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Il Sud fuori dal Giro metafora del Paese

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Cristo si è fermato ad Eboli, e il Giro a San Giovanni Rotondo. Toccata e fuga: più a sud non si va. Siccome però il Giro d’Italia rimane una delle manifestazioni sportive più popolari del Paese, con i corridori più forti al mondo, siccome si va sulle strade, fra la gente, e si sta sul sellino per ore ed ore, con le moto in corsa e l’elicottero della Rai che dall’alto mostra i mille angoli della Penisola, e i sindaci e gli assessori sulla linea di partenza e all’arrivo, e tutta una carovana che si sposta con i corridori, quotidianamente, per tre settimane, uno si chiede che fine abbia fatto il Mezzogiorno. Perché non c’è un’arrampicata sull’Etna o sulla Sila, una tappa nervosa con arrivo per velocisti lungo la costa tirrenica, o una per passisti con qualche impegnativo saliscendi appenninico. Niente. Quest’anno si corre fra Bologna e Verona. Prima si scende dalla Toscana nel Lazio; poi si risale da san Giovanni Rotondo lungo la dorsale adriatica, e si conclude, com’è tradizione, sulle grandi montagne alpine. E stop.
Giro duro, per scalatori. Ma è dura da mandar giù pure questa fotografia di un’Italia che si contrae, si restringe, si accorcia. Un’Italia amputata di un terzo circa del territorio nazionale. Se non fosse per Padre Pio, infatti, l’Italia che la corsa rosa disegna starebbe ancora tutta di là dalla linea Gustav, oltre le rive del Garigliano. Giorgio Ruffolo diceva che l’Italia è un Paese troppo lungo, ed effettivamente: se non bastano 3600 chilometri per raggiungere le coste meridionali, vuol dire davvero che abbracciare tutta l’Italia in un unico giro è divenuta un’impresa improbabile.  Non però per i ciclisti, diciamoci la verità: loro sarebbero stati perfettamente in grado di percorrere qualunque tracciato. Ma per gli organizzatori, che nel disegnare questo Giro non hanno trovato nessuna buona ragione per attraversare tutto lo Stivale.
Perché il punto è proprio questo: per quale ragione le tappe del Giro si sarebbero dovuto correre anche fra Bari, Napoli e Palermo? Perché si tratta del Giro d’Italia, uno risponde, e perché di appassionati della corsa ce ne sono anche qui. Il che è vero, ma è vero pure che una tappa non è solo un evento sportivo, bensì anche un fatto organizzativo di prim’ordine. Ci sono costi da coprire e condizioni logistiche da assicurare. Ed evidentemente o non c’erano i soldi per coprire i primi, o non c’erano le struttura per soddisfare le seconde. Il percorso di questo Giro d’Italia 2019 costringe così ad una amara presa d’atto: il Mezzogiorno non c’è. E non c’è nella geografia sportiva perché non c’è in quella sociale ed economica. Lo sport produce simboli: a volte sono i campioni, altre volte sono le sfide. Questa volta il simbolo di un ritardo che invece di ridursi va approfondendosi è una cartina. Fitta di inchiostro al nord, completamente bianca al sud. Lo Svimez, negli anni scorsi, ha parlato di desertificazione: prima economica, poi demografica. Eccolo là, il deserto: un pezzo di Paese che rimane vuoto di segni, di storie, di imprese. Il siciliano Nibali, il sardo Aru, i due italiani più accreditati per le corse a tappe, non pedaleranno sulle strade del Sud: non in Sicilia, non in Sardegna, non nel Mezzogiorno continentale.
Ora però non è il caso di tirare un’altra volta fuori il giglio dei Borboni, e i biechi prefetti piemontesi e i ribelli (ma generosi, quanto generosi) briganti meridionali. La politica che dobbiamo giudicare è quella di questi anni, e la perdita di una qualunque sensibilità per la questione meridionale non è certo della direzione del Giro, ma della società italiana nel suo complesso. Ricucire il Paese: a chi dobbiamo chiederlo, chi deve farsene carico, la Gazzetta dello Sport di Milano? E a che serve ripetere la solita litania del sud dimenticato, se non si ha la forza di immaginare non già un percorso diverso del giro ciclistico, ma una strategia diversa di sviluppo economico e civile del Mezzogiorno? E a cosa lo dovremmo affidare, allora: alla Tap no ma al Giro sì? All’alta velocità sulla Napoli-Bari no, ma ai velocisti sulle strade provinciali sì? Sarebbe una ben grama consolazione. Anzi: sarebbe una presa in giro, è proprio il caso di dirlo.
(Il Mattino, 7 novembre 2018)

Archiviato Tiziano Renzi, non il fango

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Per la Procura di Roma, Tiziano Renzi può uscire dall’inchiesta Consip. E ora la richiesta di archiviazione obbliga a rivedere il film di un’indagine clamorosa. Tiziano, padre dell’allora premier Matteo Renzi, viene tirato in ballo per traffico di influenze illecite nel corso di un’indagine che, nata a Napoli intorno ad appalti nella sanità, arriva a Roma e investe la centrale acquisti della pubblica amministrazione, Consip. Un pezzo dell’inchiesta, che è ancora in piedi, riguarda l’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, e le persone che secondo l’accusa lo avrebbero informato delle microspie nascoste nei suoi uffici. Luca Lotti, allora potente ministro dello Sport, e i generali dei carabinieri Del Sette e Saltalamacchia rischiano tuttora di finire sotto processo (per reati che vanno dal favoreggiamento alla rivelazione di segreto d’ufficio). Ma Tiziano Renzi no, niente influenze illecite per lui: la Procura non chiede nemmeno il rinvio a giudizio.

Eppure, nei giorni in cui i quotidiani si occupavano della vicenda, sembrava che Renzi padre fosse al centro di una inconfessabile ragnatela di interessi. C’era quello che riferiva di una cena con Alfredo Romeo (l’imprenditore napoletano che cercava di aggiudicarsi il mega-appalto Consip: quella cena sembra ora che non ci sia stata); c’era il tipo losco, che losco non era affatto, che aveva segretamente incontrato Tiziano Renzi a Fiumicino (per lavoro, s’è saputo poi); c’era il «pizzino» di Romeo con una somma indicata a fianco di una «T.», e come non pensare, allora…: chi altri potrebbe essere? Eppure, di passaggi di danaro in questa inchiesta non s’è mai trovata la benché minima traccia. C’erano, soprattutto, le impareggiabili trascrizioni dell’ufficiale del Noe, Gian Paolo Scafarto, infarcite di errori, a quanto pare involontari, ma che curiosamente andavano tutti nella medesima direzione: addosso a Renzi. E c’era infine una storia di pedinamenti dei servizi segreti inventata di sana pianta.

Se ora il gip accoglierà la richiesta della Procura, l’incredibile castello di carte cederà di schianto. E si vedrà meglio quel che è successo: una valanga di articoli e un’attività investigativa condotta – a non dir altro – con qualche approssimazione, hanno finito col condizionare pesantemente l’opinione pubblica e il corso della politica italiana. Non è la prima volta che accade, e non sarà l’ultima. Nella storia repubblicana, abbiamo avuto Capi di Stato costretti a dimettersi, travolti da violentissime campagne di stampa, e Presidenti del Consiglio spinti alle dimissioni per l’orchestrazione anche mediatica di inchieste, che non hanno poi prodotto nulla nelle aule giudiziarie. Ma questo non è un buon motivo per fingere di non vedere.

Certo, rientra nel gioco democratico che un potere confligga con un altro. È, anzi, salutare che la magistratura possa procedere indisturbata nell’accertare le ipotesi accusatorie che viene formulando, soprattutto quando riguardano i santuari del potere: politico, economico, finanziario. Ed è fondamentale che la stampa, libera e indipendente, possa fare – come si diceva una volta – da cane da guardia, non solo con la critica ma anche con la denuncia dei verminai della corruzione.

