Archivi categoria: l’unità

Le due facce di Chomsky

A fine ottobre è stato a Gaza. Per uno nato nel 1928, che l’altroieri ha compiuto  84 anni, i cinque giorni trascorsi nella Striscia non devono essere stati una passeggiata – e d’altra parte a Gaza non si va per passeggiare. Noam Chomsky, forse il più grande linguista del ‘900, è andato laggiù per ben altro: per elevare un durissimo atto d’accusa contro la politica del governo di Israele e denunciare la manipolazione delle informazioni sul conflitto israelo-palestinesi da parte di media compiacenti.

Fa quel che può, Chomsky, senza risparmiarsi mai. Del resto di j’accuse, nel corso della sua vita di attivista radicale, di socialista libertario, il filosofo e linguista americano di origini ebraiche ne ha pronunciati molti. È sempre stato un feroce critico della politica estera «imperialista» degli Stati Uniti, dall’America Latina al Medio Oriente alla lotta al terrorismo, così come dei poteri reali che, nel campo dell’economia come dell’informazione,  impongono di fatto intollerabili restrizioni all’esercizio della democrazia.

pubblicato sull’Unità, 9 dicembre 2012: continua qui

Un anno d’Europa senza Berlusconi

Il 4 novembre 2011 la vita in Italia era la vita di un paese benestante: i consumi non erano diminuiti, i ristoranti erano pieni, i posti di vacanza erano iperprenotati, e l’Italia non sentiva “un qualche cosa che potesse assomigliare ad una forte crisi”. Così disse il presidente del consiglio italiano in conferenza  stampa, nel corso del G20 di Cannes, in Francia. Otto giorni dopo Silvio Berlusconi rassegnò precipitosamente le dimissioni. Altri otto giorni e il nuovo governo di Mario Monti ottenne la fiducia di entrambi i rami del Parlamento. Ora è trascorso un anno: i ristoranti non si sono ancora riempiti, i posti di vacanza non registrano il tutto esaurito, e soprattutto gli italiani avvertono, e come!, un qualche cosa che assomiglia ad una forte crisi. Non solo assomiglia: è una forte crisi. Il Cavaliere disse anche, in quella occasione, che non vedeva in Italia esponenti in grado di rappresentare il Paese. Il 9 novembre il Presidente della Repubblica diede notizia di aver nominato il professor Mario Monti senatore a vita: qualcosa dunque cominciava a vedersi. E, dopo un anno, un certo deficit di rappresentanza del nostro paese in Europa e all’estero è stato forse colmato. È allora per questo che ci siamo liberati di Berlusconi: per presentarci in maniera più decorosa a conferenze europee e summit mondiali?

Anche per questo, sicuramente. Si potrebbero in verità elencare altre ragioni per cui la maggioranza dell’elettorato italiano ha visto con favore la fine di quel governo, ma non v’è dubbio che, fra queste, la ripresa di credibilità internazionale e il recupero di un certo peso politico in seno alle istituzioni europee hanno avuto un ruolo determinante. Ci sono voluti mesi perché smettessimo di parlare di spread sulle prime pagine dei quotidiani nazionali, e in verità ogni tanto, come accade con certi reumatismi che non passano mai, la fitta dello spread torna a farsi sentire, e a ricordarci i vincoli esterni che dobbiamo assolutamente rispettare.

Ma è sufficiente tutto ciò? Può essere il vincolo esterno a scandire le politiche del governo nazionale? Si può essere europeisti per forza, e metterci, in più, solo un certo contegno? Già una volta, in realtà, è toccato all’Italia di essere qualcosa per forza: quando, negli anni novanta, compimmo lo sforzo di star dentro i parametri di Maastricht per partecipare alla costruzione della moneta unica, e il riformismo dei governi di centrosinistra di quegli anni fu, per l’appunto, dettato dalla necessità. O almeno così ci fu raccontato e ci raccontammo. A distanza di anni, e dopo aver ricavato un assai gramo raccolto da quelle decisioni, il punto, forse, non è se fosse vero che quella era la strada giusta, ma se fosse davvero l’unica percorribile, e soprattutto se la si dovesse percorrere proprio perché era l’unica. Benedetto Croce diceva che l’azione umana ha dinanzi a sé un largo spettro di possibilità, in cui compie le sue scelte. Quando però ci si volta indietro, si trova che quelle scelte apparentemente libere erano in realtà imposte da una rigorosa necessità, che è compito dello studioso consegnare all’intelligenza storica dei fatti. A noi accade purtroppo tutto il contrario: guardiamo avanti, e scorgiamo soltanto necessità, obblighi ai quali non possiamo sottrarci. Abbiamo anzi un governo che sembra non volerci ricordare altro. Quando però ci volgiamo indietro, si scopre che, forse, dell’altro si sarebbe potuto fare: altro che tecnica! Spazi di libertà ce n’erano, e decisioni eminentemente politiche sono state prese.

Il fatto è che nessuna politica democratica può affermarsi, se non è in grado di sciogliere al tempo giusto necessità, vincoli, condizioni, in un libero progetto e in una convinta assunzione di responsabilità. Se non è in grado di avere una propria autonoma visione del nesso fra ambito nazionale e ambito internazionale e di proporla al proprio paese come la migliore speranza, piuttosto che come la sola possibilità.

Oggi il centrosinistra italiano è una forza di chiaro stampo europeista. L’unica, probabilmente, viste le pulsioni populiste che si agitano: a destra e non solo.  Su questo terreno, il centrosinistra fornisce dunque le più ampie garanzie ai partner europei. Ma qual è la qualità di questo europeismo? Bastano i certificati di garanzia, o ci vogliono nuove istruzioni per l’uso? Forse non basta dire che vogliamo più Europa, se l’Europa che vogliamo è solo quella che dobbiamo volere. Non basta usare l’europeismo come una ciambella ideologica di salvataggio, alla quale aggrapparci dopo il tramonto di ogni altra visione del mondo. Non basta dire dove non vogliamo finire, se non sappiamo dove vogliamo andare a parare. Non basta nulla, se non c’è modo di far sentire agli italiani qualche cosa che non assomiglia ad una forte crisi, ma ad una forte speranza di cambiamento.

L’Unità, 11 novembre 2012

Partiti non più tradizionali

«I principali partiti tradizionali godono di percentuali sempre più irrisorie», ha scritto Pierluigi Battista sul Corriere, commentando i risultati del voto in Sicilia. Non molto diversamente, Grillo ha ironizzato sui festeggiamenti del partito democratico: forse si attendevano un risultato a una cifra, ha detto. Per dire che c’è poco da festeggiare: continua qui.

