Il daspo ai corrotti e la difesa a rischio

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Prima ancora di occuparsi di specifici temi, il premier Conte ha voluto spiegare, nel suo discorso al Senato, perché il governo da lui presieduto sarà il governo del cambiamento. E accanto alle questioni economiche, ai diritti sociali e alla sicurezza, ha posto i temi della giustizia. A ragion veduta: se l’Italia avesse, soprattutto in sede civile, una giustizia efficiente come quella di altri paesi europei, il cambiamento sarebbe tangibile, e ne beneficerebbero cittadini e imprese. Il passaggio riservato verso la fine del discorso al diritto fallimentare – appena riformato, ma con deleghe ancora da attuare – lascia ben sperare. Ma il Presidente del Consiglio non ha posto in premessa i nodi della giustizia civile, bensì quelli della giustizia penale, e più precisamente ha insistito sulla lotta alla corruzione. Che sarà combattuta, ha spiegato, “con metodi innovativi come il daspo ai corrotti e con l’introduzione dell’agente sotto copertura”.

Ora, che su questa materia vi sia un generale e diffuso consenso e che una delle forze politiche di maggioranza, i Cinque Stelle, ne abbia fatto un cavallo di battaglia dal quale non hanno alcuna intenzione di scendere, è fuori discussione. Se il governo non ponesse innanzi a tutto l’opera di pulizia promessa da anni a un elettorato sempre più convinto del marciume della politica nazionale, tradirebbe davvero aspettative assai diffuse. Ma la giustizia penale è materia delicatissima, nel riformare la quale inseguire il plauso dell’opinione pubblica non è affatto garanzia di equilibrio – parola che per fortuna il premier non ha mancato di usare più volte, e che sarebbe importante avesse presente anche quando proverà ad inasprire la legislazione penale corrente. Conte, del resto, è uomo di legge, è avvocato, e come avvocato capisce bene che cosa significhi toccare diritti e garanzie. Per la verità, avvocati, e avvocati del popolo, erano anche fior di giacobini: ma non è da loro che, in tema di giustizia, converrà prendere spunto.

Per esempio: il “daspo” ai corrotti . È presto per capire quale fisionomia avrà in concreto, ma intanto: il daspo è una misura amministrativa. Passerà pure, per la sua convalida, sulla scrivania di qualche giudice, ma in pratica significa che può piovere sul capo del presunto (soltanto presunto) corrotto senza che questi possa avvalersi di tutte le garanzie difensive, vedendosi in compenso rovinata la reputazione ben prima del processo.

Questa idea che la giustizia penale funziona meglio e più speditamente quanto più spoglia i soggetti del vestito dei diritti e lo consegna nudo nelle mani dell’autorità non appartiene più alla nostra tradizione giuridica, e sarebbe bene che non vi entrasse di nuovo. Se si applica il daspo in certi casi limitati (tipicamente, nei confronti degli ultras) è per non trattare tutti i cittadini come ultras, o peggio gli uffici pubblici come stadi. Son cose diverse, spazi diversi, soggetti diversi e interessi pubblici diversi.

Anche sull’agente sotto copertura è lecito nutrire più di una perplessità. Se ne può estendere l’utilizzo, ma senza un quadro molto, ma molto rigoroso di condizioni, vincoli e garanzie, rischia di diventare uno strumento non di giustizia ma di arbitrio. Lo è stato, in passato, dentro regimi politici non democratici: noi però dobbiamo lottare contro la corruzione, non usurare il quadro ordinamentale dei diritti e delle garanzie. Né vale la pena mettere a repentaglio beni costituzionali per adottare provvedimenti in ragione della loro valenza fortemente simbolica, a prescindere cioè dalla loro efficacia e dalla loro effettiva azionabilità.

Il premier ha ben detto che non è populismo ascoltare la gente. Ma lo è far fare le leggi alla gente. In Costituzione c’è scritto che la Costituzione è amministrata in nome del popolo. Ma appunto: in nome, non dal popolo. Mantenere una certa distanza fra l’ideale della giustizia, la sua amministrazione e gli umori popolari è essenziale per non considerare indagini e processi come antiche ordalie.

(Il Mattino, 6 giugno 2018)

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