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86 anni con la rosa nel pugno

Pannella

Pannella, il divorzio, l’aborto. Ma nella lunga vita di Giacinto Pannella detto Marco c’è molto di più. Non c’è solo una fotografia in bianco e nero scattata negli anni Settanta, la grande stagione dei diritti civili, ma ci sono anche la campagna contro la fame nel mondo, e i referendum contro il finanziamento pubblico dei partiti. Ci sono le battaglie sui temi della giustizia: contro la legislazione emergenziale, per la responsabilità civile dei giudici, contro la carcerazione preventiva, per i diritti dei detenuti e l’amnistia. Ci sono il referendum elettorale per l’abolizione delle preferenze, condotto insieme a Mario Segni al tramonto della prima Repubblica, e la legalizzazione delle droghe leggere; lo scontro sul diritto all’informazione – in particolar modo radiotelevisiva –, che ha accompagnato tutta la vicenda politica dei radicali italiani contro l’occupazione della Rai da parte dei partiti e, negli ultimi anni, i temi della procreazione medicalmente assistita e dell’eutanasia. E ci sono gli atti, numerosi, di disobbedienza civile e gli scioperi della fame e della sete, numerosi pure quelli; ci sono le candidature scandalose in Parlamento – da Cicciolina a Enzo Tortora passando per Toni Negri – e l’impetuosa campagna per le dimissioni di Giovanni Leone dalla Presidenza della Repubblica (per la quale, molti anni dopo, ebbe il coraggio di scusarsi); l’accusa di attentato alla Costituzione all’indirizzo di un altro Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, e la lotta contro la pena di morte nel mondo. C’è una vita generosa e logorroica, condotta sempre in pubblico e tra i militanti, tracimata in mille modi nelle vene della società italiana. E ci sono le associazioni della «galassia radicale», la radio, le esperienze nel Parlamento nazionale e in quello europeo, la fondazione di liste e soggetti politici che hanno attraversato come stelle filanti il panorama politico italiano: la lista Pannella, la lista Bonino, la Rosa nel pugno, la lista Sgarbi-Pannella, tutti tentativi di malcerta fortuna di riversare in una forma parlamentare un’esperienza unica non solo nel panorama nazionale ma in quello europeo. Basti la lunghissima definizione che dovrebbe riassumerne la posizione politica: laico, anticlericale, liberale, liberista, libertario, ma anche socialista per qualche tratto, e alleato con Berlusconi prima e con Romano Prodi poi, e chissà con chi altri la prossima volta ancora.

Ma una prossima volta non ci sarà, perché all’età di 86 anni si è spenta una vita che ne ha contenute più d’una, e in cui è difficile tenere tutto insieme. Un paio di robusti fili conduttori l’hanno però attraversata. Il primo: le infaticabili battaglie per lo stato di diritto. Pannella ne ha condotte molte, e non sempre sono state battaglie facili e immediatamente comprensibili. Tutti ricordano il caso Tortora, il popolarissimo presentatore televisivo arrestato insieme a centinaia di altre persone. Pannella ne sposa la causa: con passione, coraggio, tenacia. Tortora viene arrestato sulla base di dichiarazione dei pentiti poi rivelatasi del tutto false e infondate, Pannella lo candida al Parlamento europeo. Tortora viene condannato in primo grado a dieci anni, il partito radicale lo elegge presidente. Quella battaglia portò ad un referendum sulla responsabilità civile dei magistrati che fu largamente vinto dai radicali e ampiamente disatteso dal Parlamento (oltre che inviso alla magistratura associata): ci sono voluti altri venticinque anni per «vendicare» quel referendum, con la legge dello scorso anno.

Altri cavalli di battaglia dell’idea pannelliana di giustizia, come l’avversione all’obbligatorietà dell’azione penale, non sono mai divenuti davvero parte delle proposte di riforma in materia. Lo stato di diritto era però per Pannella violato ogni giorno, ad ogni passo, quasi in ogni circostanza dalla malfamata partitocrazia: parola che, del resto, ha introdotto lui nella contesa politica. La stessa Corte costituzionale riceveva dal leader radicale il nome non graziosissimo di «cupola della mafiosità partitocratica», essendo indicata come il luogo in cui le aderenze e le connivenze consociative tra i partiti trovavano la massima rappresentazione (e il modo e il mezzo per far fuori le proposte referendarie radicali, che in quegli anni piovevano copiose). Il vero terreno di scontro era infatti per Pannella l’assetto stesso dei partiti di massa, che avevano costituito l’architrave della prima Repubblica, e l’impianto proporzionalistico della legge elettorale. Negli anni del compromesso storico fra Dc e PCI, Pannella collocò fieramente all’opposizione la sparuta pattuglia radicale eletta in Parlamento, contro quello che chiamava «il partito della spesa unica». Quando quell’assetto entrò in crisi, Pannella promosse il referendum elettorale per cambiare in senso uninominale e maggioritario la legge. E quando le inchieste di Tangentopoli spazzarono via quel mondo, Pannella fu tra quelli che simpatizzarono con il magistrato «crumiro», Antonio Di Pietro, anche se non dimenticò la propria storia garantista cercando di tenere in piedi il Parlamento degli inquisiti, con l’iniziativa assolutamente impopolare dell’autoconvocazione dei peones parlamentari alle sette del mattino. Una cifra dello stile politico di Pannella, sempre fuori le righe, e impeccabile e spropositato al tempo stesso.