Il paradosso delle regole

La modifica statutaria è stata approvata, Renzi può concorrere, Bersani va al tavolo della coalizione a concordare le regole delle primarie, ma tu ora va’ a sapere cosa significa seguire una regola. Roba che occorre una ricerca filosofica per districarne il senso, anzi di più: ci vogliono le Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein. Però Wittgenstein, per fortuna, e per raggiunti limiti di età (è morto), non ha potuto prender parte al dibattito sulle regole. Altrimenti avrebbe avuto infatti qualcosa da dire. Prendete una maestra, avrebbe detto (continua…

L’unità, 7/10/2012

Il rene della politica

“S’i governassi il mondo”: sembra l’inizio di un sonetto di Cecco Angiolieri (“S’i fosse foco arderei ‘l mondo/ S’i fosse vento lo tempestarei”). Oppure un compito in classe per bambini della scuola primaria, esortati a dire come cambierebbero le tante cose brutte che vedono intorno a loro. E invece è il titolo dell’ultimo articolo, apparso la scorsa settimana su «Prospect», del filosofo americano Michael Sandel, in cui sono ripresi i temi del suo più recente best seller: «What Money Can’t Buy». Sandel è abbastanza noto in Italia, ma è soprattutto una vera e propria star nei paesi anglosassoni, dove le sue lezioni sono seguiti da torme di fan che da noi non raccolgono neanche Baricco o Saviano (segue sul blog dell’Unità)

Realismo fuori dalla realtà

Dunque la storia sarebbe andata così: a un certo punto, verso la fine del Settecento, mentre in Europa si sta per fare la rivoluzione, la filosofia compie una «svolta trascendentale», e smette di credere che là fuori ci siano cose. Da allora, alberi o fontane, ciabatte o satelliti non sono più cose, per i filosofi, ma soltanto «dati di senso, fenomeni, apparenze». Sulle prime si continua a credere che le cose sussistano, però invisibili e inaccessibili: di sotto ai fenomeni, al di là delle apparenze, dietro ai dati sensibili. Poi, però, i filosofi si accorgono che li si lascia fare (pochi protestano, il mondo è in subbuglio, le rivoluzioni politiche si accavallano a quelle industriali), e allora tentano il colpaccio… (continua sul blog dell’Unità🙂

L’unità, 23 settembre 2012

Eluana, dibattito senza umanità

Quando suonano a morto le campane delle chiese di Udine, Maria (Alba Rohrwacher) è già lontana, ha già lasciato le amiche e gli altri attivisti riuniti in preghiera dinanzi ai cancelli della clinica “La quiete”, dove Luana Englaro si è spenta. Perché allora non dovrebbero valere per lei le parole rivolte a Pietro: “prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte”? Perché il rintocco delle campane, che invade lo schermo del film di Bellocchio, La bella addormentata, non dovrebbero lacerare la coscienza di Maria quanto il canto del gallo? Ma Maria è lontana per amore. La vita, la passione, la giovane età la portano lontano da dove le sue ragioni e convinzioni l’avevano fin lì condotta, e non importa se sia debolezza o forza, tradimento o buona fede: l’unica cosa che il film dimostra, è che la virtù e il corso del mondo non coincidono mai. Non nell’esistenza di Maria, ma neppure in quella degli altri protagonisti della pellicola, che nel momento decisivo, quando il presidente del Senato della Repubblica Italiana dà in aula la notizia pubblica della morte privata di una ragazza, si trovano tutti un passo prima o un passo dopo l’appuntamento che si erano dati con se stessi, con le loro proprie vite. Bellocchio non ha fatto un film a tesi: ha voluto offrire un grumo di storie che si raddensa negli ultimi giorni della vicenda Englaro intorno a un unico nodo, e all’impossibilità di scioglierlo senza che le esistenze non ne siano toccate, perfino straziate.

Nella vita, non nel Parlamento. Nel Parlamento, il decreto legge presentato il 7 febbraio 2009 dall’allora ministro Sacconi per stabilire con urgenza che “l’alimentazione e l’idratazione, in quanto forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze, non possono in alcun caso essere sospese” doveva contenere la soluzione: fermare il padre di Eluana, impedire che Eluana fosse ammazzata, come gridò il senatore Quagliariello in aula, in una sequenza agghiacciante e memorabile che il film ripropone.

Rivedendosi sul grande schermo, Quagliariello ha osservato giustamente che le storie raccontate nel film, mentre sullo sfondo si consuma la battaglia politico-parlamentare sul decreto Sacconi, non hanno nulla di simile al caso di Eluana: non si tratta in nessuna di esse del problema, posto da Beppino Englaro ai tribunali italiani, di rispettare la volontà della figlia, ricostruita in base a dichiarazioni e testimonianze. Proprio per questo, però, il film è in grado di consegnare alla nostra memoria la collera di Quagliariello come una delle scene madri della vicenda politica italiana degli ultimi anni. E se anche è vero che il film di Bellocchio contiene – come è stato scritto – troppe scene madri per considerarsi perfettamente riuscito, almeno dal punto di vista cinematografico, è anche vero che riesce invece a dirci, senza entrare nel dibattito legislativo sul fine vita, che cosa a quel dibattito, culminato nella stizza rabbiosa di Quagliariello, mancasse per davvero: l’umanità.

Che cos’è l’umanità? Io non saprei dire altrimenti: è la maniera di fare esperienza della morte nella vita, della vita nella morte. La vita e la morte non sono infatti come le due facce di un foglio, l’una in ogni punto opposta all’altra, e dunque destinate a non incontrarsi mai. Per questo non è mai bastato ripetere con Epicuro che quando c’è la morte non ci siamo noi, mentre quando ci siamo noi non c’è la morte, per cui non abbiamo da preoccuparci, dal momento che non la incontriamo mai. Invece la incontriamo. La vita incontra la morte, proprio in quanto è vita umana, e il film accumula situazioni in cui avviene questo incontro, una faccia del foglio si ripiega e si volta nell’altra, come in uno strano anello di Moebius in cui non si può stabilire qual è il recto e quale il verso. Queste situazioni hanno i nomi e le parole dell’amore, e del dolore, e Bellocchio presta ai suoi personaggi un tono a volte un po’ didascalico, o troppo sentenzioso, per distillarne il senso: ma non è vero che l’amore acceca, dice la giovane Maria. E il padre, il senatore Beffardi (Toni Servillo), che si appresta a votare tra molti tormenti in dissenso dal gruppo contro il decreto Sacconi: “il dolore non nobilita l’uomo”.