Questo però vale su un piano di principio. Nella realtà, alcuni motivi ricorrenti si presentano in indagini che, più che riguardare la politica, sembrano cercare nell’uomo politico da dare in pasto all’indignazione popolare il punto archimedico su cui far leva per trovare una sponda nell’opinione pubblica e ricavarne un ritorno in termine di immagine, di visibilità, di potere. C’è tutta una fase dell’attività giudiziaria che sembra dedicata meno a quel che si può portare in tribunale e molto di più a quel che si può ottenere sulla stampa, ben prima di qualunque esito processuale. C’è, ancora, una presunzione di colpevolezza che sembra fare da rumore di fondo a qualunque giudizio sulla cosiddetta “casta” della politica, così mantenuta in uno stato di minorità permanente (e a preoccuparsene dovrebbero essere proprio i sovranisti che sono oggi alla guida del Paese). E c’è infine che, anche quando tutto avviene in perfetta buona fede, una certa concezione del magistrato inquirente, cavaliere della virtù che deve essere armato del maggior numero possibile di strumenti per fare giustizia, che schiaccia ogni idea liberale di giusto processo.

L’inchiesta Consip, con le intercettazioni a strascico e le compiacenti fughe di notizie, i nuclei investigativi singolarmente fidelizzati e le ipotesi di reato configurate in funzione di pressioni investigative (invece del contrario), ricalca insomma un copione che finisce con lo stravolgere i cardini del nostro ordinamento. Che le accuse contro Tiziano Renzi finiscano in nulla è un fatto politico rilevante, vista la canea sollevata. Ma ancora più rilevante sarebbe riuscire a modificare quel pericolosissimo copione. Sarebbe di gran lunga preferibile a quel che invece continua ad accadere. Anche questa volta: si concludono le indagini dovendo prendere atto che non c’è nulla di penalmente rilevante, ma inserendo qua e là qualche parola da dare in pasto a chi vorrà scrivere, pure in presenza di una richiesta di archiviazione, che insomma, quel Tiziano Renzi uno stinco di santo non era. E il gioco è fatto. E la canea riprende. E un fumo di colpevolezza continua ad appestare l’aria, e l’idea non è che uno è innocente, ma che l’ha fatta franca. Non è un’idea sana, e non è una democrazia sana, questa.

(Il Mattino, 3 novembre 2018)

I Cinquestelle e le promesse in frantumi

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E fai il deputato, il viceministro. O l’uomo di Stato, o il suo portavoce: Lodo Guenzi, il frontman del “Lo Stato Sociale” forse la metterebbe così. Dopodiché, però, arriverebbe immancabilmente la domanda, come nella canzone: perché lo fai? (E magari: perché non te ne vai in vacanza, come quel genio di Di Battista?). E la risposta non sarebbe facile, perché molte delle ragioni per cui i Cinque Stelle sono oggi al governo si stanno sgretolando, sotto il peso di una responsabilità politica che Di Maio e compagni esercitano con molta più fatica e molto maggiore impaccio di quanto non facciano i leghisti di Salvini.
Ultimo venne il metanodotto. La Tap, la Trans Anatolian Pipeline che in campagna elettorale i Cinque Stelle avevano promesso fieramente di bloccare, e che oggi invece dicono che si farà. Sano realismo politico, ma che è difficile da ingoiare quando hai cavalcato e anzi sobillato per mesi l’opposizione all’opera. Chi di comitato ferisce, di comitato perisce. Ora sono i pugliesi, inferociti e diffidenti, che chiedono alla ministra Lezzi di mostrare queste famose penali che renderebbero impraticabile disinvestire. (Che poi non si capisce perché la preoccupazione di vedere come stessero davvero le cose una forza politica che ambisce a governare il Paese non dovesse nutrirla già prima del voto, invece di scoprirla dopo, per ritrovarsi con le mani legate. Beata ingenuità).
Ma la Tap è solo l’ultimo anello di una catena. L’altro giorno sono stati i romani, a migliaia, a protestare in piazza contro il degrado della città amministrata dalla sindaca Raggi. E prima ancora è stata Genova, che ha sempre meno fiducia che il ponte verrà davvero ricostruito in fretta. E c’è Ischia, e una sanatoria edilizia che scontenta i duri e puri del Movimento. E c’è infine Torino, e le annose tribolazioni sulla Tav.
In Transatlantico le cose non vanno meglio. Il controllo dei gruppi parlamentari è molto rigido, eppure si cominciano a sentire non solo mugugni a mezza bocca, ma parole apertamente dissonanti. Non è soltanto il presidente della Camera Fico che non perde occasione di disegnarsi una posizione autonoma e di marcare politicamente le distanze dalla Lega; sono anche i cittadini deputati a chiedersi ad alta voce perché debbano votare “schifezze” come il decreto sicurezza o il condono. Che ne è dei principi ispiratori del Movimento – si chiedono – se su immigrazione, politica fiscale, pensioni, infrastrutture, rapporti con l’Unione europea, andiamo a ruota della Lega? Salvini porta a casa la revisione della Fornero, la pace fiscale, la legittima difesa, ora anche le grandi opere. Noi inseguiamo il Sacro Graal del reddito di cittadinanza, che pure rischia di annaspare tra mille complicazioni burocratiche, ma su tutto il resto niente. Le tematiche ambientaliste: che fine hanno fatto? E la democrazia diretta: a quando è rimandato il big bang della democrazia rappresentativa? Quanto infine alla lotta alla Casta, per quanto ancora quelli del Vaffa Day, che oggi siedono in Parlamento e nel governo, ci potranno marciare sopra, fingendo di essere opposizione contro il sistema, mentre in realtà governano e stanno pure tutti i santi giorni sugli schermi televisivi? In Rai, dove prima non si metteva piede, oggi si nominano i vertici (con inesorabile logica spartitoria): si comincia apocalittici; si finisce, ancora una volta, integrati.
Luigi Di Maio ha insomma parecchie gatte da pelare (e c’è sempre un Di Battista in vacanza). Non è semplice, se si tien conto che già nella passata legislatura le fuoriuscite e le espulsioni non furono poche. Non è certo nella cultura politica del Movimento articolarsi dialetticamente, e dare spazio a una minoranza interna. Finirebbero infatti col somigliare agli altri partiti, e perderebbero quel tratto tipico delle formazioni populiste che consiste nell’usare sistematicamente il singolare collettivo (il Popolo, il Movimento, il Contratto) e pensarsi come un soggetto unico, omogeneo e compatto.
L’unico rimedio è una forte verticalizzazione del rapporto politico: il Capo. Ma Di Maio non è Salvini: non ha il suo Movimento in pugno come ce l’ha Salvini. C’è sempre un Garante che risponde al nome di Beppe Grillo, e un Casaleggio che tiene le chiavi di tutta la baracca (e un Di Battista in vacanza: ancora per poco, però). Di Maio ha pure, sul capo, la spada di Damocle del numero di mandati, e sa che forzare quella regola significa cambiare tutto. A meno che non si sia costretto a farlo in condizioni di emergenza, nel precipitare delle condizioni politiche generali, anche a costo di spaccare il Movimento.
È presto per fare ipotesi. Bisognerà almeno avvicinarsi alle elezioni europee. Anche se di qui ad allora, il motivetto de “Lo Stato Sociale” si ascolterà ancora, tra le file pentastellate: perché fai il vicepremier, e pure il ministro, il capo politico e il sodale di Grillo?
(Il Mattino, 28 ottobre 2018)

I sicari del progresso

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Era il 2 settembre, anno del Signore 2018: Al Bano. A Monza. Sulla griglia di partenza, in occasione del Gran Premio d’Italia di Formula 1. Vettel e Hamilton, cappellini rossi e bandiere del Cavallino sugli spalti, piloti e monoposto sull’asfalto, ingegneri e pneumatici, auricolari e commissari, frecce tricolori in cielo e, dagli altoparlanti, l’Inno d’Italia cantato da lui, il nuovo Claudio Villa: Albano Carrisi, classe 1943. L’autore di successi indimenticabili come “Felicità”, o “Nostalgia canaglia” – quella che “ti prende…

(continua su Il Foglio del 15 ottobre 2018)

Sul fine vita la parola al Parlamento

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La Consulta decide di non decidere, ma non è una mossa pilatesca. È piuttosto una sollecitazione rivolta alle forze politiche e al Parlamento perché colmino un vuoto legislativo. Il processo Cappato, che la Corte di Assise di Milano ha sospeso investendo la Corte costituzionale, rientra solo a fatica nella fattispecie definita dall’art. 580 del codice penale, che riguarda l’istigazione o l’aiuto al suicidio. “Chiunque determina altri al suicidio – recita l’articolo – o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”. Ora, l’esponente radicale Marco Cappato ha effettivamente accompagnato lo scorso anno Fabiano Antoniani, dj Fabo, in Svizzera, assistendolo nelle sue ultime ore (dopodiché si è autodenunciato ai carabinieri), ma questo non è bastato ieri perché la Corte di Assise di Milano lo condannasse, e non è bastato oggi perché la Corte Costituzionale sciogliesse ogni dubbio circa l’efficacia della tutela giuridica garantita dall’attuale assetto normativo. Questo significa in sostanza – così interpretiamo il tempo che la Corte concede alla politica, perché intervenga con una legge – che la Corte formula un forte auspicio: comportamenti come quelli tenuti da Cappato, di assistenza materiale e psicologica al suicidio, in determinate circostanze sarebbe bene che non fossero punibili.

