Si fa opposizione con una proposta alternativa e, per il momento, la proposta non c’è. Così la pensa Prodi, e, a me pare, ha ad un tempo torto e ragione. Vediamo prima dov’è il torto.
Il governo del cambiamento, che nella retorica della nuova maggioranza ha inaugurato la terza Repubblica, si propone esso come alternativo alle politiche condotte dai governi a guida democratica della passata legislatura. Il vero denominatore comune del contratto è questo: per quanto distanti fossero i programmi originari di Lega e Cinque Stelle, avevano un elemento che li univa, erano costruiti in opposizione, spesso frontale, alle politiche promosse dal Pd. Così, dal lavoro alla scuola ai migranti all’Europa fino alla politica estera, questa legislatura si apre con la promessa di una discontinuità profonda, non solo rispetto al recente passato, clamorosamente premiata dagli elettori.
Ora, l’esito delle elezioni non può non costringere il partito democratico a cercare nuove strade, ma sul piano della elaborazione culturale, del profilo ideologico (se torna ad essere lecito l’impiego di questa parola), è abbastanza contestabile che possa, voglia o debba abbandonare le linee generali che ha seguito in questi anni. L’idea di un partito riformista, europeista, progressista sul terreno dei diritti civili e integrazionista sul tema dell’immigrazione va mantenuta ferma, io credo, non foss’altro perché il campo populista e sovranista è già abbondantemente presidiato da leghisti e pentastellati.
Quest’idea, peraltro, non è solo una cornice vuota. In ogni caso, è l’intelaiatura su cui in Italia è stato tessuto l’ordito dell’Ulivo prima (1996-2001), dell’Unione in seguito (2006-08), del Pd infine (2013-18). Ha ovviamente un senso distinguere le diverse stagioni del centrosinistra – che non hanno avuto la stessa fortuna, né gli stessi interpreti – ma in qualunque libro di storia si racconteranno in futuro questi anni da una distanza sufficientemente grande da poter cogliere i lineamenti generali di un’epoca, prevarrà il filo che ha unito queste esperienze, l’idea che tutte le sottende.
Non solo quest’idea non è una cornice vuota, ma non è nemmeno un’idea banale. Lo è tanto poco, che da ogni parte si fanno largo tentativi di abbandonarla. Che la democrazia rappresentativa sia ormai un significante vuoto, che il compromesso fra capitalismo, democrazia e diritti sociali non sia più proponibile, che non abbia spazi sufficienti ed agibilità politica se non dentro contesti nazionali, che la società aperta escluda o emargini strati crescenti della società; che le distinzioni liberali in tema di diritti e garanzie non possano più reggere nel tempo della disintermediazione: sono, queste, visioni che non appartengono solo alla destra sovranista e nazionalista, ma sono in grado di riorientare tutta la sfera dell’opinione pubblica e delle forze politiche, anche a sinistra. C’è, dunque, già ora materia sufficiente per essere e proporsi come alternativa democratica.
Però Prodi ha ragione, e come se ne ha, se il discorso si fa più ravvicinato. Se ci si domanda cioè come fermare la rotta e da dove ripartire subito. Il Pd non può certo pensare di costruire la propria alternativa rimarcando le gaffe dei nuovi arrivati, o ritorcendo contro di loro la retorica demagogica di cui si è sentito vittima negli anni passati (“ora siete voi l’establishment”: ma magari! Ad avercelo, un establishment!). Non può nemmeno rimandare a data da destinarsi la questione della leadership e della riorganizzazione del partito, e non può, soprattutto, rinunciare ad affrontare lo scoglio contro il quale si è scontrato il progetto di modernizzazione del Paese. Che se anche doveva passare attraverso la riforma delle istituzioni o il rilancio dell’economia, non ha avuto il respiro sufficiente per dimostrare che l’una e l’altra strategia riducono le disuguaglianze, promuovono un nuovo dinamismo sociale, compongono le fratture che ancora dividono il Paese. Per la sinistra democratica che verrà, la sfida – non v’è dubbio – è questa.
(iIl Mattino, 10 giugno 2018)