In «Fatti e norme», il filosofo tedesco Jürgen Habermas distingue i discorsi pragmatici dai discorsi etico-politici. Nei primi, scrive, «noi verifichiamo la convenienza delle strategie d’azione partendo dal presupposto di sapere ciò che vogliamo»; nei secondi, invece, «ci accertiamo di una configurazione di valori partendo dal presupposto di non sapere ancora che cosa per davvero vogliamo». La discussione pubblica sul contratto di governo che Salvini e Di Maio si apprestano a firmare ha riguardato anzitutto gli aspetti pragmatici: quali strategie d’azione, sul presupposto che sia assodato ciò che i contraenti vogliono. Ieri, ad esempio, il Presidente di Confindustria, Boccia, rilevava che dal programma «non è affatto chiaro dove si recuperano le risorse per realizzare i tanti obiettivi e promesse elettorali». In effetti: non è chiaro. Però non è meno importante chiedersi che cosa veramente obiettivi e promesse elettorali riservano al nostro Paese. E cioè, per dir meglio: che Paese leghisti e grillini vogliono per davvero. È il discorso etico-politico che va esplicitato, e che riguarda la «configurazione di valori» o, come il filosofo dice in quella pagina, «l’autocomprensione politico-culturale di una certa comunità storica».
La comunità storica di cui parliamo è l’Italia, siamo noi. E l’Italia che il contratto di governo disegna è un’Italia tutta raccolta intorno a obiettivi di rivalsa, percorsa da uno spirito giustizialista, securitario e repressivo, intenta solo a difendersi da enormi ingiustizie (l’Europa) e apocalittiche minacce (l’immigrazione). Non che non sia un programma ambizioso, quello che le due forze politiche hanno scritto. Ma l’ambizione di cui Lega e Cinque Stelle danno prova non riguarda il futuro del Paese, ma solo un certo senso di giustizia sociale che verrebbe – alla buon’ora! – soddisfatto restituendo l’Italia agli italiani (qualunque cosa ciò significhi), elargendo con mani abbondanti il reddito di cittadinanza, liberando il cittadino dagli odiosi gravami del fisco, abolendo la vessatoria Legge Fornero, espellendo gli immigrati che o delinquono o ci rubano il lavoro.
Tutto ciò è stato ben ricapitolato ieri da Alessandro Di Battista, nel post indirizzato in modo vagamente minaccioso a un Presidente della Repubblica ancora esitante a conferire l’incarico al professor Conte, in cui si chiede «un governo forte, un governo capace di intervenire, se necessario con la dovuta durezza, per ristabilire giustizia sociale», A cosa alluda la durezza di cui parla Di Battista non è dato sapere, ma non credo sia errato riconoscere in quella locuzione anni di battaglie contro la casta, contro la corruzione, contro le élites, e dunque la convinzione che la giustizia sociale si ristabilisca per via di manette e calci nel sedere alla vecchia politica. A una maggiore giustizia non concorrono, evidentemente, una maggiore crescita economica, più alti livelli occupazionali, un nuovo disegno di politica industriale, la definizione di nuovi obiettivi per il sistema delle imprese. Non c’è nulla del genere, nel contratto. Non c’è una visione del futuro dell’Italia, un punto di vista sul nuovo mondo trasformato dalla rivoluzione tecnologica in atto, un’idea di come affrontare lo scenario globale. C’è però un’ossessione: Bruxelles, la Germania, l’euro, e il mito pericolosamente regressivo di una sovranità economica che aspetterebbe solo di essere riconquistata, raccolta da terra e scagliata finalmente contro i cattivi mostri della burocrazia e della finanza, europea e internazionale. La contrapposizione di una cattiva Europa della moneta, da scardinare, e di una buona Europa dello spirito e della cultura, da recuperare, è già stata esiziale in passato, e rischia di esserlo anche in futuro.
Si possono dunque esprimere perplessità più o meno grandi sui «discorsi pragmatici» contenuti nel contratto: la mancanza di coperture, la vaghezza di certi impegni, l’assenza di certi temi (primo fra tutti il Sud). Ma è sul discorso etico-politico che bisognerebbe che nel Paese di aprisse una vera discussione pubblica. C’è una sola morale della favola, in quel testo, ed è una morale reattiva, che fa da comune denominatore a populismi (contro le élites corrotte) e a nazionalismi (contro gli stranieri). Il che non vuol dire che non sia maggioranza nel Paese: le indagini del Censis sull’Italia del rancore di qualche mese fa attestano anzi il contrario. Ma non vuol dire nemmeno che non si debba provare a ribaltarla. Per farlo, però, c’è bisogno di un investimento di senso nuovo, di offrire un’immagine alternativa, di pari e anzi più grande ambizione. L’Italia giallo-verde è un’Italia tramortita dagli anni di crisi, che ora teme di giocarsi la propria partita nel vasto mondo, e che reagisce al declino incipiente tirando su il ponte-levatoio, diffidando della modernità, espellendo gli estranei. È un’Italia a cui sta bene fare come l’Ungheria di Orbán, o come la Polonia di Kaczyński. Paesi a guida nazionalista e populista incistati nel cuore dell’Europa, che, diciamolo en passant, non hanno l’euro e sono in netta crescita economica. La sfida, dunque, è reale. Solo perciò se si riesce a proporre l’idea di un’Italia più grande, più aperta, più cosmopolita, un’Italia che contrasta l’impoverimento provando a liberare nuove energie, a nutrire nuove aspirazioni, a investire sulle nuove generazioni, solo così si potrà riaprire una contesa vera sul domani che ci attende. Un discorso etico-politico nuovo, in cui l’autocomprensione della comunità nazionale sia daccapo rimessa in gioco, e aperta sul futuro.
(Il Mattino, 24 maggio 2018)