Decisive sono ovviamente proprio le circostanze, cioè non solo la volontà espressa da dj Fabo, ma anche le sue condizioni di estrema sofferenza fisica e morale. Anche la legge svizzera, che di fatto ha liberalizzato l’aiuto al suicidio, impone in effetti alcune condizioni stringenti. In particolare: che la malattia renda probabile una morte ravvicinata, e che siano stati valutate o compiute azioni di supporto al paziente.

Il punto è però se anche nel nostro Paese vi sia finalmente spazio per l’introduzione di leggi eutanasiche. La Corte sembra ritenere di sì, e soprattutto sembra ritenere che non possono essere ancora una volta i tribunali a creare diritto, togliendo le castagne dal fuoco alla politica. Così in realtà è accaduto in passato, con i casi di Eluana Englaro e Piergiorgio Welby: solo dopo molti anni, e molto clamore, il Parlamento è riuscito a fare una legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento. Così è possibile che accada anche questa volta, in tema di eutanasia e suicidio assistito. Anche perché, diciamoci la verità, l’attuale Parlamento non sembra particolarmente orientato ad affrontare discussioni in tema di diritti fondamentali e di nuove garanzie di libertà.

È bene tuttavia aver chiaro qual è il dilemma sul quale siamo invitati a ragionare. Possiamo formularlo nel modo seguente: è giusto privilegiare i diritti soggettivi, la libertà di scelta dei singoli individui, anche quando questo privilegio può mettere taluni soggetti più fragili ed esposti in balìa di altre forze, di altri interessi, oppure è bene che la società si assuma la responsabilità di offrire una protezione maggiore in certe condizioni di estrema vulnerabilità, a prezzo però di comprimere la libertà individuale?

Il dilemma non concerne in verità solo il tema del fine vita. Non è quella l’unica situazione in cui domandarsi se sia giusto che ciascuno decida per sé, se non vi siano altri obblighi: dell’individuo nei confronti della società, ma anche della società nei confronti dell’individuo. Certo, l’idea che l’individuo debba in determinate circostanze essere difeso da se stesso inclina spiacevolmente verso il paternalismo, se non proprio verso modelli giuridici e culturali di carattere autoritario. Chi mai può decidere del resto, al posto mio, che cosa io posso fare della mia vita, e se la mia vita è ancora vita, è ancora degna di essere vissuta? Una legge che metta il fine vita nelle mani di chi quella vita è costretto non più a vivere ma a patire è, ormai, indispensabile, ed è probabile che nella società italiana, più ancora che nella classe politica, questa consapevolezza sia ormai maturata.

Proprio però per rispettare la fondamentale autonomia dell’individuo, occorre che la legge dia il profilo più stringente al modo in cui mettere al riparo da ogni sorta di strumentalizzazione, da ogni opera di suggestione o di persuasione, da ogni pressione di carattere economico o sociale la formazione della decisione individuale.

Viviamo un tempo di paradossi. Non v’è nella nostra epoca principio più fortemente avvertito del principio di auto-determinazione, ma al contempo non vi è nulla che si sia più infragilito di quell’”auto-“, di quell’esser se stessi da cui dipende tutta la nostra libertà. Facciamo quotidianamente esperienza di un dubbio radicale che investe l’identità del nostro io, disperso in mille circuiti, e però non possiamo non dare ad esso l’ultima parola su un numero sempre più esteso di questioni. Non è un equilibrio facile da trovare, ma è vero anche che non è una responsabilità a cui ci si possa sottrarre.

(Il Mattino, 25 ottobre 2018)

I Cinque Stelle senza meta in Europa

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La storiaccia del condono fiscale – la manina in Consiglio dei Ministri, o forse in qualche ufficio, o forse, più probabilmente, da nessuna parte – è destinata a lasciare strascichi. Di Maio non è più andato in Procura a sporgere denuncia, ma non per questo il clima si è rasserenato del tutto. Anche perché la materia del contendere è ancora viva, visto che l’iter della legge di bilancio non è affatto concluso. E siccome pendono ancora il giudizio di Bruxelles e quello dei mercati, non è detto che tutto filerà liscio. Di qui alle Europee ma soprattutto dopo. Tutti, dal premier Conte ai due vicepremier fino all’ultimo militante della Lega o dei Cinque Stelle, mostrano di credere che il governo durerà cinque anni: basta tener fede al contratto di governo, dicono. Però da un lato il risultato elettorale, che potrebbe cambiare i rapporti di forza tra i due partiti, dall’altro una crisi da spread potrebbero bruscamente interrompere l’esperienza in corso.
Che cosa succederà, a quel punto? È vero infatti che la storia non si fa con i “se”, come diceva Benedetto Croce, ma la politica è costretta a fare continuamente ipotesi, e a formulare piani e strategie in ragione di variabili che rimangono a lungo incerte. Tra queste variabili, ce n’è una di non poco peso, non ancora appariscente ma destinata a precipitare necessariamente in un valore determinato all’indomani del prossimo voto di maggio. Quando i Cinque Stelle dovranno decidere da che parte stare, in quale schieramento collocarsi all’interno del Parlamento europeo. Per quanto malmessi, infatti, sia il Pd che Forza Italia hanno una famiglia in Europa: quella, rispettivamente, dei socialisti europei e dei popolari. Persino le sparse truppe alla sinistra del Pd sapranno (se arriveranno in Parlamento) dove collocarsi: nel GUE, che riunisce partiti verdi e di sinistra estrema, fino ai comunisti. Quanto alla Lega, ovviamente una casa già ce l’ha, ed è quella del gruppo “Europa delle Nazioni e della Libertà” dove siedono a fianco del Front National di Marine Le Pen, dei tedeschi di Adf e di altre formazioni di estrema destra. Ma i pentastellati? Il gruppo EFDD (Europa della Libertà e della Democrazia diretta), del quale fanno oggi parte, si regge essenzialmente su due gambe, quella grillina, appunto, e quella euroscettica dei britannici dell’UKIP. Che però non ci saranno più, per via della Brexit. Nel nuovo Parlamento, dunque, Di Maio e soci dovranno nuovamente decidere il da farsi. Nuovamente, perché già in questa legislatura hanno tentennato, essendo tentati dalla soluzione liberaldemocratica, salvo poi acquartierarsi con quelli di Nigel Farage. Erano scelte quasi antipodali, e le disinvolte capriole compiute prima della decisione finale dimostravano con ogni evidenza quanto poco definito fosse il profilo europeo del Movimento. Un po’ come è avvenuto all’indomani del voto del 4 marzo, quando i 5 Stelle parevano disponibili ad allearsi – pardon: a scrivere un contratto – sia col Pd che con la Lega.
L’amletico dubbio è però destinato a riproporsi anche nel prossimo Parlamento. Soluzioni ad hoc è sempre possibile che se ne trovino, raccattando un po’ di parlamentari di paesi diversi per inventarsi un gruppo di sana pianta. Ma rimane un punto politico: se almeno si vuole cambiare davero l’Europa e non invece fare da comparse. O uscirne. Le dichiarazioni rese da Di Maio sull’ancoraggio europeista dei Cinque Stelle (“Finché sarò in questo governo sarà sempre garantito che l’Italia resterà in Europa e nell’euro”) sembrano indicare una strada nettamente distinta da quella nazionalista. Una strada che sarà persino necessario mantenere il più possibile aperta, se saranno i popolari a franare su posizioni più marcatamente sovraniste. Tenersi allora liberi per triangolare coi liberaldemocratici, coi macroniani e le altre forze progressiste potrà essere persino più facile. E aprirebbe anche i giochi in Italia, rendendo possibile, sotto l’ombrello europeo, cominciare lo scongelamento dei rapporti col Pd.
Ma c’è un ma. Anzi due. Uno è la disinvoltura con cui i grillini hanno saputo mutare posizione in questi mesi, su questioni anche sostanziali (fatte salve le bandiere simboliche del reddito di cittadinanza e della lotta alla casta), il che rende difficile fare previsioni. L’altro è nelle parole stesse del vicepremier. Che possono essere lette anche al contrario. Così: finché c’è questo governo, l’Italia resterà in Europa. Ma se questo governo cade (se i cattivi burocrati europei l’avranno fatto cadere), allora nessuna garanzia: l’Italia potrà rompere gli ormeggi, e rotolare via dall’Unione verso una “x”. Non è questa la lettura più immediata, non è un piano B e non è nelle intenzioni dichiarate di Luigi Di Maio. Ma rimane una possibilità. Che significherebbe, per i Cinque Stelle, finire definitivamente nell’orbita dei nazionalisti di Salvini e Le Pen.
(Il Mattino, 23 ottobre 2018)

