In fondo, le tesi che Sir Roger Penrose ha esposto ieri, nell’incontro con il filosofo Emanuele Severino, tenutosi a Milano, presso il Centro Congressi della Fondazione Cariplo, sono semplici, e sono due. La prima: la mente umana ha qualità non computazionali. La seconda: la fisica quantistica è necessaria per spiegare quello che avviene nel cervello dell’uomo. La prima tesi traccia un confine al momento inoltrepassabile fra intelligenza naturale e intelligenza artificiale. Gli studi sull’intelligenza artificiale hanno fatto progressi enormi, e tuttavia computer e robot e macchine intelligenti non esibiscono affatto un comportamento umano. Di più: anche se lo esibissero, non diremmo per ciò stesso che posseggono una “mente cosciente”. Non è lo stesso simulare la mente umana ed “essere” una mente umana (le virgolette sono indispensabili, perché il senso di questo essere è precisamente ciò che è in questione). La seconda tesi è, al momento, poco più di una congettura. Cosa avviene precisamente nei microtubuli del cervello di cui parla Penrose noi, infatti, non lo sappiamo. Tuttavia per Penrose la fisica quantistica, con il suo carico di paradossi e di “indeterminazione”, può darci una mano a capire come una mente emerga dal cervello: come un effetto quantistico. Penrose è un matematico e uno scienziato: ha bisogno di una teoria fisica e di un orizzonte naturalistico entro il quale collocare la mente, e più specificamente di una teoria fisica che non sia scombussolata dalle prestazioni non computazionali di cui la mente umana è capace. La rivoluzione quantistica fa dunque al caso suo.
Fin qui, dunque tutto bene, o quasi. Ma poi doveva esserci il confronto con la tradizione del pensiero filosofico, rappresentata nell’incontro milanese da Emanuele Severino. Se le sale della Fondazione erano colme all’inverosimile, trovando peraltro l’organizzazione largamente impreparata – file ai cancelli, calca, ritardi, attesa sotto un sole caldissimo, corsa all’accaparramento dei posti, gente in piedi o accovacciata per terra tra stucchi, lampadari e tele di Luca Giordano – era per via della possibilità, piuttosto eccezionale, di ascoltare un dialogo inedito fra un grande filosofo e un grande scienziato. Chissà: al di là della legittima curiosità, forse il pubblico si aspettava davvero che accadesse qualcosa, qualcosa che non riproducesse semplicemente quello che si trova già nei libri – sia Penrose che Severino sono autori prolifici – e che scaturisse invece dall’urto fra teorie e prospettive assai distanti, persino contrapposte.
Così non è stato. A lamentarsene è stato lo stesso Severino, che nella replica finale, pur cortese e garbata, ha mosso tuttavia un rimprovero per nulla velato a Penrose, di non aver fatto nessun tentativo di comprendere le ragioni della filosofia. Ben s’intende: si tratta pur sempre delle ragioni addotte dal filosofo bresciano. E però, diamine: se si apparecchia un tavolo simile, con fisici e psicologi a contorno, non è solo per sorridere per il sottile humour britannico o per ascoltare l’ultimo oratore che ai propri interlocutori si rivolge con la terza persona plurale. Loro sapranno, dice amabilmente Severino, e sottintende che invece non sanno affatto quel che c’è da sapere, o almeno da discutere. “Non vedo nessun tentativo di capire il discorso della filosofia”, borbotta ancora, schiarendosi un po’ la voce, ed effettivamente i quattro punti elencati dal filosofo sono rimasti completamente fuori dall’orizzonte delle considerazioni di Penrose.
Primo punto. Penrose si domanda dove mai risiede la coscienza, ma non si domanda se la domanda non sia mal posta. Non è infatti cosa ovvia, per la filosofia, che la coscienza debba trovare un posto nel mondo, e non essere invece l’apparire stesso del mondo. Ci si può certamente rifiutare a una prospettiva trascendentale del genere, e sostenere empiristicamente che al mondo non ci sono che fatti (l’apparire del mondo non è un fatto), ma bisognerebbe ragionarne e discuterne, e non farne una cosa ovvia, affidandosi al comune buon senso, che vede cose apparire ma non vede apparire l’apparire. Beninteso: bisognerebbe ragionarne, se di filosofia e con i filosofi si vuol discutere, e rendere proficuo un incontro pubblico.