Mettendo con materiale d’archivio la politica sullo sfondo, il film suggerisce che di questa umanità non vi fu, in quella vicenda, quasi nessuna traccia. Non è un caso che le uniche riprese televisive proposte nel film (oltre a quelle legate a Eluana) riguardano uno straniante documentario sulla vita che gli ippopotami conducono in acqua: una vita-solo-vita, una vita interamente e sordamente naturale, muta come in una specie di acquario e sempre uguale. Ma non è vero che la vita e la morte rimangono uguali, come cantava Gucccini: rimangono tali solo se la vita viene fissata come nuda vita di contro alla morte, e la morte non viene vissuta come un’esperienza umana, di cui è possibile appropriarsi (se si è laici) o in cui (se si è credenti) è possibile affidarsi.

Ma non è vero neppure, ed è l’unico appunto che vorremmo muovere al film, al di là del suo valore estetico, che la politica è solo una commedia macabra e farsesca, e che l’unico politico serio è quello che si dimette e lascia lo scranno di senatore, invece di urlare rancoroso in Parlamento. Anche la politica ha una sua nobiltà. Che può ritrovare, se rinuncia a far coincidere il corso del mondo (magari con la forza di una pretestuosa decretazione d’urgenza) con le nostre esacerbate virtù, e prova invece ad alleviare il peso della loro mancata coincidenza nelle vite di ognuno di noi, mettendolo in un destino comune.

L’Unità, 9 settembre 2012

Se i mercati sono contro il popolo

Ieri Angela Merkel deve essere passata di buon mattino dal birraio. O dal macellaio, non so. E lì deve aver scoperto che aveva ragione Adam Smith: non è dalla generosità dell’uno o dell’altro che poteva sperare di ottenere la merce, ma della valutazione che essi fanno dei loro propri interessi. Fatta questa sorprendente esperienza, posato il boccale di birra e messi nella sporta della spesa i galletti amburghesi, ha accusato non i birrai e i macellai bavaresi, ma i mercati, di non essere al servizio del popolo.

Forse, prima della giornata trascorsa ad Abensberg, in Baviera, la cancelliera pensava che tuttavia il mercato, con la sua famosa mano invisibile, avrebbe fatto in modo da far incontrare in maniera ottimale gli interessi del venditore e del compratore. Forse lo pensa tuttora, e ritiene che solo i mercati finanziari siano privi del fortunato ausilio della mano invisibile: sta di fatto che sembra venire a nuova consapevolezza, nella Merkel e forse nei governanti europei, che qualcosa tocca fare pure a loro.

È, infatti, un sillogismo di facile comprensione: se i mercati non sono al servizio del popolo, e se in democrazia, dove il popolo è sovrano, qualcuno al servizio del popolo deve pur starci, e preferibilmente i suoi rappresentanti, allora la cancelliera Merkel non può esimersi dal prestare lei quel servizio che i mercati non prestano, e con lei non possono esimersi dal prestarlo tutti gli altri governi dell’Unione.

I mercati, per loro conto, non solo non stanno al servizio del popolo, ma non stanno al servizio di nessuno. Sono organizzazioni di una razionalità puramente formale, si sarebbe detto una volta: regolano lo scambio, disinteressandosi di ragioni e fini dello scambio. Né lo si riesce a vedere un agente di borsa, un investitore, un broker assicurativo prendere il fiato prima di compiere un’operazione finanziaria, contare lentamente fino a dieci, quindi chiedersi pensoso: “ma questa transazione a molti zeri farà il bene del popolo? Dopo che avrò realizzato la mia brava plusvalenza, e sistemato le cose da qualche altra parte nel mondo per pagare meno tasse, com’è nel mio interesse, i miei concittadini staranno meglio di prima?”, e poi, valutati in coscienza i pro e i contro, decidere di conseguenza. Anche perché chi siano i concittadini dello speculatore che sposta capitali da una parte all’altra del globo non è facile dire.

Però Angela Merkel ieri, in un soprassalto di consapevolezza, se n’è accorta. Passi per il birraio, passi per il macellaio, passi pure per il panettiere – sono gli esempi di Smith, il quale, benché potesse vedere i progressi dell’economia inglese non poteva certo immaginare attività economiche molto diverse da queste – ma quando si tratta di massicci movimenti di capitale (e non di poetici battiti d’ali di farfalla che provocano tornadi all’altro capo del mondo) non si può lasciar fare al mercato. I mercati non hanno “spirito sociale”. Ed è così: non solo non ce l’hanno, ma non possono né vogliono averlo. E non glielo infondi nemmeno con ardite operazioni ideologiche con le quali ti inventi che è cosa buona e giusta che chi si è indebitato resti impiccato alla corda acquistata presso il creditore, oppure che l’unica salvezza è comprimere i salari, ridurre la spesa, tagliare i servizi, e sperare che quelli, i mercati, si impietosiscano e ti diano fiducia perché hai dimostrato buona volontà, rigore e austerità (distruggendo nel frattempo quote importanti di ricchezza nazionale).

Ma lo spirito sociale è come il coraggio di don Abbondio: se i mercati non ce l’hanno, mica se lo possono dare. Perciò siamo di nuovo a Angela Merkel, ai governi europei, alle responsabilità politiche dell’Unione: loro, uno spirito sociale ce l’hanno oppure no? Se ce l’hanno, è l’ora di dimostrarlo.

L’Unità, 4 setembre 2012

Il dialogo è scomodo. Ma senza dialogo siamo più poveri

Ma il cristianesimo è vero o no, in punta di fatto? La domanda non sembra proprio che possa essere aggirata, se è vero quanto diceva San Paolo ai suoi fratelli in Cristo: “Se Cristo non è risorto vana è la vostra fede”. Tutto ruota intorno alla resurrezione di Cristo. Hai voglia quindi a imbastire dialoghi fra credenti e non credenti, istituire cattedre, scrutare i segni dei tempi, o sforzarsi di capire le ragioni degli altri: alla fine bisogna tornare al punto, e chiedersi se Cristo sia davvero risorto oppure no.

Eppure non va così: non solo per il cardinale Martini, che al dialogo con i non credenti ha dedicato una parte fondamentale e insostituibile del suo impegno pastorale, intellettuale e spirituale, ma, oso dire, addirittura sulle strade del Vangelo. Lì, infatti, ad un certo punto, Cristo risorge. Così almeno narrano gli evangelisti. Secondo il racconto di Luca, Gesù apparve dopo la morte a due discepoli, in viaggio verso Emmaus, e camminò a lungo con loro. Senza essere riconosciuto ne ascoltò i discorsi, li interrogò, apprese così da loro stessi la delusione per la morte del Maestro e la confusione in cui erano stati gettati dalla scoperta del sepolcro vuoto. Allora Gesù interpretò per loro le Scritture, mostrando come esse si riferissero ovunque a lui come al Messia.