Il bambino e l’acqua sporca della questione meridionale

Distinguiamo. Lo so, è più faticoso che prendere tutto in blocco o rifiutare tutto in blocco, ma è necessario se non si vuole buttar via il bambino con l’acqua sporca. Il bambino è il Mezzogiorno, e l’acqua sporca sono le retoriche che fioriscono sul Sud.
O che sfioriscono, perché il meridionalismo sembra ormai un genere letterario dal quale tenersi alla larga. Per non ripetere vecchi cliché. Per non essere iscritti d’ufficio al partito neoborbonico. Per non vedersi appioppata l’etichetta dei soliti piagnoni. Per non mescolarsi con l’acqua sporca, insomma.
Così il governo del cambiamento può nascere felice e facondo sulla base di un contratto di pagine cinquantotto, in cui trovano doverosa attenzione pure il bullismo e il gioco d’azzardo, ma che al Sud dedica otto righe otto. In cui, peraltro, si dice che di misure specifiche non ne occorrono affatto. Certo, il gap tra Nord e Sud esiste, ma tutte le scelte politiche previste nel contratto «sono orientate dalla convinzione verso uno sviluppo economico omogeneo per il Paese» (mi sia concessa un po’ di spocchia: l’italiano tra virgolette non è il mio). E qui finisce la questione meridionale.
Era già finita? Forse sì, se è vero che la seconda Repubblica ha scalzato quel principio di legittimazione della politica democratica che era consistito, lungo tutto il dopoguerra, nel riconoscere, tra i propri compiti storici, il superamento del dualismo tra il Nord e il Sud del Paese. È vero, la Lega del Senatùr, che nel ’94 andava al governo col Cavaliere a colpi di federalismo e secessione, non c’è più, al suo posto c’è Salvini che prende voti pure a Napoli e i Cinque Stelle che con il reddito di cittadinanza hanno fatto il pieno di consensi in tutte le regioni meridionali, andando sopra il 50%. Ma non per questo nell’agenda politica del Paese è tornato il Mezzogiorno.
È bene così? Uno mette in fila la Cassa per il Mezzogiorno e l’intervento straordinario, poi la legge 488 e il sistema di incentivi pubblici, infine i diversi capitoli dei fondi europei, dopodiché constata che, però, siamo più o meno sempre allo stesso punto: il Paese duale è ancora lì, il Nord in Europa e il Sud in Africa, come a volte si dice con una punta di malcelato razzismo.
Cos’è: una maledizione? Una colpa atavica che si trasmette di generazione in generazione? Oppure è la solita storia: c’è tanto di quel sole, e fa caldo, e ci vogliamo più bene ma siamo pigri e indolenti? È iI famoso familismo amorale?
Maurizio Crippa, su “Il Foglio”, non vede ormai, a queste latitudini, molto più che un meridionalismo straccione, «un amalgama di rancore, di isolazionismo, di revisionismo storico gonfiato a livello di fake news». Forse ha ragione. Perché è vero che in libreria i libri neoborbonici di Pino Aprile son quelli che vendono di più, ed è bello pensare che è tutta responsabilità dei Piemontesi (ma non sono passati 150 anni?). Così come è vero che ci sono quelli che, in chiave antagonista, anticapitalista e altermondialista, e in nome di tutti i Sud del mondo nella modernità europea non ci vogliono proprio entrare: ne vogliono un’altra, va’ a capire quale. Ed è vero infine che i voti ai Cinque Stelle si sono nutriti di rancore. Lo diceva pure il Censis, per la verità dell’Italia intera: risentimento e nostalgia alimentano la domanda politica, tanto più in tempi di crisi e di blocco della mobilità sociale.
Però distinguere si deve; si può. Di tanta retorica sudista ci si può sbarazzare senza per questo rinunciare a un’autentica voce meridionalista, a un pensiero e a una visione della società che non ne voglia sapere di localismi presuntamente virtuosi o di benecomunismi in salsa antistatuale. Una voce che è in grado di denunciare lo stato di minorità in cui versa il Mezzogiorno, ma che al tempo stesso non apprezza le scorciatoie populiste e ha molti motivi di temere che il reddito di cittadinanza finirà per conservare questo stato, non per cambiarlo. Perché non aumenta il numero di chilometri ferroviari, di asili nido o di laureati. Non modifica i livelli di spesa per investimenti e non porta un solo posto di lavoro in più.
Una voce simile non ha molta udienza, oggi. Ma questa è una ragione in più, non una di meno, per farla sentire. Per non lasciare il campo a quelli che propongono ancora e sempre ricette puramente elettoralistiche e clientelari, ma nemmeno a quelli che, per noia, stanchezza o sfiducia, pensano che di ricette, cioè di strategie pubbliche di crescita e di una nuova responsabilità delle classi dirigenti, non vi sia più alcun bisogno.
(Il Mattino, 11 ottobre 2018)

Che cosa manca all’europeismo per essere davvero efficace

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Esiste un popolo europeo? No. Si può fare uno stato senza un popolo? No. Dunque non si può fare dell’Unione europea uno stato. Fine dell’europeismo? Sì, se non c’è altra soluzione all’infuori di quella statale. No, se esiste un’altra soluzione: quella dell’Unione federale. Il decoupling al quale Sergio Fabbrini ha dedicato lo scorso anno un libro (“Sdoppiamento. Una prospettiva nuova per l’Europa) prospetta questa ipotesi: che si possa distinguere e separare l’Europa del mercato unico da un’Europa politica.

