra i poteri.
Si potrebbe continuare. Si vedrebbe che l’ottimismo di Cerasa, sempre brillantemente argomentato (con qualche innamoramento di troppo, come quello per Steven Pinker), non è del genere di un novello Pangloss, il personaggio leibniziano, messo alla berlina da Voltaire, che dinanzi a qualunque bruttura o disgrazia sosteneva imperterrito che questo mondo è il migliore dei mondi possibili. È piuttosto un «ottimismo strategico»: ciò di cui, secondo Hilary Putnam, «abbiamo davvero bisogno nell’epoca attuale». E, forse, la vera nota di pessimismo che viene per contrasto dal libro si deve al fatto che alla ricca trama di citazioni e riferimenti che lo sostiene non contribuisce quasi mai la scienza sociale o politica italiana. Non sono italiani gli psicologi, gli storici, i linguisti o i politologi che Cerasa cita. Esterofilia dell’autore o angustia dei nostri circoli intellettuali? Euforia da nuovo mondo o avvilimento per lo stato del dibattito pubblico, nel nostro Paese?
(Il Mattino, 30 aprile 2018)
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Se il Pd si avvia verso una nuova resa dei conti
Dove porterà il dialogo fra partito democratico e Movimento Cinque Stelle? Per Matteo Renzi, da nessuna parte: quindi meglio non intraprenderlo neppure. Per Maurizio Martina, non si sa: quindi, se sarà percorso, bisognerà che gli iscritti prendano la parola con un referendum. Non è la stessa linea. Non dicono la stessa cosa. E non sembrano puntare nella medesima direzione. Perché la sottolineatura con cui Martina teneva ieri a precisare che il prossimo 3 maggio la direzione del Pd deciderà solo e soltanto se avviare la discussione, serve a imboccare un sentiero che, per quanto stretto, allontani il Pd da Renzi.
Immaginate cosa comporta infatti la prospettiva delineata da Martina: una direzione nazionale che – certo con molta prudenza, molti distinguo e molte condizioni – dà tuttavia mandato a una delegazione del partito di sedersi allo stesso tavolo con Luigi Di Maio. Poi una serie di riunioni, in cui si discute di lavoro, immigrazione, povertà: non sono questi i problemi degli italiani? Il Movimento potrebbe anche chiedere, come ha già fatto con l’opera di sbianchettamento del programma affidata al professor Della Cananea, di rimettere ad esperti dei due partiti i punti di merito, così da ricavarne un’immediata legittimazione e rivestire di una qualche «oggettività» il risultato dell’approfondimento programmatico. In tutta questa parte della discussione, potrebbe volentieri lasciare al Pd il compito di fare il cattivo, richiamando compatibilità, impegni internazionali, vincoli di bilancio. Per sé potrebbe riservarsi la parte su cui si sostiene l’identità politica del Movimento, quella dei moralizzatori che cambiano il sistema a colpi di abolizione di vitalizi e riduzione di autoblu (su una delle quali, peraltro, il Presidente Fico è stato costretto a salire, prima di avventurarsi in una nuova, affollata e tragicomica passeggiata romana con scorta e carabinieri al seguito). L’approfondimento potrebbe andare anche molto avanti: se son bravi, ad ogni imprescindibile riforma fatta dai governi a guida democratica che la delegazione dem volesse rivendicare, ai Cinque Stelle basterebbe opporre un ragionevole «sì, però». Sì, però occorre mettere più fondi sul reddito di inclusione, oppure per la giustizia, o per qualcos’altro ancora. Sì alla Tav, però con una maggiore attenzione alle compatibilità ambientale. Sì all’accoglienza, però ridiscutiamo con Bruxelles l’impegno degli altri Paesi. E così via. Non dico che smusserebbero tutti i motivi di possibile attrito o che si troverebbe comunque uno straccio di «contratto alla tedesca» da firmare, ma certo che il Pd dovrebbe portare ragioni di vero attrito, tirare in ballo robe – le riforme costituzionali, la concezione della democrazia rappresentativa, i diritti civili, la legge sui partiti, la stessa riforma della legge elettorale – su cui il Pd ha già sperimentato di andare controvento. Dall’altra parte, invece, il Movimento impiegherebbe cinque minuti a mandar tutto all’aria, quando volesse, in qualunque momento: gli basterebbe sollevare dinanzi al toro dell’opinione pubblica il panno rosso della casta, dei privilegi della politica, della corruzione, rispolverare insomma l’arsenale populista messo in naftalina in queste settimane per gettare addosso al Pd il solito marchio d’infamia e sfilarsi da ogni accordo. In qualunque momento del percorso.
Immaginate, però, la cosa, insisto: ogni giorno in più che il Pd impegnasse nel confronto franco e costruttivo – come si dice in gergo diplomatico – coi Cinque Stelle, significherebbe chiaramente un passo fuori dall’orbita renziana, e, per Martina un robusto margine d’azione in più. Che si amplierebbe a dismisura qualora si dovesse arrivare davvero a chiedere agli iscritti, con un referendum, il sì o il no all’accordo. Perché non solo non varrebbe più la maggioranza di Renzi dentro la direzione o nei gruppi parlamentari, ma il referendum si terrebbe sicuramente su un testo generico e dai buonissimi propositi, rispetto ai quali sarà difficile anche al più irruente degli ex segretari mettersi di traverso senza fare la figura di quello che non ci sta. Da nessuna parte, nel testo che sarebbe sottoposto agli iscritti, si troverebbe formulato a chiare lettere il vero motivo per cui si farebbe un accordo simile: evitare le elezioni, e infilarsi nel taxi del governo a guida pentastellata per portare il Pd da un’altra parte. Ovunque sia, ma lontano da Renzi.
A quel punto, sarebbe forse lo stesso Renzi a doversi chiedere se il suo rientro in campo possa mai avvenire senza l’invenzione di un nuovo soggetto politico.
(Il Mattino, 29 aprile 2018)
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