Ma non bastò. Non accadde nessuna rivelazione. Giunti al villaggio, Gesù fece come se dovesse proseguire il cammino, e solo dietro l’insistenza dei compagni di viaggio accettò di fermarsi a cena. E fu, allora, l’ermeneutica del gesto eucaristico, lo spezzare il pane ed il versare il vino, ad aprire finalmente gli occhi dei discepoli.

Orbene, io non sono un teologo né un biblista, ma voglio avventurarmi ugualmente nell’interpretazione di questi versetti, e provare a pensare che in essi si può trovare una buona ragione per dialogare e discutere anche quando non sia riconosciuta e stabilita preliminarmente e per tutti la stessa verità prima e ultima. Come non pensarlo, da parte almeno dei credenti, se persino Cristo risorto, nel Vangelo, non si impone con la forza dell’evidenza, ma prende la via del dialogo e dell’ascolto? Come non pensarlo, se alla fine della giornata Gesù accetta il rischio di aver discusso inutilmente, e fa per rimettersi in viaggio, con buona coscienza e senza rancore (immagino), e soprattutto senza aver ancora dimostrato se stesso e la verità? E come non pensarlo, da parte dei non credenti, che non possono certo dire, in prima persona, di essere la via, la verità e la vita, e non hanno dunque altro che le parole per mettere in comunione il vero?

Quando Carlo Maria Martini istituì in Milano la cattedra dei non credenti, sia da parte cattolica che da parte laica si ebbe quasi un moto di fastidio per questa tenace propensione al confronto, per una ricerca tesa, rigorosa e insieme aperta,  di possibili motivi comuni, che, a giudizio di quei severissimi censori, finiva col mettere da parte la pietra di inciampo decisiva, cioè la resurrezione di Cristo e insomma la verità della religione cristiana. Come se riflettere sul significato storico, culturale o antropologico della religione e delle religioni, oppure discutere di morale cristiana, morale laica, morale naturale, o ancora interpretare simboli e significati dell’esperienza umana del mondo e interrogare la costituzione filosofico-politica della modernità rappresentasse solo una perdita di tempo, fosse colpevolmente elusivo o costituisse comunque un modo di togliere dal tavolo la questione fondamentale. Che doveva essere e rimanere, nuda e cruda, la pretesa di verità della Chiesa. Altro che dialogo: da parte laica si manifestava chiaramente, in questo modo, l’ambizione di inchiodare i cristiani, e ancor più i cattolici, all’irrazionalità e finanche all’assurdità dei loro dogmi; da parte cattolica si protestava invece contro gli indebolimenti, i relativismi, i revisionismi e insomma tutte le aperture del cardinale. Vale a dire: tutto quello che si può dire lungo la via, prima che si faccia sera e si accetti o meno l’invito a restare a cena.

Eppure la Gaudium et spes  formulava espressamente agli atei l’invito a “voler prendere in considerazione il Vangelo di Cristo con animo aperto”. Il cardinale Martini fece lo stesso, e con lo stesso animo. Ancora: la Gaudium et spes giudicava l’ateismo uno dei fenomeni più preoccupanti del nostro tempo, ma offriva anche il riconoscimento che la civiltà moderna non è tale per essenza. E dunque: ora che stiamo assistendo all’esaurirsi della vena postmoderna, non sarebbe cosa assai importante riprendere il filo di una riflessione sul significato della modernità, su cosa mai essa sia o sia stata per essenza? E non sarebbe utile che credenti e non credenti continuassero a farlo insieme, discutendo e dibattendo fino a sera, nello stesso spirito di Carlo Maria Martini?

I passeggini e il senso della politica

È già improbabile che vi troviate a fare due passi con Catherine Millet, l’autrice dello scandaloso «La vita sessuale di Catherine M.», figuriamoci se vi potrà mai capitare di farlo mentre spingete avanti un passeggino. Peccato, perché è la situazione ideale per fare due chiacchiere con un venditore d’almanacchi il quale, dopo aver notato che non esistono più le mezze stagioni, che sono tutti ladri e che però suo figlio è in gamba, sicuramente passerà a lamentarsi di questi nostri tempi scettici e relativisti, in cui più nessuno crede a nulla, i veri valori non contano più e non c’è un ideale o un senso da tutti condiviso.

A quel punto, voi non avreste dovuto fare altro che pregare Catherine, che ci ha scritto su un paio di paginette, di parlare dei passeggini di oggi. Perché i passeggini di oggi non sono come quelli di ieri: hanno o possono avere in più un nome, una targa, sei o otto ruote, freni a disco anteriori, manubrio ergonomico regolabile in altezza (per tutelare la schiena del conducente), telaio superaccessoriato, imbotitture, cappottine e altro ancora. In breve: tutto quello che serve per soddisfare le ansie di salute, sicurezza e competitività dei genitori, e tracciare così un profilo ideologico abbastanza preciso dell’uomo contemporaneo.

Al venditore che non trova più un senso in quello che fa basterà dunque far osservare le cose che gli stanno intorno, che sono piene zeppe di connotazioni di senso, solo che tali connotazioni sono inavvertite, anche se non nascoste, e subìte, anche se non imposte. Il che vuol dire anche che sono assai coriacee, e difficilmente modificabili: non sarà, infatti, rifiutando di andare a spasso coi passeggini (e con Catherine Millet) che le cose cambieranno. Fuor di metafora: se è vero che le litanie postmoderne sulla fine del senso, la fine delle ideologie, la fine della storia e via finendo hanno stancato, è vero pure che non basta far la critica della modernità semplicemente chiamandosene fuori. Un altro mondo, insomma, non è possibile, se non si comincia a cambiare un po’ questo nostro mondo.

Il senso infatti c’è, ed è nelle cose e in mezzo a noi. Solo che tanto poco lo riconosciamo, tanto poco è nostro, quanto poco lo elaboriamo in comune, limitandoci ad assumerlo inconsapevolmente.

Il fatto è che i significati che intessono le nostre storie, singolari e collettive, non risiedono mai in menti individuali: e non perché non siamo bravi o capaci a farceli stare dentro, ma perché proprio non ci stanno: non sono fatti per stare «nelle» teste, ma per stare «tra» le teste. Non sono cioè pensieri privati, stati mentali individuali o rappresentazioni meramente soggettive. Per questo un grande studioso di psicologia, James Gibson, invitava a guardare non a quello che abbiamo dentro le nostre teste, ma a quello dentro cui le nostre teste stanno.

