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Il fascino delle utopie naufragato alla prova del realismo

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Forse è stata la fine dei grandi racconti. Oppure il tramonto di ogni utopismo e la prevalenza di una ragione cinica e disincantata: sta di fatto che il Sessantotto appare oggi lontanissimo dai quadri culturali dell’epoca attuale. E certo è più facile trovare condivisione intorno ai giudizi sferzanti di un Raymond Aron sulla «maratona delle chiacchiere» o sui «rivoluzionari da aula magna», che non emozionarsi al pensiero di quegli anni formidabili, per dirla con un campione della nostalgia sessantottina, Mario Capanna.

Può darsi che non sia soltanto la distanza storica, ma un rattrappimento effettivo degli spazi della politica o delle ambizioni teoriche, certo è che molto di quel sussulto rivoluzionario appare oggi quasi incomprensibile, nonostante l’affabulazione sessantottesca ne abbia a lungo rimandato l’eco, sempre più sbiadendo lo spontaneismo, il velleitarismo, l’estremismo, l’egualitarismo radicale, il dilettantismo. Ecco quel che, nel fatto, accadeva: una società profondamente trasformata nel giro dei due decenni che seguirono la fine del conflitto mondiale sperimentava un nuovo benessere, ma rifiutava al contempo le istituzioni politiche, sociali ed economiche che lo avevano reso possibile – la democrazia, i partiti, l’università, la fabbrica – in cui riconosceva solo tratti repressivi e autoritari.

E tanto bastò per fare la rivoluzione. O almeno per provarci per qualche mese. La critica definitiva della società repressiva, comunque, ebbe i suoi profeti. Primo fra tutti Herbert Marcuse, il filosofo dell’eros e della «liberazione di una nuova sensibilità» che nel luglio del ’67, agli studenti della Libera Università di Berlino, già spiegava come nuovi, liberi bisogni vitali sarebbero sorti dalla «eliminazione degli orrori della industrializzazione e della commercializzazione capitalistica, dalla totale ricostruzione delle città e dalla restaurazione della natura».

Vasto programma. Al cui confronto, certo, riesce troppo limitato quello che oggi si offre ai cittadini-utenti della rete, alle prese non più con lo sproposito dell’immaginazione al potere, o con l’iperbolico «non lavorate!» del situazionista Guy Debord, ma con il più modesto numero di like ai post. Allora si voleva che qualunque cosa fosse alla portata di chiunque («vogliamo tutto!»), oggi è Amazon che suggerisce la stessa mira.

Ma la stella di Marcuse brillò altissima, in una confusa costellazione nella quale – insieme all’anarchismo, al libertarismo, al maoismo, al «Che» e a Ho Chi Minh – avevano potuto incontrarsi Friedrich Nietzsche e Karl Marx, grazie soprattutto al libro che Gilles Deleuze aveva dato alle stampe già nel 1962: «Nietzsche e la filosofia». Il filosofo di Dioniso serviva per andare oltre la concezione marxiana dell’alienazione e oltre pure le teorie freudiane dell’inconscio, e denunciare così in tutte le forme della società borghese, pubbliche e private, nient’altro che una corazza di violenza della quale liberarsi.

In realtà la violenza – quella vera – arrivò dopo, negli anni Settanta. Da una più radicale democratizzazione degli spazi sociali al proposito di abbattere gli istituti della democrazia liberale il passo fu, purtroppo, assai breve. La mitologizzazione del Maggio francese ha di fatto reciso i legami con quello che ci fu prima, e con quello che ci fu dopo. Ma almeno in Italia il ’68 coprì un arco di lotte decennale, «l’esplodere e l’espandersi di una insubordinazione proletaria, operaia e studentesca, popolare ed intellettuale», così come l’ha ricordata uno dei suoi protagonisti, Toni Negri. Che il ’68 se lo ritrova ancora nella testa e nelle gambe, quando dice che «non si può più pensare, né vivere, come si pensava o si viveva prima».

E però, mentre Negri esalta la rivoluzione delle forme di vita (o più modestamente dei costumi) promossa dal ’68, escono libriccini come «Il Sessantotto realizzato da Mediaset», di Valerio Magrelli, o come «Berlusconi o il ’68 realizzato», di Mario Perniola, che a quella rivoluzione danno tutt’altro significato, e esito:  l’anti-intellettualismo, la completa deregolamentazione del comportamento individuale, un’istanza desiderante non sottoponibile a censura alcuna, il rifiuto del principio della competenza, l’ostilità verso la cultura «ufficiale», di maggioranza e di opposizione (si pensi ai seni sventolati dinanzi a un intimidito e timidissimo Theodore Adorno). Tutte cose che, ben lungi dall’annunziare la fine del capitalismo, hanno se mai affievolito lo spirito civico di una cittadinanza democratica autenticamente critica e razionale. Forse, la talpa della rivoluzione quella volta non ha scavato bene.

