Archivi del giorno: giugno 22, 2018

Ma i veri problemi del Paese sono altri

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Con la presa di posizione del ministro dell’Interno Salvini sul censimento dei rom, e il diluvio di dichiarazioni che ne è seguito, lo spostamento di attenzione dai problemi reali all’ordine dei problemi puramente immaginari si era già completato. Ora si è aggiunto Saviano e la scorta. Tutto si può dire però, meno che convenga al Paese andar dietro a quest’ordine di questioni per dividersi fra quelli che danno del fascista al leader leghista, e quelli per i quali bisogna strappare tutti i veli della pubblica ipocrisia. Dubito che in questo modo siamo messi dinanzi a dilemmi in qualche senso decisivi, urgenti e indifferibili. D’altronde, né in campagna elettorale, né nelle faticose settimane che hanno preceduto la nascita dell’esecutivo Conte, né nel contratto di governo fra Lega e Cinque Stelle, né infine nelle dichiarazioni rese alle Camere dal Presidente del Consiglio, si faceva menzione dei rom, dei campi nomadi e del censimento. Tantomeno di Saviano. A ragion veduta, direi, perché non vi era motivo di infilare simili questioni dentro documenti che dovevano servire a descrivere la situazione del Paese e a formulare risposte nuove e diverse ai nodi del suo mancato sviluppo, dei suoi molteplici ritardi, delle sue forti diseguaglianze. Tutte cose che coi rom non c’entrano per nulla.

Evidentemente Karl Marx aveva torto: non è vero, infatti, che l’umanità si pone soltanto quei problemi che può risolvere. C’è un mucchio di problemi che l’umanità si pone (o che le vengono imposti) non perché siano risolubili, e vengano poi effettivamente risolti, ma solo per distrarre da altri problemi, la cui risoluzione non è a portata di mano. Salvini ha detto che i rom in possesso della cittadinanza italiana “purtroppo ce li dobbiamo tenere”. Lasciamo perdere quel “purtroppo”, parecchio infelice, ma non è che gli altri, invece, li possiamo mandar via. Anche gli altri sono cittadini comunitari: non c’è alcuna base giuridica – aggiungerei: per fortuna –, per una politica di espulsioni di massa. E d’altra parte, siamo onesti: è molto dubbio che Salvini abbia davvero in mente qualcosa del genere. Probabilmente, pensa solo che sia bene che se ne parli.

E infatti se ne parla: si discute di indici di criminalità fra i rom, oppure di condizioni di vita nei campi, o anche dei Casamonica che spadroneggiano a Ostia. Nessuna di queste questioni ha però minimamente a che vedere con i problemi reali degli italiani: con le tasse, la sanità o il lavoro. Se il governo adotterà o meno un nuovo regime fiscale basato sulla flat tax, infatti, oppure: se gli riuscirà di dare il reddito di cittadinanza; o ancora: se il ministro Traia si muoverà in continuità o discontinuità con le politiche economiche dei precedenti governi, son cose che non dipendono né da presso né da lungi dal numero dei rom, italiani o di altre nazionalità. E lo stesso si dovrà dire quando sul tavolo sarà gettata la questione di un inasprimento della legittima difesa – accadrà: statene certi – o chissà cos’altro. Neppure la questione migranti, che pure rischia di mettere a soqquadro l’Unione Europea, avrebbe in sé un rapporto diretto con i nodi reali del Paese: nessuno può pensare seriamente che se blocchiamo gli sbarchi diminuisce la disoccupazione, cala il debito o cresce la produttività del sistema industriale.

Con ciò non voglio certo dire che solo i temi dell’economia devono preoccupare governo e maggioranza. Stiamo entrando in un’epoca in cui, anzi, par vero il contrario, che cioè le questioni strutturali contano sì, ma fino a un certo punto, perché tornano a pesare anche questioni ideologiche, sovrastrutturali, legate a identità, nazionalità, cultura, religione. La stessa polemica sulla scorta di Saviano: è vuota per un verso, ma per l’altro sposta linee e simboli del dibattito pubblico, cosa che di sicuro incide sugli orientamenti di voto.

Però con i rom, francamente, siamo un po’ oltre, siamo alla ricerca del capro espiatorio. Sarà come ha detto Giulia Grillo, dei 5S, che si tratta solo di una vivace modalità di espressione e non di un’idea sostanziale. Se però si andasse finalmente sulle idee sostanziali contenute nel contratto di governo, e fosse possibile, sia per la maggioranza che per l’opposizione, misurare su quelle la rotta del nuovo esecutivo, di sicuro sarebbe meglio: non dico per i rom, ma per il Paese.

