C’è di nuovo un fianco meridionale scoperto. Il corso della politica cambia in Italia, ma cambia anche in Spagna, con la sfiducia al popolare Mariano Rajoy e il passaggio della guida del governo nelle mani del socialista Pedro Sanchez. Un vero ribaltone, e una novità assoluta per la storia della Spagna democratica. Ma a mettersi in movimento è anche lo scenario politico greco, dove il governo di Alexis Tsipras è chiamato a fronteggiare nuovamente la mobilitazione popolare, che sta paralizzando il Paese. Nonostante i primi segnali di ripresa – in particolare sul versante occupazionale – è forte il malcontento verso l’ultimo round del piano di austerity adottato nel 2015 sotto la pressione di Unione Europea, FMI e BCE.
Dunque: non c’è solo una questione meridionale in Italia ma, a quanto pare, una questione meridionale europea. Sul piano economico, a introdurre la nozione di mezzogiornificazione nel bel mezzo della crisi è stato Paul Krugman, per segnalare il dualismo economico che caratterizza i rapporti fra i Paesi centrali e i Paesi periferici dell’euro-zona, la desertificazione produttiva che ha colpito il Sud Europa a fronte dell’intensificazione della produzione e della crescita occupazionale registratesi nelle nazioni economicamente più forti.
Di una simile impostazione è in fondo figlio anche il gran parlare che si è fatto in questi giorni di piani B e uscite dall’euro, di revisione delle regole di Maastricht e di Europa a trazione tedesca. Se però ieri il neo-ministro dell’Economia, Giovanni Tria, subito dopo il giuramento nel palazzo del Quirinale, ha rassicurato i partner europei, spiegando che nessuno in Italia vuole uscire dall’euro – anche se, ha subito aggiunto, questo non significa che non si debba rivedere l’architettura economico-finanziaria dell’Unione – è sul piano politico che è più complicato fornire analoghe rassicurazioni.
Il paesaggio politico è infatti profondamente mutato, ma è ancora ben lontano dal garantire stabilità. L’Italia, in questo senso, costituisce una sorta di laboratorio. Tutto è ancora in movimento, e probabilmente non c’è oggi nessuno disposto a scommettere con convinzioni sulle seguenti cose: che la legislatura durerà cinque anni; che se proprio cinque anni interi dovesse durare, vigeranno ancora, al termine, le regole politiche e istituzionali in vigore al principio di legislatura; che nei prossimi cinque anni non nasceranno nuove forze politiche, non si rimescoleranno nuovamente le carte, non si ridefiniranno alleanze e schieramenti.
Lega e Cinque Stelle rappresentano indubbiamente il cambiamento, ma, si dovrebbe aggiungere, l’ennesimo. I partiti che sono stati relegati all’opposizione non sono infatti partiti storici, di antica tradizione: anche se iscritti in Europa alle famiglie socialiste e popolari, sono partiti di recente formazione. Forza Italia, fondata nel ’94, è in realtà rinata frettolosamente pochissimi anni fa, dopo la fine del progetto unitario del Popolo della Libertà. Il Partito democratico ha invece soltanto undici anni, benché abbia già cambiato più e più volte segretario. Tutto si può dire, insomma, meno che si tratti di sigle politiche radicate in profondità nella storia del Paese. Contemporaneamente, sono naufragati tutti i tentativi di riforma costituzionale, fino al clamoroso insuccesso del referendum del dicembre 2016. E lo stesso assetto bipolare, che sembrava un dato acquisito della seconda Repubblica, è, di fatto, saltato.
Il raffronto con le esperienze greche e spagnole conferma la mezzogiornificazione politica. E con ciò intendiamo: il dato di instabilità politica, l’affanno crescente delle procedure democratiche, di frammentazione del quadro dei partiti. In Spagna, nonostante il ritorno del partito socialista al potere, la scena politica ha due nuovi protagonisti, la sinistra di Podemos e i centristi di Ciudadanos, con questi ultimi considerati ormai il primo partito (e una crisi catalana ancora da domare). In Grecia al potere è invece la nuova formazione di Syriza, che ha ridotto ai minimi termini la sinistra tradizionale del Pasok, e che però dovrà vivere pericolosamente l’anno che lo separa dalle prossime elezioni europee, con le opposizioni in piazza (compresa quella para-nazista di Alba Dorata).
Ora, si può certo ricondurre la dialettica politica a quella che oppone sovranisti a europeisti, o partiti anti-establishment a partiti pro-establishment: sia però il populismo la malattia o la cura, è evidente che la politica è fuoriuscita dai suoi contenitori tradizionali. E, come con il dentrificio, è quasi impossibile farcela tornare dentro.
C’è un’eccezione, però, nel Sud Europa. Non mediterraneo, ma atlantico: il Portogallo. Dove continuano ad alternarsi al potere i vecchi partiti socialista e socialdemocratico (aderente al partito popolare europeo). Quella è però chiaramente una storia diversa. L’ha raccontata, una volta, José Saramago. Il grande scrittore portoghese, futuro premio Nobel della letteratura, era su un treno italiano e conversava amabilmente con i vicini di scompartimento, finché uno di essi non gli chiese la sua nazionalità. Saramago propose loro di indovinarla, e i viaggiatori ci provarono, citando Paesi vicini e lontani, ma a nessuno venne in mente il Portogallo. Da quell’esperienza, e da altre simili vissute in Europa, Saramago trasse lo spunto per un romanzo, «La zattera di pietra», uscito nel 1986, che racconta di una penisola iberica che si stacca dal continente europeo e comincia a vagare per l’oceano atlantico.
Chissà: forse l’Italia non si staccherà mai dall’Europa. Ma, se mai dovesse essere, non sappiamo verso quali lidi uno scrittore può immaginare che il nostro Paese navigherebbe.
(Il Mattino, 2 giugno 2018)