(Il Messaggero Il Mattino, 31 dicembre 2017)

Opportunità e rischi con un liceo di quattro anni

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L. Fontana, Concetto spaziale. Attese (1964)

Quattro anni invece dei tradizionali cinque anni di liceo. L’aspetto positivo della sperimentazione avviata dal ministero dell’istruzione è che, appunto, si tratta di una sperimentazione. Non dunque di una riforma fatta e finita, ma di un primo passo per provare ad abbreviare i percorsi didattici e accorciare i tempi di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, avvicinandoci così agli altri paesi europei. L’intenzione del governo non è quella di ridurre la quantità e la qualità dell’insegnamento nelle scuole secondarie superiori, ma quello di comprimerlo, in modo da svolgere i programmi in quattro anni anziché in cinque.
Una sperimentazione va valutata dopo un congruo periodo di tempo, sulla base dei risultati, ed è quindi prematuro esprimere un giudizio compiuto. Tuttavia è lecito nutrire qualche dubbio sul fatto che sia questa la strada da preferire per affrontare i problemi della scuola italiana. Che sono certamente legati all’inserimento nel mondo del lavoro e quindi al collegamento di questo mondo con quello dell’istruzione e della formazione, ma che sembrano per questo dipendere molto di più dalle condizioni del sistema universitario, che non dalla durata dei percorsi liceali.
Questo è infatti il primo dubbio: che il Ministero guardi nella direzione sbagliata, e punti a cambiare la scuola quando invece si tratterebbe anzitutto di potenziare la formazione universitaria. L’Italia ha ancora pochi laureati, a confronto con i partner europei. E per portare più giovani a laurearsi è dubbio che possa servire abbreviare gli anni di studio al liceo. Quel che occorre è invece una robusta inversione di tendenza nelle politiche condotte finora verso l’università: in termini di finanziamento del fondo ordinario per gli Atenei, ma anche di orientamento allo studio, e di borse a sostegno del diritto allo studio. Pochi ragazzi hanno chiaro in testa cosa significhi lo studio universitario, e troppo poco fanno le scuole e le università per chiarirglielo. In queste condizioni, togliere un anno non è un contributo alla chiarezza: riduce i tempi, ma c’è il rischio che aumenti le distanze.
Dalla sponda universitaria si vede bene un altro motivo di perplessità di fronte alla sperimentazione annunciata. Un buon sistema educativo assicura una buona formazione di base. Per formazione di base non intendo una formazione elementare, ma una formazione generale, sopra la quale soltanto possono innestarsi percorsi specifici. Questa esigenza è tanto avvertita, che gli ultimi dati attestano un movimento in contro tendenza rispetto agli anni precedenti, con un ritorno significativo agli istituti liceali rispetto agli altri tipi di istruzione secondaria superiore. Quello che i licei assicurano è infatti una formazione ampia, profonda, non specificamente tecnica, non immediatamente professionalizzante, in grado di aprire a ventaglio, non di chiudere e limitare, le possibilità di proseguire gli studi dopo la chiusura del ciclo scolastico. Non è vero affatto, peraltro, che le imprese abbiano bisogno di figure già dotate di abilità precise e ben delimitate: hanno bisogno semmai di giovani sempre più in grado di costruire nuove competenze anche al termine del periodo di formazione scolastico. Per dirla con una metafora biologica: non hanno bisogno di cellule specializzate, ma di cellule totipotenti. Ora, questa capacità, che nel linguaggio contemporaneo si esprime anzitutto in termini di flessibilità, si acquisisce non al termine, ma all’inizio dei processi di formazione scolastica. Di nuovo, dunque, appare il rischio che comprimere lo studio liceale non garantisca un reale vantaggio, ma comporti piuttosto una perdita.
Infine, ripensare la scuola significa ripensare anche le cose che vi si insegnano. Noi restiamo un paese povero di cultura scientifica, che di solito, quando riflette su questa carenza, non trova di meglio che chiedere, per ovviarvi,  meno cultura umanistica. Come se il gioco fra le due culture fosse ancora un gioco a somma zero. Non è così, perché la cultura è una e le sue parti possono e devono sostenersi reciprocamente. Piuttosto, è l’illusione che la scuola possa mettersi a scimmiottare quello che accade in altri luoghi della società e della vita pubblica, e che i ragazzi sono ben in grado di imparare in altro modo e per altri canali, a togliere spazio – ma anche credibilità e autorevolezza – alla formazione scolastica. Svecchiare la scuola non può significare dunque imbellettarla con qualche nuovo strumento tecnologico, dimenticandosi di curare l’impianto formativo di fondo.
Va bene sperimentare, insomma, ma senza illudersi che lo scopo della scuola sia solo quello di far prima. Pochi, maledetti e subito vale forse per qualche affare da concludere rapidamente, ma non può essere la qualità dei nostri ragazzi quando escono dal liceo.
(Il Messaggero, 8 agosto 2017)