(Il Mattino, 22 giugno 2018)

I Cinquestelle nell’angolo

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E uno, e due, e tre. Uno: le elezioni amministrative. Due: la nave Aquarius. Tre: l’inchiesta sul nuovo stadio della Roma. Tre pugni che rischiano di mandare al tappeto i Cinque Stelle. Il primo colpo lo sferrano gli elettori, spingendo il Movimento fuori dai ballottaggi nelle città in cui si è andati al voto domenica scorsa. Va bene che i grillini vanno più forti alle politiche; va bene che, confrontato con la precedente tornata amministrativa, l’esito è persino positivo, ma l’arretramento rispetto all’exploit del 4 marzo è troppo pronunciato per poterne sottovalutare il significato. Con la nascita del governo, in luna di miele sembra essere andato il solo Salvini, che viene premiato nelle urne, e dimostra pure di avere sempre a disposizione la carta dell’alleanza col centrodestra, il giorno che l’esecutivo giallo-verde dovesse colare a picco.

Il secondo colpo arriva con la chiusura dei porti italiani e lo scatto di orgoglio nazionale di fronte alle reazioni francesi. Salvini si prende tutta la scena. Toninelli, il ministro dei Trasporti da cui pure dipendono i porti, va a rimorchio; Conte, non pervenuto. E mentre la Lega non ha bisogno di temperare le sue prese di posizione con distinguo su normative internazionali, slanci umanitari ed altre tenerezze, Di Maio e i suoi procedono con molto maggiore imbarazzo, frenati da un pezzo del Movimento che vive male la svolta sovranista del governo. Nessuno, neppure il Carroccio, ha ovviamente una soluzione semplice tra le mani, ma qualcuno – Salvini, per l’appunto – ha in mano le chiavi della narrazione, le parole per intestarsi il tema e un piglio determinato che altri non hanno. Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare. Salvini è, in questo momento, il duro, e a giocare in effetti è quasi soltanto lui.

Come se non bastasse, e tre! A Roma arrivano gli arresti, e in carcere finisce quel Lanzalone, messo a capo della municipalizzata Acea, che all’ombra del Campidoglio risolve i problemi per conto della giunta Raggi. Sul piano politico, per l’amministrazione capitolina è un disastro. Dico sul piano politico, perché le inchieste giudiziarie imboccano spesso strade destinate a rivelarsi in seguito sentieri interrotti. Ma anche se il sindaco di Roma non c’entra nulla nelle condotte del suo assessore de facto allo stadio, non è certo una prova di efficienza, di conoscenza delle cose e di buon governo, quella che l’inchiesta restituisce. Se poi ai Cinque Stelle gli sfili – o almeno gli macchi – la bandiera dell’onestà, gli comprometti il linguaggio-macchina su cui gira il software del Movimento.

In queste condizioni, c’è da meravigliarsi che sia la Lega a indicare la via? Che le posizioni su fisco, immigrazione, Unione Europea siano dettate da Salvini, e che i ministri 5 stelle non abbiano quasi voce in capitolo (e, quando ce l’hanno, è sovrastata dal leader leghista)? Di Maio si è riservato i temi scottanti del lavoro e delle crisi industriali. Ha promesso il reddito di cittadinanza, che però va per ora rinviato, per ragioni tecniche (la riforma dei centri per l’impiego) e finanziarie (la gran quantità di risorse necessarie, se almeno lo si vuole dare all’intera platea dei possibili beneficiari). Prima che i Cinque Stelle possano sventolare qualche risultato tangibile, insomma, ne passerà di tempo. E intanto, sull’altro cavallo di battaglia del Movimento, la democrazia diretta: trovatelo un solo elettore disposto ad appassionarsi per cose come i referendum o il vincolo di mandato.

I media, naturalmente, seguono. Non è che Salvini è bravo, è che in questa fase (e finché non tornano le ragioni dell’economia) sono i temi leghisti a fare egemonia, come si sarebbe detto una volta. I dati forniti da Mediamonitor lo confermano: sui mezzi di informazione, Salvini è molto più presente sia del premier Conte che di Di Maio.