Continua su Il Foglio

I 5 stelle e i riformisti al bivio

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Numeri che fan tremar le vene e i polsi, l’Unione Europea che manifesta la sua contrarietà, i timori per le valutazioni delle agenzie di rating, le preoccupazioni per lo spread. Vedremo come andrà a finire. Intanto, però, la maggioranza tiene duro. E a tenere sono soprattutto i Cinque Stelle, decisamente più esposti nella difesa delle misure di spesa che costituiscono il piatto forte, se non esclusivo, di questa manovra. A cominciare dal reddito di cittadinanza, la più onerosa di tutte, ma anche quella che si è caricata di maggior valenza simbolica.
Nelle intenzioni iniziali, anzi nel nome stesso, doveva trattarsi di una misura di carattere universalistico. Sei cittadino? Hai diritto a un reddito di base. Economisti radicali, come il belga Philippe van Parijs, che propugnano da trent’anni e più l’idea di un reddito minimo universale e incondizionato, hanno sostenuto che, in generale, l’accertamento di condizioni alle quali erogare il reddito si traduce inevitabilmente in una trappola per chi a quelle condizioni finisce in questo modo col rimanere vincolato: pur di non rinunciare al reddito, si preferisce restare nelle condizioni di svantaggio alle quali si ha diritto al sussidio. Se poi, in particolare, la condizione è la disponibilità ad accettare offerte di lavoro pur che siano, tra gli effetti non può non esservi un indebolimento della posizione del lavoratore sul mercato del lavoro. Per far passare il provvedimento e farlo stare nei 10 miliardi stanziati (in campagna elettorale la stima più prudenziale ne indicava 17, di miliardi), i Cinque Stelle hanno dovuto tuttavia accettare ulteriori rimodulazioni: restringendo la platea, vincolandolo all’accertamento di determinate condizioni economiche di svantaggio, dandogli per lo più il peso di un’integrazione al reddito, limitandone l’utilizzo sia nell’accesso ai beni acquistabili che nel tempo in cui il percettore potrà eventualmente fruirne.
Ciononostante, Di Maio e i grillini difendono – come dicevo prima: fin nel nome – la filosofia originaria del reddito di cittadinanza. Che per loro significa: spread o non spread, Europa o non Europa, mercati o non mercati, la politica deve fare premio sull’economia. In certo modo, il reddito di cittadinanza vale per i pentastellati come una variabile indipendente: quello che una volta, in altre stagioni di rivendicazione politica e sindacale, doveva essere il salario. Come la soddisfazione di una richiesta di aumento salariale non doveva essere vincolata (in linea di principio, se non di fatto) a inaccettabili considerazioni sulla sua sostenibilità, così ora l’adozione di un reddito di cittadinanza non deve essere subordinato al giudizio di un’agenzia di rating, o di un commissario di Bruxelles, o di Mario Draghi e della Merkel. La fraseologia è cambiata, e anche il punto di applicazione, ma il senso che si vuole dare al provvedimento non è molto diverso, anche se poi, nei fatti, si cercano forme di riduzione del danno o, se si vuole, di mediazione  – ragionevole o irragionevole che sia.
È per questo che la manovra così fortemente voluta dai Cinque Stelle pone alla sinistra una domanda cruciale, che va molto al di là delle schermaglie congressuali, dei posizionamenti tattici e delle rivalse personali. Perché non vi è dubbio che, sul piano almeno della politica economica, i Cinque Stelle sostengono una parte che in passato è stata assunta dalla sinistra massimalista, nelle sue varie declinazioni. Certo, è una parte dalla quale il centrosinistra si è progressivamente allontanato: votando a favore dell’Unione Europea, pilotando l’ingresso nella moneta unica, sostenendo riforme pensionistiche e giuslavoristiche in cui né le pensioni né i posti di lavoro conservavano più, neppure simbolicamente, il valore di una variabile indipendente.
Ora la questione ritorna, con l’ingombro però del 30% circa di consensi raccolto dai Cinque Stelle. E l’urgenza di una scadenza elettorale – quella delle europee – che impone ai democratici di definire con nettezza il proprio profilo ideologico, prima ancora che politico. E dunque: si tratta di ristabilirsi sul terreno che i pentastellati hanno reso di nuovo praticabile, e di archiviare come una parentesi l’europeizzazione democratica e liberale perseguita (a volte persino con qualche eccesso di zelo) dalle leadership riformiste, o di considerare definitivamente spezzato il cordone ombelicale con la sinistra novecentesca? Forse questa seconda strada è oggi decisamente più stretta e impervia: è la strada ostruita dall’insuccesso del referendum del 2016 e poi dal fallimento del 4 marzo. Ma lungo la prima strada quale spazio politico ci sarebbe, vista l’identificazione profonda, di durata più che ventennale, del Pd e prima ancora dell’Ulivo con la stagione delle riforme? Non è dopo tutto ancora da questo lato che il centrosinistra dovrà, nonostante i rovesci dell’ultima stagione, provare a reinventarsi, o pensa di poter ripartire fianco a fianco col populismo moraleggiante e giustizialista di Di Maio?
(Il Mattino, 7 ottobre 2018)

L’ipoteca giudiziaria estinta e il buon governo che serve

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Ha senso introdurre, nel già vasto corredo del mondo, una lista di «fatti negativi», cioè di cose che «non» si verificano? Domanda astrusamente filosofica, però pertinente, a commento della giornata di ieri: non è forse un fatto che De Luca non è stato sospeso dalla carica di Presidente della Regione Campania, grazie all’assoluzione nel processo Crescent? E questo fatto negativo non è forse denso di conseguenze? Una condanna avrebbe certamente cambiato il corso della politica campana. De Luca sarebbe finito fuori gioco, e forse la consiliatura non sarebbe arrivata alla sua scadenza naturale. Per il centrosinistra, già ridotto ai minimi termini dopo l’ultimo, disastroso esito elettorale, le chance di successo si sarebbero ridotte al lumicino. Adesso invece lo scenario è completamente diverso, e i mesi prossimi si presentano sotto tutt’altra luce.

Certo, dovrebbe far riflettere che, in nome della lotta alla corruzione, sia entrata in vigore in Italia una legge con ricadute così dirompenti sul funzionamento delle istituzioni e sullo stesso gioco democratico: la sospensione può infatti scattare dopo una condanna in primo grado (per un semplice abuso d’ufficio: anche questo conta), che nei successivi gradi di giudizio può ben essere rovesciata. Quando però è tardi, e gli effetti di misure accessorie così abnormi si sono già prodotte. Stavolta non è andata così: la politica campana ha ballato pericolosamente sul filo della legge Severino per qualche settimana, prima che il verdetto mandasse assolti De Luca e tutti gli altri co-imputati. Tutti.

Orbene, inasprire le pene, costruire in via emergenziale legislazioni speciali, accumulare interventi ai limiti del dettato costituzionale – come la Severino o, da ultimo, l’inibizione per i corrotti dell’accesso a gare pubbliche vita natural durante, voluta dal nuovo governo – sono tutte norme portate da uno stesso vento giustizialista, che soffia da tempo e che oggi è persino più impetuoso di sei anni fa, quando fu approvata la legge Severino. Lo spazio di riflessione critica, se non di ripensamento, rimane tuttavia assai esiguo.

De Luca, dunque, resta in sella. Ha dinanzi a sé un anno e mezzo di governo: dalle ecoballe alla sanità, dal piano per le assunzioni nella pubblica amministrazione alle prossime Universiadi, sono molti i dossier aperti, sui quali si tirerà a fine mandato un bilancio dell’attuale esperienza, ed è ragionevole ritenere che l’orientamento dell’elettorato sarà in grande parte deciso dal giudizio che verrà dato sulla qualità dell’azione amministrativa. Il voto cadrà del resto nel 2020, e fare oggi previsioni su come sarà il panorama politico fra 20 mesi circa è veramente arduo. La maggioranza giallo-verde promette di durare per l’intera legislatura, ma non è detto affatto che le cose andranno davvero così. Di mezzo ci sono le elezioni europee e un risultato che non è detto premi in egual misura i contraenti del governo del cambiamento: le conseguenze di una crescita impetuosa della Lega sugli equilibri politici nazionali sono imprevedibili. Di mezzo c’è, per la stessa ragione, la possibile ricomposizione del centrodestra, soprattutto se il motore a due cilindri dell’attuale esecutivo dovesse, per qualche motivo, ingolfarsi. E di mezzo ci sono, per l’appunto, i possibili incagli: una navigazione che, sui mercati e nel rapporto con l’Unione europea, non promette affatto di essere tranquilla. Come dunque prevedere che centrodestra sarà quello del 2020, oppure dove saranno, a quella data, i Cinquestelle? Lo stesso Pd, peraltro, si avvia a fare del rapporto con i grillini un tema della prossima assise congressuale. E pure questo non si può sapere: che Pd sarà, e che centrosinistra sarà quello che affronterà le prossime regionali. È vero, De Luca in passato non ha mai fatto molto affidamento sul suo partito. Ma neppure lui può immaginare di rivincere da solo, in un contesto così profondamente diverso da quello delle passate elezioni.