Ma se è così, se il senso ha una costituzione intimamente pubblica, come non chiederci allora che cosa comporta quel fenomeno massiccio che è oggi la deformazione (a volte, più bruscamente, la privatizzazione) della sfera pubblica – a cui non infrequentemente corrisponde un’altra deformazione eguale e contraria, cioè la pubblicizzazione della vita privata? Non si tratta solo di lamentarsi dell’una e dell’altra, come poveri venditori di almanacchi, anche se di motivi per lamentarsi ne abbiamo: tanto è scandalosa la commistione di interessi privati nella gestione della cosa pubblica da un lato, quanto è indecorosa l’ostentazione pubblica dei propri personali piaceri dall’altro. Grazie a qualche governo Berlusconi, la seconda Repubblica ha mostrato egregiamente come si possano avere insieme entrambe le cose. Ma più in profondità si tratta di vedere che, per questa via, rattrappiscono in generale le condizioni (linguistiche, sociali, finanche materiali) alle quali soltanto è possibile qualcosa come la costruzione in comune di un senso condiviso. Al solito venditore d’almanacchi che si chiede dove mai sia più un senso, visto che c’è stata la secolarizzazione, la demitizzazione, la deideologizzazione, il disincantamento del mondo e non so cos’altro, si può dunque rispondere che il senso nessuno ce l’ha non perché ormai siamo tutti scafati, perché Dio è morto, Marx pure e la Millet non viene a passeggio con noi, ma perché il senso è una roba che si costruisce insieme, e che dunque richiede certe condizioni: una vita sociale articolata in corpi intermedi, un minimo di uguaglianza e di pari dignità, partecipazione politica, luoghi pubblici in cui una comunità può riconoscersi e rappresentarsi, e così via.

Chiacchierando con un venditore, la si può pure buttare in politica: lui chiederà che cosa pensiamo dei tecnici, e noi, che stiamo ancora mani al passeggino, gli potremo mostrare l’ipermoderno oggetto tecnico per chiedergli se a lui va bene o no che il senso ce lo ammanniscano solo i produttori di passeggini, ben assistiti dall’ufficio marketing. Poi, finita la passeggiata, ci saluteremo, con l’augurio di ritrovarci ancora insieme.

L’insostenibile leggerezza del web

Nel 1969, Vaclav Havel, il futuro presidente della Repubblica ceca, prese carta e penna e scrisse un lungo articolo per criticare in maniera decisa lo scrittore Milan Kundera, che non era ancora l’autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere né era in odore di Nobel (com’è ora, meritatamente), ma era già uno degli intellettuali più famosi del paese. Ma perché parlarne oggi, visto che non cade nessuna di quelle ricorrenze grazie alle quali la storia fa capolino sui giornali quotidiani? Ve lo dico fra un momento, prima la critica di Havel.

Dunque: si era all’indomani del ’68, e Kundera aveva scritto un articolo sul destino delle piccole nazioni come quella cecoslovacca, in cui spiegava che a differenza delle grandi nazioni, le quali stanno in piedi e hanno un posto nella storia anche solo grazie al numero, le piccole il loro posto lo debbono conquistare. Secondo Kundera, con la commovente esperienza della primavera di Praga il popolo ceco aveva conquistato quel posto agli occhi del mondo intero.

Ora, Havel non intendeva certo negare il valore di quella stagione. Ma sul significato, e soprattutto sul modo di conservarne la memoria, aveva di che polemizzare. Per lui, infatti, non era ancora il momento (e forse non è mai il momento) per rivolgersi al passato con l’attitudine di chi lo celebra, considerandolo definitivamente chiuso e sigillato. Probabilmente, la stessa idea di un “destino ceco”, innalzata da Kundera, doveva spiacere ad Havel. Sicuramente non lo trovava d’accordo, anzi lo indispettiva, così come lo indispettiva lo scetticismo e l’elegante disincanto di Kundera, l’atteggiamento di inerzia politica che grazie a una vena di patriottismo esonerava da un confronto critico col presente.

Questo caso da manuale di considerazione sull’utilità e il danno della storia per la vita nascondeva in realtà anche una piega personale, che è spuntata fuori oggi. Nessuno più si appassiona alle vecchie discussioni sull’impegno politico, e anche se si ammira il coraggio di Havel, disposto a finire in carcere per le sue idee, non si censura certo la scelta di Kundera, poco propenso a mettere la propria poetica a servizio di battaglie politiche o ideologie di partito. Questioni vecchie, che si ha qualche pudore a riproporre oggi. Ma oggi, dicevo, una cosa è saltata fuori: come ha raccontato su Le Monde Pierre Assouline, Milan Kundera ha proibito a Gallimard, l’editore francese delle sue opere, di distribuirle e commercializzarle su un supposto diverso da quello cartaceo. Non vedremo mai L’immortalità o L’identità in formato e-book, insomma (non, almeno, per volontà dell’autore).

In fondo, ce lo si poteva attendere. Ne Lo scherzo, il primo romanzo di Kundera, allo studente Ludvìk tutto capita per aver scritto su una cartolina una spiritosaggine, che agli occhi dell’autorità nelle cui mani era finita aveva preso tutt’altro senso, precipitando il giovane nella disgrazia.  Cercando di scongiurare cambi di destinazione o di fruizione ai suoi scritti, Kundera spera forse di evitare che il futuro giochi ai suoi libri brutti scherzi. Nobile ma vana impresa: già Platone, che per questo si rifiutò di mettere per iscritti i suoi pensieri più reconditi, sapeva che non c’è modo di sottrarre la scrittura al suo destino di erranza.

Ho parlato sopra di opere edite da Gallimard e ho sbagliato. Perché Gallimard non ha pubblicato le opere di Kundera, al plurale, bensì l’Oeuvre: l’opera, al singolare. Una certa tendenza alla monumentalizzazione del passato era dunque evidente già l’anno scorso, quando è apparso il volume di Gallimard. Per giunta, privo degli apparati critici che fanno la fortuna di filologi e critici letterari. Kundera non ha voluto neanche questo, non sopportando l’idea che la sua opera potesse essere affidata ai sezionamenti della critica, tanto quanto oggi non sopporta che sia sbocconcellata dalle nuove possibilità di lettura offerte dalla fruizione digitale.