La strana idea di santificare Pascal. Una violenza contro storia e laicità

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Francis Bacon, Three Studies For A Crucifixion (1962)

Le vie del Signore sono infinite, ma quella che prenderebbe la beatificazione di Blaise Pascal, qualora Papa Francesco desse seguito al proposito manifestato nel colloquio con Eugenio Scalfari, di sicuro non era mai stata percorsa prima. Perché non era mai accaduto prima, credo, che la proposta di portare qualcuno sugli altari nascesse dalla conversazione tra un Pontefice e un non credente: con quest’ultimo, beninteso, nella posizione del postulatore.

In effetti, è una ben strana intervista, quella apparsa qualche settimana fa su “Repubblica”. Più che un’intervista, somiglia a un piacevole e libero divagare. Papa Francesco ha a cuore il tema dei migranti, e le diseguaglianze fra la parte ricca e la parte povera del mondo. Scalfari ha invece ben altri crucci: la revoca della scomunica comminata a Baruch Spinoza, e la beatificazione di Blaise Pascal. Nientemeno. D’improvviso veniamo sospinti indietro, in pieno Seicento, l’ultimo secolo solcato da grandiose dispute teologiche intorno ai temi della grazia e del libero arbitrio. Pascal, a quel tempo, non se la passò benissimo: insieme ai suoi amici giansenisti, interpreti di un cristianesimo austero, poco incline al compromesso morale, ebbe la peggio nello scontro che li opponeva proprio ai gesuiti (dalle cui file viene Francesco), molto più disponibili ad adeguarsi agli usi del mondo. Genio precocissimo, grande scienziato e matematico, brillante prosatore, Pascal è stato però anche uno straordinario testimone della religione cristiana, in grado di rinnovare profondamente gli argomenti tradizionali dell’apologetica tradizionale per «porter à chercher», più che per dimostrare le verità della fede. Di qui la sua profonda modernità, che rende le sue pensées, lette (con qualche anacronismo) in chiave esistenzialistica, molto vicine alla sensibilità contemporanea. Pascal che scommette sull’esistenza di Dio (come un Kierkegaard ante litteram), Pascal che parla al cuore e non solo alla ragione (precorrendo sensibilità romantiche), Pascal che si angoscia dinanzi a un Dio che si nasconde (annunciando prima di Nietzsche l’ospite inquietante dei nostri giorni, il nichilismo).

Ma cosa significherebbe beatificarlo oggi (su proposta di Eugenio Scalfari)? Non è molto più autentica la sua testimonianza, se non guadagna i tratti eroici della santità, che non possedette, e rimane piuttosto nella misura della comune umanità? O c’è forse l’idea di una qualche forma di riconoscimento molto postumo da parte del primo Papa gesuita, verso lo scrittore che nelle «Lettere provinciali» ridicolizzò l’intera Compagnia di Gesù? Ma a che serve questa bizzarra maniera di riscrivere la storia?

È vero che il martirologio cristiano raccoglie le biografie più disparate, e che la storia della Chiesa è piena di testa-coda, di pentimenti, conversioni e palinodie – questo è anzi uno dei tratti più significativi dell’antropologia cristiana – ma, con tutto ciò, lo scomodissimo Pascal che finisce cinto con l’aureola grazie a un chierico della Compagnia, beh: è davvero complicato immaginarselo. Così come trovare un giansenista, così legato al cristianesimo delle origini, tra le schiere rinfoltite e modernizzate dei santi.