C’è di più. Le neuroscienze sono in genere abbastanza convinte che la coscienza sia una roba che scaturisce dal cervello: niente cervello, niente coscienza, non è ovvio? Non tanto. Perché magari un cervello da solo non fa una coscienza, così come un cervello da solo non fa un linguaggio. Questa completa trascuratezza della situazione intersoggettiva in cui si manifesta la coscienza, in cui è parlato un linguaggio ed esercitato un pensiero, è iscritta a fondo nel programma di ricerca del cognitivismo contemporaneo, e difficilmente viene rilevata come un limite fondamentale di quel programma. (Anche perché sotto risonanza magnetica funzionale e scansione cerebrale ci va un cervello alla volta). Severino, a modo suo, ha posto questo secondo punto: che cosa sappiamo della coscienza degli altri? Che cosa e come, come cioè vi abbiamo accesso, come essa appare in quanto altra? Se c’è un tema che la filosofia del Novecento ha posto, è proprio quello del rapporto con l’altro (e con gli altri). Da Sartre a Lévinas, da Wittgenstein a Derrida, lo si ritrova un po’ dappertutto, salvo – è da dire – negli studi sull’IA. Non ci si accorge così che la macchina intelligente che si vuol far nascere è profondamente sola. A differenza del Dio della Bibbia, noi che siamo (o saremmo) i suoi creatori non ci siamo posti il problema di dargli, traendolo dalla sua costola, un compagno o una compagna. Essa nasce come Minerva dalla testa di Giove: ha già tutto in dotazione nei suoi circuiti al silicio. Certo, è sempre più in grado anche di apprendere, ma apprendere significa solo immagazzinare e poi elaborare in proprio. Nel che non vi è solo un’aporia logica e ontologica, ma pure una minaccia pratica. Quanto più in futuro dialogheremo con macchine così costituite, tanto più rischia di indebolirsi la nostra stessa costituzione comunitaria e transindividuale.
Terzo punto. La creatività umana è irriducibile a qualunque prestazione meccanica, o algoritmica, si dice. Che trent’anni fa la nanotecnologia molecolare abbia cominciato a scuotere questa ovvietà non sembra aver sfiorato molto le convinzioni di Penrose. Al contrario, Severino può ben dire che, ben prima dei motori di creazione di Eric Drexler, era già del parere che vita e tecnologia non differiscono affatto, quanto ai presupposti concettuali di fondo, quanto cioè alla comprensione produttivistica e tecnica del loro essere. Questo era ed è, del resto, il suo ultimo punto, attorno a cui tutto ruota. Per quale motivo si allestisce infatti un confronto sul tema dei rapporti fra intelligenza naturale e intelligenza artificiale, se non per domandarsi quali siano i limiti della tecnica, se limiti vi sono? Ora, per Severino quei limiti non ci sono, fintanto che, almeno, si rimane dentro quella che chiama la follia dell’Occidente, ossia la fede nel divenire delle cose, nel loro venire dal nulla e tornare nel nulla. La tecnica, nel suo illimitato dispiegamento, è solo l’estrema conseguenza di questa fede, che comporta l’infinita trasformabilità del tutto. E la scienza, a sua volta, è alleata della tecnica. Anzi: va a rimorchio. Ha per scopo la potenza e il dominio sul mondo, non già la verità come incontrovertibilità.
Queste ultime proposizioni richiederebbero naturalmente di essere fondate in modo appropriato. Ma è il senso di una intera vita filosofica, quella che Severino ha condotto, lavorando sui classici della metafisica occidentale, da Parmenide in poi. E certo non si poteva sperare che Penrose si portasse su questo terreno.
Però è curioso l’effetto. Da una parte, il filosofo quasi novantenne, carico di anni e di libri, che cita ancora a memoria Platone e Cartesio, ma riesce ad essere assolutamente spregiudicato a riguardo di quella vecchia cosa che è l’uomo, senza false consolazioni o umane, troppo umane preoccupazioni. Dall’altra un formidabile scienziato, un ricercatore brillante e un valentissimo matematico, che usa i microtubuli cerebrali per salvare l’onore dell’umanità. Uno dice tutto è macchina, tutto è tecnica (entro la storia dell’Occidente), l’altro no, l’altro si intenerisce e per l’uomo fa un’eccezione. Quelli che sono abituati a pensare che il più metafisico e il più antropocentrico tra lo filosofo e lo scienziato sia, per mestiere, il primo, avrebbero trovato nell’incontro milanese un buon motivo per ricredersi.
(Il Mattino, 14 maggio 2018)
(per chiarezza) Detto così sembrerebbe che Penrose sia rappresentante di un movimento scientifico importante che ritiene che l’intelligenza sia raggiunta grazie a meccanismi quantistici. Di fatto è una posizione molto isolata e ritenuta bizzarra dai suoi colleghi.