Un estrema difesa del libro, insomma, e delle biblioteche di carta, contro i taglia e incolla di tablet e computer. Nell’epoca della digitalizzazione del mondo, una difesa disperata. Utile forse a richiamare l’attenzione sulle sorti del principale supporto di formazione della civiltà europea degli ultimi mille anni o quasi – il libro, appunto – ma non certo a metterlo al riparo dalle sue inevitabili trasformazioni.  Che sopravviva o no, e in che forma, non sarà infatti il gesto di Kundera a deciderlo. D’altronde, è una storia che si ripete, a ogni nuovo progresso delle tecniche di riproduzione. Anche il grande tenore Caruso, a suo tempo, rifiutò di registrar dischi. Salvo cambiare idea, quando gli arrivò una proposta di contratto assai cospicua. Certo, non è la stessa cosa sentirlo registrato, ma, a parte il fatto che la musica dal vivo non è scomparsa, ben difficilmente si può pensare che ascoltare un disco sia esperienza di nessun valore.

Orbene, non so se sia vero quanto diceva Robert Musil, che non si può mettere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno: non so dunque se l’opera di Kundera sarà danneggiata da una simile scelta. Forse no, forse ha raggiunto uno status tale, che non sarà l’indisponibilità elettronica (ma fino a quando?) a comprometterne la circolazione. Sospetto però che qualche ragione Havel l’avesse quando al giovane Kundera rimproverava di chiudere troppo in fretta le pagine della storia, consegnandole luttuosamente al destino. Come quelle della storia, Kundera ora chiude discutibilmente anche le pagine dei suoi romanzi, e stavolta indispettisce i posteri.

(Quanto invece al destino di piccole e grandi nazioni, di piccoli e grandi popoli, la cosa è fuori tema ma io ne approfitterei per rifletterci su, in tempi in cui la costruzione europea traballa, perché proprio non mi auguro che le riflessioni sopra i piccoli Stati e il destino che occorre loro in tempi di crisi tornino anch’esse di attualità).

L’Unità, 22 luglio 2012

La democrazia contro la paura

Di tante maniere per amare la democrazia ce n’è una che è la migliore di tutte, ed è quella di considerare pregi i suoi presunti difetti. Perché la democrazia di difetti ne ha: uno vorrebbe che venissero eletti ogni volta i migliori, i più preparati, i più incorruttibili, ma nella conta dei voti queste qualità non sempre spiccano e alla fine le cose non vanno proprio così. Uno si augurerebbe sempre il trionfo della verità, e invece la democrazia fa dell’opinione la regina del mondo. Uno vorrebbe infine un po’ di stabilità, di sicurezza, di lunga durata, e invece la democrazia costringe periodicamente i cittadini al rito elettorale, affida la vittoria ora agli uni ora agli altri, rovescia i governi, e cambia volentieri i rappresentanti del popolo.

Ora, se vogliamo far nascere davvero dalle ceneri della crisi un’Italia migliore, è forse venuto il momento di dire che tutto questo non è una iattura, ma una fortuna. Che la democrazia scommette sul  cambiamento, ha fiducia nel futuro, mette in gioco ogni volta le sorti del paese perché confida che il paese saprà scegliere, magari imparando dai suoi errori. Lo fa non perché suppone cinicamente che la verità non esiste, e allora tanto vale fare la conta dei voti, ma al contrario va sempre nuovamente ricercata, e per questo è meglio farlo tutti insieme.

In verità, non c’è bisogno di filosofeggiare per capire l’importanza politica delle parole del premier Monti. Ieri il premier ha detto che esclude di guidare il governo anche dopo il 2013. La parola torna ai cittadini, la politica si riprende il suo spazio, e, com’è giusto, conduce la sua giusta (possiamo dirlo?) lotta per il potere. L’esperienza del governo Monti è stata ed è importante, al di là (anche se è sempre difficile andare al di là) delle cose buone e delle cose meno buone fatte o da fare. Ma è ancora più importante l’esperienza alla quale il paese si consegnerà con le elezioni politiche. Che non sono un ostacolo, un fastidio o un ingombro, ma un’occasione, anzi l’unica vera occasione per mettere davvero il Paese su una nuova e più fruttuosa strada. Scegliendo, e investendo con convinzione sul valore della propria scelta.

Per questo, se è grande la responsabilità che il premier sta portando in questi mesi, aiutando l’Italia e l’Europa a tirarsi fuori dalla più grave crisi nella quale s’è mai potuta cacciare, ancor più grande sarà quella che porteranno i partiti in campagna elettorale.

E se lo spread, allora, salisse? E, peggio: se qualcuno usasse, se non ha già usato, questo argomento per comprimere gli spazi della democrazia, i luoghi della critica, le possibilità di cambiamento? In quel caso gli si ricorderà quel che la democrazia deve sempre ricordare, per tenere in pugno le ragioni della sua legittimazione, cioè che essa è nata per sconfiggere l’uso politico della paura, di cui quell’argomento è soltanto l’ultima versione. Monti lo sa, e non ha inteso usarlo, né ha inteso sequestrare il futuro al paese. Sta ai partiti, e in primo luogo al Pd, indicare come intende disegnarlo. Come si fa a giocare la speranza contro la paura, la fiducia nel meglio contro il timore del peggio. Che se poi lo spread salisse davvero, salisse ancora (come se poi finora fosse sceso precipitevolissimevolmente), beh: sarebbe una buona ragione per farle subito le elezioni, non certo per rimandarle o per preconfezionarne l’esito.

L’Unità, 11 luglio 2012

Tagli, il filosofico paradosso

Data la situazione non era possibile fare altrimenti, si dice. E sul filo di simili, amare constatazioni si prova a mandar giù il nuovo pacchetto: dopo l’Imu, le pensioni , la riforma del lavoro. Non è la stessa cosa, ci viene spiegato: finalmente si tagliano sprechi e inefficienze, enti inutili e spese fuori linea. Ma il fatto è che fuori linea ci sarebbero pure ospedali, istituti di ricerca, enti locali. Mentre però un buon numero di giornali si dedica al genere della ritrattistica, elogiando le affilatissime  mani di forbice del grande risanatore, il supertecnico Enrico Bondi (c’è sempre un tecnico più tecnico di te che prende le decisioni al posto tuo), si chiede ai partiti di fare il favore di spiegare al colto e all’inclita (cioè all’elettorato) che, per l’appunto, data la situazione, non era possibile fare altrimenti. Quando si dice che il governo è tecnico ecco dunque quel che si intende: è tecnico quel governo che prende decisioni che passano per le uniche possibili, decisioni che sono sempre quelle che i partiti non saprebbero prendere se toccasse loro, e di cui tuttavia i partiti medesimi devono accollarsi la responsabilità. Ma, data la situazione, come si potrebbe fare altrimenti?