A questo punto, il leader del Carroccio ha un solo, vero problema: quello di non compromettere troppo presto l’equilibrio di governo. Ma finché i grillini porteranno pazienza, e Di Maio si contenterà di abbozzare per tenere unito il Movimento, la navigazione procederà così, almeno fino alla legge di Stabilità, e forse anche oltre: con Salvini a tracciare la rotta, e i grillini sottocoperta a remare.

(Il Mattino 15 giugno 2018)

La nuova sfida della sinistra democratica

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Si fa opposizione con una proposta alternativa e, per il momento, la proposta non c’è. Così la pensa Prodi, e, a me pare, ha ad un tempo torto e ragione. Vediamo prima dov’è il torto.

Il governo del cambiamento, che nella retorica della nuova maggioranza ha inaugurato la terza Repubblica, si propone esso come alternativo alle politiche condotte dai governi a guida democratica della passata legislatura. Il vero denominatore comune del contratto è questo: per quanto distanti fossero i programmi originari di Lega e Cinque Stelle, avevano un elemento che li univa, erano costruiti in opposizione, spesso frontale, alle politiche promosse dal Pd. Così, dal lavoro alla scuola ai migranti all’Europa fino alla politica estera, questa legislatura si apre con la promessa di una discontinuità profonda, non solo rispetto al recente passato, clamorosamente premiata dagli elettori.

Ora, l’esito delle elezioni non può non costringere il partito democratico a cercare nuove strade, ma sul piano della elaborazione culturale, del profilo ideologico (se torna ad essere lecito l’impiego di questa parola), è abbastanza contestabile che possa, voglia o debba abbandonare le linee generali che ha seguito in questi anni. L’idea di un partito riformista, europeista, progressista sul terreno dei diritti civili e integrazionista sul tema dell’immigrazione va mantenuta ferma, io credo, non foss’altro perché il campo populista e sovranista è già abbondantemente presidiato da leghisti e pentastellati.

Quest’idea, peraltro, non è solo una cornice vuota. In ogni caso, è l’intelaiatura su cui in Italia è stato tessuto l’ordito dell’Ulivo prima (1996-2001), dell’Unione in seguito (2006-08), del Pd infine (2013-18). Ha ovviamente un senso distinguere le diverse stagioni del centrosinistra – che non hanno avuto la stessa fortuna, né gli stessi interpreti – ma in qualunque libro di storia si racconteranno in futuro questi anni da una distanza sufficientemente grande da poter cogliere i lineamenti generali di un’epoca, prevarrà il filo che ha unito queste esperienze, l’idea che tutte le sottende.

Non solo quest’idea non è una cornice vuota, ma non è nemmeno un’idea banale. Lo è tanto poco, che da ogni parte si fanno largo tentativi di abbandonarla. Che la democrazia rappresentativa sia ormai un significante vuoto, che il compromesso fra capitalismo, democrazia e diritti sociali non sia più proponibile, che non abbia spazi sufficienti ed agibilità politica se non dentro contesti nazionali, che la società aperta escluda o emargini strati crescenti della società; che le distinzioni liberali in tema di diritti e garanzie non possano più reggere nel tempo della disintermediazione: sono, queste, visioni che non appartengono solo alla destra sovranista e nazionalista, ma sono in grado di riorientare tutta la sfera dell’opinione pubblica e delle forze politiche, anche a sinistra. C’è, dunque, già ora materia sufficiente per essere e proporsi come alternativa democratica.

Però Prodi ha ragione, e come se ne ha, se il discorso si fa più ravvicinato. Se ci si domanda cioè come fermare la rotta e da dove ripartire subito. Il Pd non può certo pensare di costruire la propria alternativa rimarcando le gaffe dei nuovi arrivati, o ritorcendo contro di loro la retorica demagogica di cui si è sentito vittima negli anni passati (“ora siete voi l’establishment”: ma magari! Ad avercelo, un establishment!). Non può nemmeno rimandare a data da destinarsi la questione della leadership e della riorganizzazione del partito, e non può, soprattutto, rinunciare ad affrontare lo scoglio contro il quale si è scontrato il progetto di modernizzazione del Paese. Che se anche doveva passare attraverso la riforma delle istituzioni o il rilancio dell’economia, non ha avuto il respiro sufficiente per dimostrare che l’una e l’altra strategia riducono le disuguaglianze, promuovono un nuovo dinamismo sociale, compongono le fratture che ancora dividono il Paese. Per la sinistra democratica che verrà, la sfida – non v’è dubbio – è questa.

(iIl Mattino, 10 giugno 2018)