Infine c’è Napoli. A Napoli si vota, è vero un anno dopo, nel 2021, ma il sindaco De Magistris non ha fatto mistero di ambire ad altri palcoscenici. Anche lui prova quindi ad agganciare i Cinque Stelle, e immagina di poter usare Palazzo san Giacomo come una pedina di scambio.

Ora, Il fatto che così tante incognite si affollino intorno a un medesimo problema rende impossibile, al presente, la soluzione dell’equazione. Per De Luca, che ha sempre puntato sull’efficienza e l’efficacia della sua attività amministrativa, il banco di prova rimane dunque quello. Come diceva Totò? La serva serve, eccome se serve! Beh, libero da ipoteche processuali (anche se non ancora da ogni procedimento) anche il governatore governa, e come governa è quel che i cittadini, non altri, dovranno valutare, come è giusto che sia in una democrazia.

(Il Mattino, 30 settembre 2018)

Pd, i riformisti che almeno parlano chiaro

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E finalmente ci sono delle tesi: undici, per la precisione, comprese in un corposo documento che LibertàEguale, l’area liberal del Pd che fa capo a Enrico Morando, Stefano Ceccanti e Giorgio Tonini, ha elaborato per portare la discussione nel partito democratico su contenuti e proposte, su scuola, Mezzogiorno, giustizia, sulla qualità dell’europeismo e sulla riforma delle istituzioni, sul lavoro e sull’immigrazione. Ne esce fuori il profilo di una forza politica spregiudicatamente riformista che, ben lungi dal fare macchina indietro dopo il referendum del 4 dicembre 2016 e la sconfitta alle politiche dello scorso marzo, propone invece di rilanciare la sfida delle riforme. Di osare di più, non di meno. Che ora il dibattito precongressuale si infiammi sul merito delle scelte politiche piuttosto che sui nomi del futuro segretario, su quel che farà Renzi e se Martina si ricandiderà, sulla data del congresso o sulla rifondazione del partito, bè: è alquanto improbabile. Però il sasso nello stagno è gettato.

Facciamo qualche esempio. La riforma della scuola: i governi a guida democratica hanno messo più soldi in istruzione e formazione, hanno ripreso a fare i concorsi, hanno promosso la cultura della valutazione e provato a cambiare l’organizzazione scolastica. Ma non lo hanno fatto abbastanza. Non hanno puntato in maniera decisa sull’autonomia del dirigente, su una forte differenziazione delle carriere docenti, su una più decisa competitività fra gli stessi istituti scolastici. (Andatelo a spiegare a quei dirigenti del Pd che si disperano per i voti persi con la Buona Scuola in un tradizionale serbatoio della sinistra). Capitolo immigrazione: fermi restando i principi di solidarietà, bisogna implementare «una politica migratoria selettiva, perché venire in Italia è un’opportunità, non un diritto». Quindi non accoglienza indiscriminata, ma un sistema di immissione a punti: «Età, sesso,, stato civile, istruzione, specializzazione, conoscenza della lingua, della cultura, dell’ordinamento costituzionale si combinano in un punteggio, o valutazione dell’ammissibilità dei candidati». (Questo bisognerebbe spiegarlo invece all’anima più di sinistra del Pd, che ha già dovuto ingoiare Minniti). Capitolo lavoro: qui di tutto si tratta meno che di tornare a prima del Jobs Act. Se mai, si tratta di essere più coerenti con quella impostazione – l’unica all’altezza di un mondo in continuo, rapidissimo cambiamento – e quindi di «accelerare il processo di concreta innovazione della legislazione in tema di mercato del lavoro», a cominciare dalla contrattazione, che va sempre di più spostata a livello di azienda e di territorio (E qui dovete rispiegare le cose ripartendo forse dal giudizio su Marchionne e dal referendum in Fiat).

Non manca naturalmente la tesi sull’Unione Europea. Che anzi sta in cima a tutte. Bollata come un’illusione la prospettiva nazionalista di rintanarsi nella dimensione nazionale, i liberal del Pd propongono anche qui di spingere sull’acceleratore delle riforme, provando a ricostruire la sovranità democratica a livello europeo, o almeno nell’area Euro: sui confini, sulla difesa e le politiche di sicurezza, su politiche fiscali e politiche sociali.

Credo di aver fornito uno spaccato sufficiente. Bisogna dire: se sotto traccia corre tra i democratici la domanda se bisogna o no aprire ai Cinque Stelle – oppure: farsi trovare pronti per quando la maggioranza giallo-verde andrà in frantumi – allora non c’è dubbio che Morando e gli altri danno una risposta assolutamente inequivoca: neanche per idea. Non c’è nulla di riformista là. E anzi i grillini appaiono, alla luce di questo documento, come la confusa riproposizione di vecchie ricette stataliste e assistenzialiste, portate avanti grazie al vento populista che gonfia il drappo rosso delle élites corrotte, contro cui è sobillato il risentimento popolare.

Dopodiché non manca qualche accenno autocritico qua e là: sulla necessità di tenere in maggior conto il bisogno di protezione degli individui, o sulla debolezza dell’azione riformatrice nel Mezzogiorno – con un giudizio molto duro sulla qualità delle classi dirigenti meridionali – ma il filo conduttore rimane uno: niente nostalgie socialdemocratiche, niente illusioni sovraniste, niente sconfessione delle politiche seguite dai governi Renzi-Gentiloni (se mai solo della loro insufficiente incisività).

Dove sia la vera posta in gioco è detto – credo – con estrema chiarezza: «Il binomio democrazia liberale ed economia di mercato funziona solo se la mobilità sociale si mantiene vivace». In un Paese come il nostro, dove invece non è mai stata vivace e dove in particolare non lo è ora, si capisce che la scommessa è grande. E lo è ancor di più in quanto prevale di gran lunga, nel ceto medio impoverito, non l’ambizione di salire, ma la paura di scendere ulteriormente i gradini della scala sociale.

Dove però si trovi, nel Pd, il capitale politico che è possibile gettare sul tavolo del confronto congressuale per una sfida così coraggiosa non è per niente chiaro, tanto più in quanto si tratta di rovesciare una narrazione, in Italia e nel mondo, che insiste non sulle speranze di progresso, ma sulle paure comportate dalle profonde crisi in atto. Quella economica, in primo luogo, ma anche quella ecologica e quella tecnologica, non meno profonde, non meno incerte e non meno durature.

E allora come si fa? E dov’è che era rimasto il Pd: a cena da Calenda o da Zingaretti?

(Il Mattino, 23 settembre 2018)

Il ponte e il Paese che sa solo indignarsi

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È vero, il crollo del ponte Morandi non era ancora avvenuto al tempo del contratto di governo. E dunque lì non si legge nulla al riguardo. Alla voce trasporti si parla di porti, di intermodalità, di linee ferroviarie regionali e, naturalmente, del Tav, «da rivedere integralmente». Su ponti e autostrade, manutenzioni e nazionalizzazioni, non c’è nulla. Ma è un buon motivo perché la situazione, a un mese dal tragico evento, rimanga così confusa? Il ministro Toninelli ha annunciato a gran voce un piano infrastrutturale «di portata eccezionale, senza limiti di spesa, fuori dai vincoli Ue» pronto per finire nella ormai imminente Legge di Bilancio. Ma, nel frattempo, alzi la mano chi ha certezze su come andrà questa storia. Il ministro e i suoi colleghi di governo – primo fra tutti Di Maio – giurano e spergiurano che non sarà Autostrade per l’Italia a rifare il ponte: questo, però, è l’unico punto che rimane stabilito. Su tutto il resto, l’incertezza regna sovrana. Per dare una scossa, il governo ha in via di perfezionamento un decreto, che dovrebbe dare larghissimi poteri al futuro commissario. Il cui nome, però, il premier Conte cercava invano tra i fogli che aveva davanti in conferenza stampa, al momento dell’annuncio. L’accordo, infatti, ancora non c’è.