Sia pure. Ma ci sarà un giorno, un’ora o un momento in cui, a proposito di responsabilità, ci si potrà fermare a riflettere, per domandare: già, d’accordo, ma se questa è la situazione data, chi è che ce l’ha data questa situazione? I fatti sono fatti, va bene; e contro i fatti è inutile sbattere la testa. Ma di nuovo: qualcuno li avrà pur fatti, codesti coriacissimi fatti!

Nel corso del Novecento, secolo grande e terribile, l’umanità si è più volte cacciate in situazioni difficilissime, a confronto delle quali la crisi di questi anni è poco più di un buffetto su una guancia. In mezzo a quei frangenti, una certa intellettualità, quella che si diede il compito di mandar giù simili situazioni, o almeno rendere onorevole la sconfitta di fronte ad esse, trovò il modo di inventarsi un’etica della situazione, per decretare che, per l’appunto, la situazione è data e null’altro c’è da fare se non accettarla.

Nessun paragone è possibile, naturalmente. Se non, forse, per mettere in luce quel che nel corso di quello stesso secolo anche si è affermato, distante tanto da una cultura ineluttabilmente  tragica quanto da una cultura irresponsabilmente tecnica: dico una cultura progressista, critica, democratica, per la quale le situazioni non sono mai semplicemente date e la decisione non può mai consistere semplicemente nel prendere atto. Dentro questa tradizione politica e culturale la questione non può mai essere una soltanto, e cioè: “quali sono i dati?”, ma tocca sempre chiedersi anche come sono dati, chi li ha dati, e perché.

Ad esempio: la situazione in cui il governo ha condotto la spending review e preso severe misure di riduzione della spesa è una situazione di crisi, che minaccia la stabilità finanziaria della zona euro, e in particolare il nostro paese, a causa dell’elevatissimo debito pubblico (che però non è una novità di questi giorni, e non è neppure da intestare indifferentemente a tutti i governi di vario colore succedutisi negli ultimi anni: un conto insomma è stato Berlusconi, un altro il centrosinistra). Ad ogni modo:  lo spread sale, questa è la situazione data. Ora però: chi ce l’ha data? Ovvero: da dove viene l’attuale (dis)ordine finanziario? Da lontano: dalla fine di Bretton Woods, dagli eurodollari, dal sistema monetario europeo, dalle misure di deregolamentazione de mercati finanziari, infine dalla creazione di un’area monetaria senza adeguato sostegno politico. In breve: da una serie di responsabilità politiche precise. E a tal proposito, per stare solo all’ultimo tratto di questa storia, inaugurato a Maastricht: quella insopportabile Cassandra di Wynne Godley, grande economista inglese di recente scomparso, ebbe a scrivere sulla London Review of Books – nel ’92: ben vent’anni fa! – parole che si sono poi rivelate terribilmente vere: se un paese non ha più il potere di svalutare la propria moneta, o non beneficia di un sistema di perequazione fiscale (altro che fiscal compact!), allora nulla potrà arrestarne il declino. E aggiungeva, più o meno: capisco la Thatcher, capisco gli inglesi che di fronte alla prospettiva di una perdita di sovranità monetaria preferiscono scendere dal treno della moneta unica. E capisco anche i federalisti, che puntano invece a una federazione europea e a un vero bilancio federale. Quello che proprio non capisco è come si possa puntare alla moneta unica senza dotarsi di istituzioni adeguate (a parte la banca centrale).

Certo, uno potrebbe dire: avranno pure avuto ragione le poche Cassandre che si sono ascoltate in questi anni, ma ora che la frittata è fatta?  Ora che la frittata è fatta non sarebbe male rileggere tutto intero l’articolo di Goodley. Perché lì c’è scritto anche da quale insieme di idee è nata la frittata. E precisamente: della convinzione che i sistemi economici moderni  sono capaci di autoregolarsi. Se è così,  l’idea stessa di una politica economica appare superflua. Anzi:  è persino dannosa. Sentite Goodley: si tratta di una versione cruda ed estrema del punto di vista che da qualche tempo ha costituito il pensiero prevalente in Europa, che cioè i governi non sono in grado di raggiungere nessuno dei tradizionali obiettivi di economia politica, come la crescita e la piena occupazione, e perciò non dovrebbero neanche provarci.

Se questa è la situazione, ai tecnici non resta altro che affilare le forbici della spending review. Ma è questa la situazione? Davvero non c’è dato altro? E soprattutto: non ci sono date altre idee?

L’alleanza e le pulsioni populiste

È stato detto che il populismo esprime, sia pure in modo distorto, un’esigenza di partecipazione che i meccanismi istituzionali della democrazia rappresentativa non riesce più a soddisfare. Può darsi sia così. Ma in tal caso credo sia giusto prendere un po’ di fiato e poi obiettare con il più classico degli: “embé?”. Visto che per i populisti i ragionamenti sono sempre troppo intellettuali, troppo sofisticati, troppo pieni di distinzioni e parole difficili, immagino che la mia obiezione sarà apprezzata. Ma posso comunque provare ad articolarla meglio.

E cioè: nelle pulsioni populiste che percorrono le società contemporanee (non solo l’Italia) ci sarà pure del buono, anche se si esprime in modi decisamente meno buoni. Si tratterà pure di forme inedite di cittadinanza attiva, che, trovando ostruiti (oppure inutilizzabili) i canali tradizionali di espressione della volontà politica, assumono modalità diverse, più immediate e meno paludate. Resta vero tuttavia che regole e istituzioni del gioco democratico sono essenziali e dobbiamo averne cura. Perciò direi: grazie per la precisazione sociologicamente corretta, nessuno demonizzi nessuno, ma lasciateci ancora compiere lo sforzo di mettere la politica nelle forme richieste da una democrazia parlamentare, con il senso delle istituzioni e dello Stato che ciò richiede, con il profilo di una forza di governo consapevole di impegni e responsabilità nazionali e internazionali, e, da ultimo, con la consapevolezza di dover costruire un futuro possibile per questo Paese. Pigiare ossessivamente il pedale della contrapposizione fra partiti. Istituzioni, professionisti della politica, élites, caste e via denigrando da una parte e, dall’altra, il popolo o la gente di cui i movimenti populisti sarebbero diretta e genuina manifestazione, non è accettabile. Tanto meno lo è quando a rendersene protagonisti sono politici con ultradecennale esperienza alle spalle. Ma tant’è.

Lo schema di Bersani, ad ogni modo, discende da questo ragionamento. Che non è l’unico possibile, ma è quello proposto dal Pd. Il patto tra progressisti e moderati si inserisce infatti in questa delimitazione del campo di gioco, che ha una precisa linea di demarcazione nel rifiuto degli argomenti populisti contro l’Euro, contro le tasse, contro gli immigrati, contro il finanziamento pubblico ai partiti, contro i parassiti del pubblico impiego e, a detta del suocero di Grillo (se capisco), pure contro i sionisti cattivi.