Ma, anacronismi a parte, è l’idea stessa che l’apertura della Chiesa ai tempi moderni debba essere mostrata attraverso questi disinvolti mescolamenti del laico e del religioso che probabilmente non giova né a un elemento né all’altro. Così come non ci fa una gran figura, la Chiesa di Francesco, ad avviare i processi di beatificazione davanti a un taccuino, grazie all’imbeccata di un giornalista. È come se il cristianesimo volesse oggi perdere tutte le sue asperità: non solo certi inutili dogmatismi, ma anche la sia pur minima distanza “clericale”. E chi meglio di Blaise Pascal, finito pure nelle scatole dei Baci Perugina? Ma c’è un enorme equivoco. A parte il fatto che, dal punto di vista cattolico, i dogmatismi non sono affatto inutili, sono anzi costitutivi del magistero ecclesiastico, ma come si fa a promuovere un’operazione di questo genere con Pascal, che di facilità, convenienze, accomodamenti morali e dottrinali proprio non ne voleva sapere? Senza dire che sarebbe stato il primo a inorridire nel vedersi messo a fianco dell’ebreo Spinoza.

Qui poi viene il lato francamente molto, ma molto approssimativo della lunga conservazione col Pontefice. Passi che Scalfari immagini, violentando la cronologia, un Pascal lettore di Spinoza. Passi pure che dedichi un capoverso da brivido alla novità del pontificato di Francesco (il Dio unico, questa la «tesi di fondo»: come se il monoteismo fosse una scoperta dell’ultimora) e pure al dogma trinitario (Dio che diventa uomo e che dopo la morte «ridiventa» Dio: secoli di discussione su Gesù vero uomo e vero Dio dissolti così, in un giro di frase, dinanzi al Papa), ma che dire infine della richiesta alla Chiesa cattolica di cancellare la scomunica di Spinoza, quando a scomunicarlo fu la comunità ebraica di Amsterdam?

Quanto infine alla messa all’indice dell’«Ethica»: è difficile trovare nel Seicento (ma anche oggi) un libro più lontano non solo dalla fede ma dalla stessa visione cristiana del mondo: che senso avrebbe, anche in questo caso, mescolare le cose, confondere le acque e fare come se fossero lo stesso il Dio personale dei cristiani e il Dio impersonale di Spinoza, il Dio trascendente e il Dio immanente, il Dio misericordioso e il Dio privo di passioni, il Dio di «stultitia» dei cristiani e il Dio tutto razionale di Spinoza?

Ma se saltano simili differenze, e se a saltarle (a farci almeno un pensierino) è addirittura il Pontefice, non si è affatto più vicini al dialogo e alla reciproca comprensione fra pensiero laico e pensiero religioso: si è invece nel peggiore dei sincretismi possibili, dove tutto equivale a tutto. Che è precisamente la condizione in cui, Pascal può finire sugli altari, Spinoza vedersi revocata una scomunica rifilatagli da altri, e Scalfari spiegare al Papa addirittura la Trinità.

(Il Messaggero, 30 luglio 2017)

Da Abu Ghraib a Regeni. La tortura lato oscuro del potere

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Nella notte fra il 21 e il 22 luglio 2001, a Genova, con l’irruzione della polizia nella caserma Diaz, furono commesse violenze e sevizie qualificabili come atti di tortura. Lo ha stabilito una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma non un tribunale dello Stato italiano, perché in Italia il reato di tortura non c’è. Nonostante le norme di diritto internazionale. Nonostante la ratifica nel 1989, da parte del nostro Paese, della Convenzione ONU contro la tortura. Il libro di Donatella Di Cesare (Tortura, Bollati Boringhieri, pp. 217, € 11), in uscita oggi, ci fa riandare a quella notte, in cui fu scritta una delle pagine più nere della storia italiana recente, ma soprattutto getta uno sguardo profondo sui meccanismi e le dinamiche che legano non accidentalmente la politica e lo Stato alla pratica della tortura.

Abbiamo preso il libro dalla fine, dalla terza parte dedicata alla livida amministrazione della tortura, perché coinvolge più direttamente l’attualità: dalla prigione di Guantanamo al caso di Giulio Regeni, dalle fotografie dell’orrore di Abu Ghraib al G8 di Genova. Non solo i lager, dunque, o le dittature: in pieno ventunesimo secolo anche lo Stato democratico tortura, si macchia ripetutamente di abusi e violazioni. E di nuovo: nonostante le dichiarazioni universali, nonostante i diritti fondamentali, nonostante costituzioni, corti e tribunali. Perché?

La tesi dell’Autrice, svolta nella prima parte del libro, dedicata alla politica della tortura, è che se la tortura torna purtroppo come «una costante della storia umana» è perché essa è iscritta sin dall’origine nella logica del dominio: «Non è entro il codice della verità, bensì entro quello del potere che la tortura va considerata». Non si tortura, insomma, per estorcere verità o per fare giustizia, ma per affermare la presa assoluta del potere sui corpi, per riattivare l’oscuro fondamento di ogni soggezione politica.