E dunque: chi abbatte quel che resta del ponte Morandi, e a chi toccherà ricostruire? Quando l’area sarà cantierabile? In che modo si procederà: per affidamenti diretti o magari per gare ristrette? E come si affronterà il prevedibile contenzioso che ne verrà, con Autostrade o con l’Unione Europea? E quanto tempo ci vorrà? E intorno a quale tavolo siederanno i soggetti interessati? L’idea che la politica non può aspettare, enunciata con grande forza già all’indomani della tragedia, quando il Presidente del Consiglio spiegò che non si poteva attendere il verdetto di un tribunale per revocare la concessione alla famiglia Benetton, è sicuramente un tratto distintivo di questo governo. Anche nelle discussioni di questi giorni, su quel che ci sarà o non ci sarà nella legge di bilancio, e se sforare o non sforare e di quanto sforare sul deficit, leghisti e pentastellati (più questi ultimi, in verità) mettono sul tavolo l’argomento della volontà politica, che deve far premio su vincoli comunitari, compatibilità di bilancio, pressioni finanziarie dei mercati. Ci hanno eletto per questo, dicono; siamo al governo per questo, ripetono. Il nocciolo del sovranismo così orgogliosamente riscoperto starebbe qui. E sarebbe pure una buona cosa. Solo che, alla prova dei fatti, il governo rischia di fare l’opposto: invece di far presto, rischia di far tardi. E per voler far meglio, non riesce a far bene. Mettendo avanti a tutto il punto morale dell’indignazione, finisce infatti indietro il punto vero, quello che riguarda il terreno concreto dell’operare del governo e dell’amministrazione. Che deve farsi largo tra leggi, procedure, e, non da ultimo, aprirsi un varco nella realtà del Paese. Bisognerà agire dunque con ampie deroghe, mentre cresceranno inevitabilmente le polemiche (e affileranno le armi gli studi legali).

Ad oggi, quella che è senz’altro dichiarata è l’incrollabile volontà di nazionalizzare il sistema autostradale del Paese. Tutto? In parte? A pezzi? Non si sa. Scelte di questa natura un tempo venivano prese a valle di grandi dibattiti politici e intellettuali. Allo stato, una simile volontà si fa forte solo dello sdegno verso “quelli che c’erano prima”. E va bene. Ma non risulta che sia sostenuta anche da analisi economiche reali di ciò che serve al Paese, né da una verifica tecnico-giuridica sul modo in cui giungere all’obiettivo. L’una e l’altra sono ancora da farsi, e chissà quanto ci vorrà, ma la decisione: quella è già stata presa, sull’onda emotiva seguita al disastro. Così però la volontà politica che ha cavalcato l’onda rimane come sospesa in aria: forte all’apparenza ma fragile nella realtà. I dubbi allora rimangono – sui costi, sui tempi, sulle modalità – e la strada per arrivare alla meta rimane tutta da percorrere.

D anzi, a proposito di strade: chi l’ha fatta la strada inaugurata l’altrieri per decongestionare Genova, a un mese dalla tragedia? I privati. Anzi: Pavimental, società del gruppo Atlantia-Autostrade per l’Italia. La strada di collegamento col porto, che serviva subito, per togliere i mezzi pesanti dal traffico cittadino e dare un po’ di respiro alla città ora che il ponte Morandi è crollato, è stata fatta da quelli che – secondo Toninelli – non devono mettere «neanche un grano di sabbia» nella ricostruzione del ponte.

Così uno pensa all’ILVA: anche lì, i grillini, animati da furore ideologico, erano partiti con l’idea che bisognasse chiudere tutto e tutto riconvertire; poi Di Maio, più realisticamente, ha per fortuna preso atto di quel che si poteva fare per davvero. E la cosa, almeno lì, si è chiusa. Ma a Genova come si chiuderà?

(Il Mattino, 21 settembre 2018)

Heidegger e i “Quaderni neri” antisemiti:

Come leggere Heidegger? Entro quale contesto: filosofico, politico, storico, biografico? La recente pubblicazione dei Quaderni neri ha costretto a riaprire il dossier dei rapporti del «mago di Messkirch» con il nazismo. Per volontà dello stesso filosofo, che scelse di inserire gli appunti e le riflessioni di questa specie di diario filosofico lungo quarant’anni in chiusura dell’edizione dell’opera completa. Le annotazioni tenute negli anni cruciali dell’ascesa di Hitler al potere, e subito dopo la sua caduta, hanno però riproposto non solo la questione del grado di compromissione del filosofo, e del suo pensiero, con il regime nazista, ma anche quella, ancor più scottante, dell’antisemitismo. A lungo, la linea prevalente è stata quella di addurre, a discolpa di Heidegger, i suoi buoni rapporti personali con allievi e colleghi ebrei, e la distanza dichiarata dal grossolano biologismo dell’ideologia nazionalsocialista. I Quaderni neri, tuttavia, non consentono più di dire – come si è detto e ripetuto in passato – che non si ritrova nella sua opera una sola frase antisemita. E la domanda così si ripropone: incidenti biografici, miserie umane, stereotipi mal digeriti, oppure temi di rango filosofico che chiamano in causa i fondamenti stessi della ratio filosofica dell’Occidente – come ha sostenuto, portando solide argomentazioni, Donatella Di Cesare?

Eugenio Mazzarella, tra i più noti e apprezzati studiosi di Heidegger, dedica il suo ultimo libro (Il mondo nell’abisso. Heidegger e i Quaderni neri, Neri Pozza, pp. 110, € 12,50) al «teatro filosofico» allestito con l’uscita dei Quaderni. E la tesi che accoglie è quella già formulata da Friedrich Wilhelm von Hermann e Francesco Alfieri, secondo i quali i concetti sotto i quali Heidegger conduce la critica dell’«ebraismo mondiale» – pensiero calcolante, razionalità puramente strumentale, oblio della questione dell’essere, sradicamento e mancanza di suolo, riduzione dell’intero dell’ente a mera compagine macchinica – descrivono in realtà un più generale spirito della modernità, e non scaturiscono quindi dall’antisemitismo del pensatore quanto piuttosto da una riflessione sull’epoca nel suo insieme.

Dire che ne va dell’orizzonte storico-destinale del nostro tempo non vuol dire, però, ignorare, o  «dare per tacitabili – anzi – le ricadute politico-ideologiche di una struttura di pensiero». Quelle ricadute vi furono, evidentemente. E non furono teatro. Ma dopo l’abbaglio dell’adesione al nazionalsocialismo, quello che per Mazzarella si ebbe, in mezzo a frustrazioni personali e delusioni esistenziali, fu piuttosto una «contrapposizione di principio al mondo nella sua totalità», un «disimpegno sempre più apocalittico», una sorta di «abbuiamento gnostico», di cui i Quaderni recano consistente traccia.

Con il che Mazzarella non si schiera né con i «detrattori politici» che negano a Heidegger rango filosofico, né con i «difensori politici a priori», che negano invece l’evidenza dei fatti, cioè il legame non episodico con il nazismo. Ma esso viene in certo modo circoscritto «all’impianto della storia dell’essere heideggeriana impregnata di destino», che domina la «crisi ontologica» degli anni Trenta e Quaranta, e lascia dunque impregiudicato l’interesse per la fatticità dell’esistenza del primo Heidegger così come il pensiero della tecnica che occupò, forse ossessionò i suoi ultimi anni, temi e problemi che, secondo il filosofo napoletano, meritano tuttora di essere ampiamente ripresi e discussi.