Naturalmente, ci sarà sempre un populista come il comico genovese che traccerà una divisione diversa: fra il Palazzo e i cittadini, fra i partiti incistati nelle istituzioni e movimenti al fianco dei cittadini tartassati, ma sarà, per l’appunto, la rappresentazione di un populista che lucra su questo schema.

E oramai Di Pietro deve decidere se intende adottarlo oppure no. Se infatti si torna a discutere di alleanze non è per l’inguaribile deriva politicista dei partiti, ma per i pencolamenti dell’IdV, che non ha ancora chiaro se deve inseguire Grillo e gridare più forte di lui, o se accetta invece la proposta politica del Pd. E, cosa curiosa, sembra non averlo chiaro neppure Vendola. Il quale ovviamente ha tutte le ragioni di chiedere di discutere con il centrosinistra di contenuti e programmi, ma deve pure mostrare qualche preoccupazione per l’agibilità dello spazio politico in cui quei programmi dovranno essere realizzati.

Vendola tituba, Di Pietro si spolmona, il tutto perché Bersani sembra avere occhi solo per Casini. Ma non mi pare che le cose stiano così. Stanno anzi al contrario: invece di avere occhi per il proprio posizionamento presso l’elettorato, preoccupati del crescente consenso dei grillini, bisogna che la strana coppia scommetta su una nuova stagione della democrazia italiana e sulla ricostruzione civile del paese, piuttosto che sulla maniera in cui approfittare della fine poco gloriosa della seconda Repubblica. Lascino a Grillo e a suo suocero il compito di fare di tutte l’erbe un fascio. Alla fine, si scoprirà che i più legati al passato, al berlusconismo e all’Italietta sono proprio i nuovissimi populisti: urlatori quando si parla di quel che è stato, privi di voce quando si tratta del futuro.

L’Unità, 1° luglio 2012

Destra e sinistra esistono, spaesato chi voleva andar ‘oltre’

N el paese nel quale non esistono la dwestra o la sinistra, o perlomeno: nel paese in cui per anni si è provato a difendere l’idea che destra o sinistra non esistono, e cioè nel nostro paese,  la sentenza con la quale il tribunale di Roma ha chiesto alla Fiat di assumere a Pomigliano 145 lavoratori iscritti alla Fiom viene commentata così: «Siamo un Paese dove può succedere di tutto, compreso il fatto che il potere giudiziario possa imporre un imponibile di manodopera ideologizzata». Non so se è chiaro: la Fiat esclude sistematicamente i lavoratori iscritti a un sindacato, e quando un giudice fa notare la cosa, Maurizio Sacconi, ex ministro del Welfare, riesce a dire che è tutto il contrario, è il potere giudiziario (non il tribunale, un giudice, la magistratura, no: il potere giudiziario) ad infiltrare la fabbrica con operai comunisti.

Tuttavia, non esistendo la destra e la sinistra, visto che il campo politico è permanentemente in corso di ristrutturazione e intanto abbondano leader nuovi e opinion maker vecchi che si spacciano per nuovi, insomma gente per la quale queste categorie sono obsolete,

suonano insopportabilmente novecentesche, e soprattutto frenano lo sviluppo del Paese, le parole dell’ex ministro restano lì, tra il paradosso e la boutade, e non possono essere classificate come meritano.

In questo stesso Paese né di destra né di sinistra, nel quale la parola libertà viene declinata anzitutto come libertà dal fisco e dalla giustizia non come libertà politica o libertà civile capita anche che si possa progettare la costruzione di un nuovo rassemblement politico al grido di liberazione dall’euro (o se proprio non ci si può liberare dall’euro, che ci si liberi almeno dai tedeschi). Dal momento che non sono più disponibili le categorie di destra e di sinistra, non si sa più bene come prendere neppure queste manifestazioni di prorompente orgoglio patriottico. Poi però viene in soccorso Francesco Storace uno che incomprensibilmente non rinuncia a chiamare La Destra il suo movimento il quale giustamente rivendica la primogenitura dell’idea. Lui per la verità dice di più: questa storia della moneta unica non funziona, una moneta è poco, ce ne vogliono almeno due, lira e euro insieme a circolare, e soprattutto: non paghiamo i debiti alle banche straniere. È evidente che manca solo lo slogan per convertire questa politica in una nuova, travolgente battaglia autarchica e allora sì che si capirebbe in che Paese siamo, o rischiamo di finire.

Ma diciamo la verità: oltre la destra e la sinistra non ha provato ad andarci solo il nostro Paese. Di nostro ci mettiamo quel mix di fantasia e cialtronaggine che non ci facciamo mancare mai: ci mettiamo Sacconi e Berlusconi, oppure i processi di piazza evocati da Grillo o gli editoriali de Il Giornale che per criticare Balotelli se la prendono col multiculturalismo: cose così. Ma sta il fatto che il 1994 non è solo l’anno in cui il Cavaliere vince le elezioni, è anche l’anno in cui in Inghilterra si pubblica Beyond Left and Right, “Oltre la destra e la sinistra”, del teorico della Terza via, Anthony Giddens, il guru di Blair. Questo libro non mi sarebbe ricapitato tra le mani se l’editore non avesse deciso di ripubblicarlo lo scorso anno, con prefazione di Michele Salvati. Il quale Salvati, nel dare conto di argomenti, limiti e meriti del libro, fa la seguente osservazione critica: Giddens tratta la globalizzazione come una variabile indipendente del suo ragionamento, oggettiva, naturale, inevitabile. E invece «questi fenomeni hanno madri e padri, Margaret Tatcher e Ronald Reagan, e le cose potevano andare diversamente se non avessero prevalso le idee di cui quei leader politici erano portatori». Giusto, ben detto. Ma come si fa allora a dire che bisogna andare oltre la destra e la sinistra?

Non basta. Giddens scriveva nel ’94, rileva Salvati, e dunque «non gli si può far colpa di non aver previsto la grande crisi di questi ultimi anni». E qui no, non ci siamo proprio: né con Giddens, né con Salvati. Perché neanche la crisi è imprevedibile, naturale e inevitabile. Pure la crisi ha madri e padri, e variabili assunte come indipendenti e idee che ci hanno portato sin qui. E forse, se non fossimo andati troppo oltre con questa storia della destra e della sinistra che non ci sono più, ce ne saremmo accorti prima di una nuova edizione del libro di Giddens.

L’Unità 24 giugno 2012