Oscuro perché nascosto, perché spostato dal centro della sfera pubblica in qualche sottoscala o in qualche stanza male illuminata, dove sia consentito infliggere dolore e seminare terrore senza dare giustificazione alcuna. In realtà, dopo l’11 settembre e la guerra globale al terrore si sono compiuti, specie nel dibattito filosofico anglo-americano, tentativi spericolati di giustificare la tortura, di costruire paraventi giuridici e dilemmi morali con i quali autorizzare la politica delle «mani sporche»: per salvare vite umane, ma in realtà per spingere lo Stato oltre i confini della sua legittimità democratica, in una terra di nessuno dove tramonta ogni idea di giustizia.

Tentativi che l’Autrice, tra le maggiori filosofe italiane, smonta con implacabile lucidità e grande rigore argomentativo. Ed è impressionante veder sfilare, in pagine molto tese e dense, la quantità di figure di linguaggio e di pensiero in cui la tortura ha potuto trovare una parvenza di presentabilità. Una fenomenologia della tortura, così recita il titolo della seconda parte del libro, che toglie il fiato. E che purtroppo si rinnova anche oggi, nelle manovre che giuristi, politici e filosofi compiono per attenuare, camuffare o difendere l’indifendibile.

Per questo «Tortura» si rivela un libro non solo importante, ma necessario. Perché trovare le parole, a cominciare da quelle che dicono la sofferenza e la sottraggono alla muta violenza che giace al fondo di ogni potere, costituisce il primo atto di resistenza. Occorre dire, occorre dire e denunciare. E occorre, in Italia, a distanza di quindici anni dai fatti di Genova, una legge: senza ulteriori rinvii.

(Il Messaggero, 11 novembre 2016)

Una buona legge è tale se rispetta il senso del limite

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Il primo caso al mondo di eutanasia su un minore non può non suscitare dubbi e interrogativi. In Belgio, dove si è dato il caso, la legge autorizza trattamenti eutanasici, senza porre limiti di età, quando il malato sia affetto da un male incurabile, giunto allo stadio terminale, e la sofferenza patita sia costante e intollerabile. Occorre che siano rispettati, e rigorosamente osservati, tutti i pilastri su cui si regge l’eutanasia legale: non solo lo stato clinico, ma anche una adeguata e completa informazione, e soprattutto l’accertamento della volontà del malato. Ora è chiaro che, nel caso di un minore, è molto più difficile stabilire queste ulteriori condizioni. Il significato stesso dei termini coinvolti nella decisione è molto meno netto di quanto non sia per una persona adulta. Che cosa vuol dire morire? Cosa vuol dire compiere una scelta irreversibile? E cosa l’assenza di alternative? In che modo risponda a queste domande un ragazzo, o un bambino, e quanto la risposta sia meditata, riflessa, matura, è tanto più difficile dire, quanto più bassa è l’età del minore. Certo, la legge belga prevede il concorso dei genitori, oltre ai pareri medici, ma il nodo non resta meno intricato, e anzi delicatissimo da sciogliere: quanto sia individuale, indipendente, autonoma, la volontà del minore, che magari ha vissuto solo pochi anni, per giunta in condizioni di salute particolarmente gravose.

D’altra parte: si possono lasciare i genitori e i loro figli soli e senza strumenti, in situazioni estreme, quando il male avanza, la sofferenza si fa insopportabile, e ogni altra via è preclusa? È vero: la medicina oggi dispone di molti modi per alleviare la percezione del dolore, fino alla sedazione profonda, ma rimane comunque la necessità di decidere, o per alcunidi non decidere, sul modo in cui una vita umana giunga alla sua fine: se in condizioni dignitose, umane, compassionevoli. Chiunque sia stato vicino a un malato terminale sa quanto dura sia la prova a cui egli è sottoposto, e come la morte possa diventare, in certi casi estremi, l’unico sollievo dal dolore, o l’unica maniera di mantenere il rispetto di sé. Che in questa stretta possa trovarsi anche un minore può sembrarci inaccettabile: però accade.