(Il Messaggero, 9 settembre 2018)

Il caso Cosentino e i paradossi della Giustizia

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Ventiquattro ore prima una condanna, ventiquattro ore dopo un’assoluzione. Prima la condanna per un reato commesso in carcere, dopo l’assoluzione dall’imputazione per la quale era finito in carcere: la storia giudiziaria di Nicola Cosentino si arricchisce di un nuovo capitolo, non certo il più lineare. Se però scomodiamo l’aggettivo kafkiano, che secondo i dizionari va usato per le situazioni assurde e incomprensibili in cui si impiglia a volte l’esistenza umana, facciamo probabilmente un torto sia allo scrittore praghese che al politico casertano. Perché il caso Cosentino è perfettamente comprensibile e niente affatto assurdo. Già deputato per quattro legislature, in Parlamento ininterrottamente dal 1996 al 2013, Cosentino è stato a lungo il principale referente politico di Forza Italia in Campania, nonché sottosegretario all’Economia nel 2008, quando cominciarono a piovergli sul capo le accuse assai gravi, per le quali ha poi rimediato diverse condanne in primo grado. Una volta si diceva: un politico chiacchierato. Ma quanto valgono le chiacchiere? Quale peso bisogna dare ad esse, e chi deve dare questo peso? A leggere le cronache di quegli anni, le polemiche sui giornali e le intricate (e lunghe, soprattutto lunghe) vicende giudiziarie, si ricava ancora una volta l’impressione che il nostro Paese non dispone più di alcun filtro efficace tra le chiacchiere e le forme processuali: le fonti di prova, i dibattimenti, le sentenze. In mezzo le misure cautelari, quelle veramente decisive, che di fatto determinano l’uscita di scena del politico di turno. Questa è la storia, così come si ripete troppe volte. È la storia di un Paese che ha di fatto rinunciato al principio della presunzione di innocenza. Alzi la mano chi, oggi, è disposto a considerare Cosentino innocente: con tutto quel che si dice su di lui? Con tutto quello che è emerso dalle indagini? Con le cose che gli accusatori hanno detto sul suo conto (accusatori che ora, per l’inchiesta “carburanti”, rischiano di finire a processo a loro volta)? La distanza fra i “si dice” e i verdetti è caduta. Non solo, ma tutto avviene come se, essendosi formata negli inquirenti l’opposta presunzione della colpevolezza, fosse quella a orientare, anzitutto nel sentimento comune e nell’opinione pubblica, l’intera vicenda. È lì, infatti, che si presentano le accuse, che solo dopo verranno portate davanti a un giudice, ed è lì che viene in pratica inflitta la condanna, comunque vadano a finire poi le cose nell’aula di giustizia.

Nel caso di Cosentino, poi, c’è quel tocco di paradossalità in più, per cui la detenzione, che non avrebbe dovuto scontare, è proprio quella che lo ha spinto alla commissione del reato (corruzione di guardia carceraria). Prima si sconta la pena, insomma, poi arriva la condanna; per di più, la pena non è per il reato per il quale arriva la condanna, e la condanna è per il reato che è stato commesso mentre si scontava la pena. È l’aspetto per il quale uno pensa a Kafka, a disquisizioni metafisiche su una legge che ti fa essa stessa colpevole, per poi punirti.

Ripeto, però: non mi pare quest’ultimo l’aspetto determinante, benché sia persino drammatico sotto il profilo personale. Il fatto sostanziale è quello che riguarda la vita pubblica: una politica che rimane permanentemente sotto lo scacco della giustizia, e una giustizia che usa la politica come cassa di risonanza per le proprie inchieste, senza andare troppo per il sottile soprattutto quando il clima è – come dire? – favorevole. Da una parte, la giustizia diventa – certo con un grado di consapevolezza diverso nei diversi protagonisti – una continuazione della politica con altri mezzi; dall’altra, la politica diventa per la giustizia un mezzo un po’ spiccio per la costruzione di posizioni professionali.

Diventa, o può diventare. Ma avremmo forse bisogno di qualche rassicurazione in più sul fatto che queste dinamiche siano a tutti non solo ben presenti ma anche da tutti energicamente contrastate. E invece accade, come ha sottolineato Marco Demarco, che arrivi praticamente insieme al giudizio su Cosentino anche l’assoluzione – l’ennesima – per Clemente Mastella. Un pezzo di storia politica della Campania e dell’Italia smontato da inchieste giudiziarie finite in nulla. Non si contano i vituperi, non si contano le assoluzioni: ma sulla bilancia della giustizia non pesano, purtroppo, allo stesso modo.

(Il Mattino, 18 settembre 2018)

La severità che aiuta i giovani a rischio

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E poi c’è il Paese reale. Ci sono i tassi di dispersione scolastica e quelli sulla disoccupazione giovanile, e le stese, e un contesto sociale e ambientale che non fa solamente da sfondo ai continui episodi di criminalità, ma tra piazze e vicoli, caschi e motorini, balconi e marciapiedi, saracinesche arrugginite e capannoni abbandonati, vecchi quartieri del centro e case popolari in periferia, vive e muore ad ogni nuovo scoppio di violenza. Sempre più virulenta e diffusa.

Richiamare l’attenzione su Napoli, sulla condizione minorile, sull’intreccio fra questione minorile e questione sociale, questione sociale e questione criminale è dunque doveroso, e la riunione in città del plenum del Consiglio Superiore della Magistratura (una prima volta assoluta) è sicuramente un segnale importante da parte delle istituzioni. Sarebbe un segnale ancora più forte – come ci auguriamo – se non venisse trascinato in sede politica, in un vortice di polemiche, in un palleggio di responsabilità, in una scia di dichiarazioni che si limiterebbero a coprire il fenomeno da un punto di vista mediatico, lasciando però inalterati i fatti.

Il vice Presidente Legnini e il procuratore generale Riello hanno detto cose molto sagge: che c’è bisogno di un’azione di coordinamento fra le istituzioni, che ci vuole, ma da sola non basta, l’inasprimento dell’azione repressiva, che la camorra non si combatte con risposte meramente emergenziali. Occorre insomma una consapevolezza diversa, un impegno continuo, e strategie di medio-lungo periodo: quelle che i tempi sempre più corti della politica fanno fatica ad adottare. Ma devianza e criminalità vanno affrontate dal punto di vista legislativo e della sicurezza, intensificando il controllo del territorio e il contrasto all’illegalità, senza al contempo trascurare di mettere mano a un’opera più vasta: di riscatto culturale, di riqualificazione ambientale, di ricucitura del tessuto economico e sociale della società. Non togli una pistola dalle mani di un ragazzino se non lo togli anche dalla strada.

E, a volte, anche dalla famiglia. Il provvedimento tanto sollecitato e tanto discusso di sospensione della patria potestà dei camorristi – che, com’è stato spiegato, non deve scattare se non in situazioni-limite – va sostenuto. Non è una prevaricazione sulle famiglie, ma l’esercizio di una tutela del minore che rientra tra i compiti essenziali dello Stato. Non è figlio di una cultura autoritaria, punitiva o addirittura vendicativa, ma è perfettamente in linea con una tradizione giuridica che riconosce garanzie fondamentali a difesa dei soggetti più deboli. Abbiamo fortemente indebolito l’idea che lo Stato possa o debba intervenire «in ultima istanza» in settori diversi della vita associata, ma in questa materia non è possibile, lo Stato non può ritrarsi dal dovere di sottrarre il minore dal microcosmo criminale in cui vive in anni decisivi per la sua formazione. Quando si dispone della vita delle persone, bisogna che ogni potere sia esercitato con la massima cautela, secondo tutte le previsioni costituzionali (per la nostra Carta, la famiglia è pur sempre una società naturale pre-politica, di cui vanno riconosciuti i diritti), ma il fondamento di quell’esercizio sta in ciò, che esso dà non meno, ma più libertà al minore: lo strappa alla «seconda natura» criminale che rischia di consegnarlo a un destino già scritto.

Lo stesso si deve dire della maggiore severità nei confronti dell’abbandono scolastico. È uno scandalo che l’obbligo scolastico sia così impunemente eluso, nella nostra Regione in particolare, e che il contrasto al fenomeno non sia considerato una priorità assoluta per qualunque governo, di qualunque colore politico. A cosa potrà mai servire il famoso esercito di maestri elementari invocato dallo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino per sconfiggere la mafia, più decisivo delle stesse forze dell’ordine, se quei maestri, una volta reclutati, si dovessero trovare in aule semi-deserte? Poi ci vorrà altro, sicuramente: ma se c’è un ambito in cui vale la formula «tolleranza zero» è quello che riguarda la frequenza scolastica. A fianco della famiglia è la via che lo Stato nazionale ha scelto per costruire sapere e cittadinanza: al momento, non ce n’è un’altra. Rinunciarvi, è rinunciare ad essere comunità. E là, dove il disagio sociale e le difficoltà economiche sono più grandi, più grande ancora è il vuoto che viene lasciato.

(Il Mattino, 12 settembre 2018)