Se la democrazia deve fare i conti con il consenso cercato

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Si possono mettere in fila, uno dietro l’altro, gli elementi di cui si compone un ordinamento statale liberal-democratico? Certamente sì, e del resto non sono pochi gli autori di una biblioteca ideale che potrebbero essere chiamati a redigere un simile elenco. Un posto d’onore meriterebbero sicuramente l’austriaco Karl Popper e l’americano Robert Dahl, ma anche i nostri Bobbio e Sartori. Non sorprende, dunque, che siano proprio questi i fari principali che illuminano le pagine di «Democrazia avvelenata», il libro scritto da Dario Antiseri, Enzo Di Nuoscio e Flavio Felice (Rubbettino, pp. 189, € 13). Il cui merito principale, però, non mi sembra che stia nella ricapitolazione di una dottrina che, con accenti e sfumature diverse, costituisce pur sempre la più consueta cornice di legittimazione delle democrazie occidentali, quanto piuttosto nello spazio che viene dedicato ai temi del sapere, dell’istruzione, dell’educazione, del contributo delle scienze umane e sociali alla formazione dell’homo democraticus. Perché la democrazia attecchisca nei cuori e nelle menti degli uomini c’è bisogno infatti che sia nutrito e coltivato l’esercizio del dubbio e un’attitudine genuinamente critica, che sia solidamente stabilita la pratica del confronto e dell’argomentazione razionale, che sia diffusa la disponibilità a rifuggire dalle verità definitive (dagli schemi ideologici), che sia radicata la consapevolezza della pluralità delle prospettive etiche.

C’è bisogno, in una parola, di filosofia. «La filosofia insegna a convivere con l’incertezza senza rinunciare alla verità», è la tesi che Di Nuoscio presenta nel suo saggio. Naturalmente, la filosofia di cui parla Di Nuoscio non è quella dei sistemi metafisici totalizzanti o delle verità concluse, ma quella che strappa l’uomo ai pregiudizi del senso comune e allena alla ricerca inesauribile della verità. È la filosofia del razionalismo critico, che Dario Antiseri ha negli anni difeso e promosso nel nostro Paese, ma che si incontra abbastanza sorprendentemente con l’ermeneutica di Gadamer o, nel caso di Di Nuoscio, con quella di Luigi Pareyson. E che riceve inoltre dalla concezione cristiana della libertà e pari dignità di tutti gli uomini un apporto decisivo.

Fin qui, però, siamo in mezzo ai libri, alle scuole, alle tradizioni di pensiero. C’è pure, in queste pagine, una dose non omeopatica di neoliberalismo: di Hayek, di von Mises, di Ropke (e, nel saggio di Felice, dell’istituzionalismo di Acemoglu e Robinson). Ma il libro è scritto con una preoccupazione principale, dichiarata addirittura sulla copertina del libro, e che rimanda a un’urgenza del nostro tempo. Le democrazie rappresentative, costruite fra Otto e Novecento, si trovano oggi, scrivono gli autori, «a fare i conti con un nuovo spettro: la “democrazia del pubblico”. Assistiamo tutti i giorni a un confronto politico sempre meno concentrato nell’analisi della realtà e sulla progettazione del futuro e sempre più orientato alla ricerca del consenso immediato, attraverso sofisticate strategie comunicative». Quando si arriva alle trasformazioni della sfera pubblica, non è più chiaro se bastino iniezioni di cultura e riferimenti ideali. Naturalmente, circolano nel libro i nomi dei più illustri sostenitori contemporanei dell’importanza di una solida formazione umanistica per la pratica democratica: Amartya Sen e Martha Nussbaum. Il pantheon democratico è pieno di dèi, e ben forniti (e qui ottimamente utilizzati) sono gli arsenali argomentativi posti a difesa della democrazia dalle «tendenze disgregatrici» dell’economia come anche da quelle della comunicazione.

Cosa però si deve pensare, se si arriva al punto di dover dedicare un paragrafo al seguente argomento: «il cittadino democratico deve saper comprendere il senso di un testo»? Si deve forse mettere in dubbio che i cittadini siano in grado di capire ciò che leggono? Non è un paradosso che nell’era dell’informazione, in cui il consumo culturale si è fatto ampio e diffuso come mai in passato, non è più scontato che gli individui posseggano capacità critica nell’intelligenza di un testo? Lo è, certamente, se i media prendono ad occuparsi – com’è accaduto nelle scorse settimane – persino delle stravaganze dei «terrapiattisti», per i quali la Terra non è un geoide più o meno rotondo, bensì una specie di disco piatto. E però: così stanno le cose, per gli autori del libro. Che si offre dunque come un antidoto necessario. Che sia anche sufficiente per liberare lo spazio pubblico dai suoi veleni: anche di questo, come di ogni cosa, è salutare esercizio dubitare.

(Il Mattino, 30 dicembre 2018)

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