È il più grande degli scandali: che un innocente soffra, e soffra al punto che si spenga in lui persino la volontà di vivere. Ma il bambino è il più innocente fra gli innocenti, e la sua sofferenza è la più scandalosa fra tutte. Ne «I fratelli Karamazov», Dostoevskij fa esprimere a Ivan, il più ‘teologo’ dei fratelli, tutta l’enormità di quella sofferenza inutile: in nessun modo redimibile, in nessun modo riscattabile. La più dura obiezione contro l’esistenza di Dio. Di più: Ivan trova ancor più impensabile che si provi a giustificarla, quella sofferenza, a dargli un senso o una ragione. Gli sembra un’offesa ancora più grande provare a inserirla in un qualunque disegno provvidenziale, misterioso o imperscrutabile che sia. Chi domanda di morire non ha più ragioni per vivere, ma forse non vuole neppure che gliele si presti, che altri gliele forniscano, sottraendogli non solo il diritto di disporre della propria vita, ma anche il diritto di lasciarla fuori, definitivamente fuori da qualunque rete di parole. Logos – parola, discorso, ragione – vuol dire infatti originariamente raccogliere, raccolta. È lo spazioin cui la vita umana, in quanto umana, si raccoglie, viene sottratta a una dimensione soltanto naturale, biologica, per legarsi a quella degli altri: in una possibilità di ascolto e di dialogo, in una narrazione condivisa, in una storiacomune. Chi muore, muore a tutto questo. Chi vuole morire, vuole morire a tutto questo: è giunto in una landa estrema, solitaria, abissale, in cui le parole sono spente del tutto dal dolore, non possono più raggiungerlo, abitarlo, comprenderlo. Non possono spiegare e nemmeno alleviare.

Ma un bambino? Quali sono le parole di un bambino, le sue ragioni e la fine di tutte le sue ragioni per vivere? Come si precisa la sua volontà di sfuggire alla rete del mondo, di dichiarare che non c’è parola – e non c’è cura – che possa ancora sostenerlo nella sua sofferenza?

Noi non conosciamo l’età del minore al quale è stata praticata l’eutanasia. Non sappiamo quale fosse la sua situazione clinica, le sue condizioni di salute. Dobbiamo ovviamente supporre che siano stati rigorosamente rispettate i protocolli previsti dalla legge, condotte tutte le verifiche e seguite tutte le procedure: il fatto che questo primo caso giunga a distanza di circa due anni dall’approvazione della legge dimostra che la legge non banalizza il diritto a morire per un minorenne. Sarebbe perciò una vera iattura se si conducesse la discussione a colpi di paragoni con le politiche eugenetiche del nazismo e il programma di eliminazione dei disabili, dal monte Taigeto, a Sparta, alle sperimentazioni «in vivo» dei medici del Führer. Tutto questo non c’entra nulla. Ma anche il lessico dei diritti e delle libertà individuali – che è il lessico del nostro tempo – deve chiedersi se ha davvero tutte le parole giuste per spingersi in queste difficili zone di confine, in cui non coincidono o non sono ancora tutte formate individualità, personalità e vita adulta e autonoma. Non è un paradosso che molte cose un minorenne non può fare, mentre può – secondo la legge belga – chiedere di morire?

Delicatezza, umanità, ma anche prudenza e senso del limite sono dunque indispensabili per procedere senza inutile baldanza,sia nella discussione pubblica che nella discussione in Parlamento. Solo così, se si farà una legge, potrà essere anche una buona legge.

(Il Messaggero, 18 settembre 2016)

L’idea metafisica del confine

oltreQuando Kant, un filosofo che nessun liceale può dimenticare, mette la parola fine alla sua opera più grande, la Critica della ragione pura, di una cosa è particolarmente fiero, oltre che sicuro: di aver indicato i limiti della ragione umana. Quello che si può sapere, e quello che si può al più pensare (cioè immaginare), ma non certo sapere. Tutto l’illuminismo – del quale in larga parte è figlia la civiltà moderna – è fatto così: tira limiti, stabilisce confini, misura e ordina, mappa territori e ripartisce competenze (e, certo, anche diritti di proprietà). Non è proprio una brutta cosa, ma forse è vero: forse non basta. Il tema di ordine generale che il Ministero ha assegnato contiene un brivido metafisico che a un ragionatore come Kant, campione di razionalismo critico, faceva un po’ paura, ma che è difficile non avvertire, soprattutto intorno ai diciotto anni. Quello che il tema dice a proposito della frontiera, con parola settecentesca Kant chiamava sublime: se ne impadroniranno i romantici, e diventeranno per esempio gli interminati spazi e i sovraumani silenzi dell’infinito di Leopardi. Però il Ministero la butta in politica: e suggerisce al candidato di riflettere sui muri che tornano ad alzarsi in Europa, e sulle guerre che si combattono lungo i confini. Ma il candidato, se è un ragazzo in gamba, e se ha voglia di cucire le cose che legge sui giornali con quelle che avrà imparato a scuola, proverà a far meglio dell’estensore della traccia, e a riflettere sul significato politico delle categorie scomodate nel tema, ma pure sull’emozione metafisica che si nasconde oltre la frontiera, di là dal limite. E nel volto dell’Altro.

(Il Messaggero, 23 giugno 2016)

E il sindaco si prepara a sbarcare a Roma

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Quella di ieri è la seconda vittoria, ma la prima fu un vero sconquasso, e bisogna cominciare da lì per raccontare Luigi De Magistris. Che fu eletto primo cittadino di Napoli il 30 maggio 2011, in un momento di enorme difficoltà tanto del centrosinistra quanto del centrodestra. Per Berlusconi fu l’«annus horribilis», conclusosi con le dimissioni da Palazzo Chigi, in novembre. Per il Pd, di orribili c’erano già state a Napoli le primarie, annullate per sospetti brogli. Il centrosinistra andò al voto con una carta di ripiego, il prefetto Morcone, terzo al primo turno. Al ballottaggio i suoi voti si riversarono quasi interamente sull’uomo nuovo, quello con la bandana arancione, che la sera del voto a braccia alzate griderà: «Avimme scassato tutte cose!».

De Magistris veniva da una breve esperienza come parlamentare europeo. Di quei due anni a Strasburgo si ricorda solo l’enorme numero di preferenze: più di quattrocentomila. L’Italia dei Valori, il partito di Antonio Di Pietro che lo aveva candidato, di lì a poco sparirà dalla scena politica nazionale. Perso il taxi dell’IdV, De Magistris sposa «Rivoluzione civile», il movimento inventato dal pm palermitano Antonino Ingroia nel 2013. De Magistris lo sostiene, ma le elezioni si rivelano un disastro: anche Ingroia finisce dietro le quinte (ora fa l’avvocato).

La vittoria di quest’anno prepara dunque, in prospettiva, il terzo assalto di De Magistris ai palazzi romani.

Lo schema è quello provato all’ombra del Vesuvio: legalità, democrazia, partecipazione. Ma anche: antagonismo dei centri sociali, rivoluzione senza partiti, indignazione sociale, benecomunismo e diritti civili. Luigi De Magistris è un magistrato, che ha lasciato la toga con l’aureola dell’uomo senza macchia che ha osato sfidare i potenti. Dalle sue inchieste non sono venute condanne, ma lui ha sempre sostenuto che è perché gli sono state sottratte. Di sicuro, l’impegno in politica è nato in nome della lotta contro la corruzione e la camorra. Più che servizi pubblici efficienti e buche stradali riempite, De Magistris ha promesso la «liberazione di Napoli», e ora gli piacerebbe esportarla nel resto del Paese. La spina nel fianco sono i conti pubblici: l’economista Riccardo Realfonzo predispose, da assessore, un piano di razionalizzazione delle spese che al sindaco dispiacque assai. Realfonzo si dimise, e il piano non fu mai attuato. Ora Realfonzo giudica fallimentare la situazione del bilancio comunale.

Durante la scorsa consiliatura un momento di svolta però c’è stato, quando il sindaco, condannato in primo grado per abuso d’ufficio (per una storia legata alla sua attività di Pm), per effetto della legge Severino viene sospeso dalle funzioni. Prima ancora della assoluzione che lo ristabilisce nei suoi poteri, lui trasforma la disavventura in una medaglia sul petto. Diviene sindaco di strada, riuscendo a stare, per la gente, fuori dalle stanze del potere pur sedendo a Palazzo San Giacomo.

Infine il colore. Il bell’aspetto, l’aria guascona, l’orgoglio napoletano, una comunicativa diretta, un tratto giacobino e qualche sguaiataggine, una certa dose di meridionalismo rivendicativo e di romantici riferimenti alla rivoluzione zapatista. Il risultato è il voto di ieri. Lui ha sempre detto che i partiti personali non lo riguardano, però ha dato le proprie iniziali al movimento che ha fondato («Dema»). Ci pensava già nel 2011, ci torna a pensare adesso. Dalla procura di Catanzaro, passando per Napoli, provare a sbancare Roma: nell’anno in cui gli oppositori di Renzi tentano tutti insieme lo sgambetto finale, ad allungare la gamba in un tipico fallo di reazione c’è anche Luigi De Magistris.

(Il Messaggero, 20 giugno 2016)

La patria dell’integrazione dove l’Islam sposa la laicità

sadiqkhan.jpgLondra ha fatto di me la persona che io sono oggi: così scriveva Sadiq Khan nel libro che la Fabian Society dedicava qualche anno fa a Londra, «come sarà dopo il 2015». Cioè oggi, quando Sadiq Khan, figlio di un autista di bus, pakistano, di fede musulmana, diviene sindaco della città più cosmopolita d’Europa (stando almeno ai primi risultati). Sadiq Khan era il favorito della vigilia, e in termini strettamente politici la cosa, dunque, non può sorprendere. Probabilmente, darà pure qualche scossone al partito laburista, nel quale Sadiq Khan milita. Ma resta un risultato storico, che la prima città europea, la capitale di un impero che meno di un secolo fa toccava i quattro angoli del pianeta, sarà nei prossimi anni guidata da un immigrato non cristiano di origine asiatica.

Che storia è questa? Una storia che della profezia dello scrittore francese Michel Houellebecq,che ha spaventato i buoni europei,ha cambiato tutti i dati. Non si tratta della Francia, infatti, ma della Gran Bretagna. Non è uno Stato in ballo, ma la guida di una città. E soprattutto non è la fine del secolarismo, della laicità, del progressismo, dell’individualismo liberal-democratico, del libertinismo sessuale e del materialismo ateo: che vengono messi in fila uno dopo l’altro, nel libro di Houllebecq, come se fossero la stessa cosa. Lo scrittore francese ha immaginato, nel suo ultimo, discusso romanzo, Sottomissione, che la crisi, in Francia, del gioco politico strutturato sull’opposizione fra la destra e la sinistra tradizionali avrebbe spinto i partiti repubblicani a sostenere un candidato musulmano contro l’avanzata della destra populista e xenofoba. E l’esito finale sarebbe stato prima la vittoria della Fratellanza musulmana, poi l’islamizzazione della società. Di più: questo esito sarebbe stato in fondo accettato dagli stessi francesi, a cui avrebbe infine fatto comodo rinunciare a un po’ di libertà per ripiegare verso porti più sicuri, dopo decenni di relativismo, nichilismo, anarchia.

«OurLondon», scriveva invece il futuro sindaco Sadiq Khan, tre anni fa, raccontando la sua storia di avvocato e politico di successo, e in quella storia non c’è quasi nulla dei timori di Houellebecq sull’immigrazione che cambia il volto della società europea, fino a sfigurarla, a snaturarla (ea svirilizzarla).

La mia storia, la storia delle opportunità che questa città ha concesso alla mia famiglia, a mio padre e ai suoi figli, raccontava Sadiq Khan, è la storia di ciò che Londra è stata (e può ancora essere): una città aperta, tollerante, multiculturale, dove lavorando duro potevi mettere da parte qualche soldo e costruire un futuro per le nuove generazioni. Sadiq insisteva sulle eguaglianze di opportunità, e domandava: nella Londra di oggi, in cui un milione e mezzo di abitanti – sui due milioni e mezzo che fa questa straordinaria metropoli – vive in condizioni di sotto-occupazione, sarebbe stato possibile a mio padre trovare un lavoro sicuro e stabile, e a me studiare?

Il significato del voto di oggi, se sarà davvero Sadiq Khan a succedere all’uscente sindaco conservatore, Boris Johnson, va al di là delle sfide che la città ha davanti, e su cui il futuro sindaco ha costruito il suo successo: in termini di trasporti, welfare, housing sociale, infrastrutture. Questi sono, né più né meno, i problemi di tutte o quasi le grandi città europee. Un sindaco musulmano, nella città che forse, più ancora di Parigi, di Roma o di Berlino dice che cos’è la civiltà occidentale, indica un percorso di integrazione possibile. Niente muri, niente costruzioni di enclave, niente comunità separate, niente divisioni su basi etniche, religiose o razziali. Ma che questo esito abbia un contenuto sociale, parli ai ceti popolari come alla middle class londinese, non è estraneo all’affermazione di Sadiq.

Certo, le cose, lungo il Tamigi, sono molto diverse da quelle che accadono lungo la Senna o lungo il Tevere. Lo sfondo culturale e storico è profondamente diverso e a Londra indiani e pakistani e sudditi di sua Maestà sono arrivati sotto l’orologio di Westminster da molto più tempo. Occidentale, ma anche atlantica, versata sull’elemento marino molto più di quanto non sia terranea l’Europa centro-orientale, agitata da fantasmi xenofobi. Londra ha una vocazione per l’incrocio di popoli e razze molto più accentuata delle altri capitali europee. Ma il multiculturalismo può prendere strade diverse: può generare il modello Londonistan, in cui la tolleranza produce separazione, comunità chiuse e giustapposte, estranee e potenzialmente nemiche. Oppure può condurre a storie come quelle di Sadiq Khan, storie i cui fili di un’identità si intrecciano insieme, e il laburista, l’europeo, il musulmano e il pakistano stanno tutti insieme nel profilo del nuovo sindaco della capitale del regno di Elisabetta.

(Il Mattino e Il Messaggero, 6 maggio 2016)