Ecco l’altro filo conduttore: conta la battaglia, non con chi la fai. Per questo motivo, Pannella si è trovato a fianco alle frange extra-parlamentari, quando bisognava protestare contro le leggi eccezionali introdotte per contrastare il terrorismo, ma anche con il Cavaliere al tempo della prima discesa in campo di Berlusconi, in nome quella volta della rivoluzione liberale. Con un’idea quasi evangelica dello «scandalo»: che è bene che avvenga, se serve ad accendere i riflettori. E allora ecco Pannella e la pornostar Ilona Staller, a favore della libertà sessuale, e Pannella che cede stupefacenti in tv, contro la penalizzazione del consumo di droga. Pannella imbavagliato nel corso della tribuna politica, per protesta contro le omissioni e le censure della televisione pubblica, e Pannella che beve la propria urina nel corso di uno sciopero della sete o affianca il medico anestesista Mario Riccio perché aiuti Piergiorgio Welby a morire.

Sul finire degli anni Settanta, Alberto Asor Rosa stigmatizzava, con una certa spocchia, «l’illusione radicale di fare la lotta al sistema senza riferirsi chiaramente a posizioni di classe». La posizione di classe in questione era ovviamente quella del partito comunista, che Pannella detestava cordialmente, cordialmente ricambiato. Bastian contrario per eccellenza, Pannella Giacinto detto Marco non ne voleva sapere di piegarsi alle ragioni delle politica organizzata, anche a costo di beccarsi l’accusa di qualunquismo. Come quando, prima ancora che Grillo e i Cinquestelle comparissero all’orizzonte,, promuoveva la restituzione in piazza dei soldi del finanziamento statale ai partiti. O quando enunciava il più insostenibile di tutti i paradossi: la democrazia repubblicana come una continuazione con altri mezzi del fascismo. Aveva torto o ragione? Torto, ovviamente, ma valle a ritrovare ora, le posizioni di classe di Asor Rosa!

P.S. È entrato tutto Pannella in questo articolo troppo lungo? No di certo: ci mancano almeno il pacifismo e l’interventismo democratico, l’antimilitarismo e il filoamericanismo, una storica amicizia con Israele e la proposta di esilio per Saddam Hussein, l’amore liberale per i grandi partiti all’americana e la presa paternalistica e settaria sul piccolo mondo radicale. E contraddizioni su contraddizioni, in un’avventura umana di cui però, alla fine, non si può non vedere la grandezza. E un punto di coerenza di fondo, nella fiducia (quasi religiosa) nelle laicissime ragioni dell’individuo.

(Il Mattino, 20 maggio 2016)

 

Novecento senza aborto

L’articolo sul Mattino richiede qualche supplemento, per la discussione avviata con Ffdes e con SchwarzWelf (nei commenti).
A Ffdes.
Sì, io considero normale (e civile) dare fiducia alle persone, e supporre in generale che comprendano quel che comprendo io. Almeno fino a prova contraria. Dunque supporrò che se io ritengo un certo caso omicidio (che a quel che so è un reato molto grave, il più grave, un reato sul quale non si può sorvolare: in generale, non mi risulta che dinanzi a morti violente la prima mossa dell’autorità sia quella di condurre accertamenti sullo spirito del tempo: può essere l’ultima, non la prima), se io ritengo un certo caso omicidio, ci sarà un omicida. Prima di rinunciare a trovare un omicida, di solito, ce ne corre. (SchwarzWelf, peraltro, magistero alla mano, mi pare concordi). (Corollario polemico: la polizia farebbe di conseguenza bene a entrare di più negli ospedali).
Ffdes non mi dice nulla circa la stima che io gli chiedo: quante donne sanno che abortendo mettono termine a una vita umana? Io sarei portato a ritenere tutte, quasi tutte, la maggioranza, Ffdes no, forse pensa un piccolo, piccolissimo numero: non so. Se un piccolo numero, vorrei che scrivesse magari sul suo blog: c’è un piccolo numero di donne assassine, là fuori. Vorrei che anche Ferrara facesse la sua stima, e scrivesse sul giornale: la maggioranza delle donne non sa di commettere un omicidio (che già questo è abbastanza offensivo); ma sicuramente (è un fatto statistico) ce ne sono alcune che lo sanno: quelle sono assassine (e questo è coerente). Converrebbe individuarle, per non gettare un sospetto morale su tutte le altre… Vorrei perciò che si auspicasse fortemente la condanna penale per le (poche) assassine: continuo a non capire perché, fosse anche una su mille a abortire sapendo che è una vita umana, ecc., quest’assassina non debba essere assicurata alla giustizia. Perché si consideri un dramma e uno scandalo senza pari l’aborto, e non anche che delle assassine vadano sistematicamente impunite.
Poiché il termine omicidio che viene qui usato è lo stesso che viene usato in altri casi di morte violente che non riguardano feti – e la ragione, a quel che il mondo ignaro apprende, è precisamente che si tratta della stessa cosa – vorrei che si dicesse chiaramente, quando si fa la somma degli aborti degli ultimi trent’anni, che va ridimensionato, al confronto, il nazismo. Idealmente: se qualcuno mi facesse scegliere: avresti voluto un Novecento senza aborti o senza nazismo, io, stupidamente, direi senza nazismo. Se guardo al numero dei morti dovrei dire invece: senza aborto.
(Se si trova urtante o provocatorio il confronto, mi scuso: ma è che io trovo urtante tutta questa faccenda).
(Faccio notare che Ffdes parla di vita umana. Almeno finora. Non so se con vita umana intenda persona umana. Che la vita umana sia sempre, in ogni stadio biologico della sua esistenza, vita umana personale, attende dimostrazione; poiché l’argomento della Thomson portato nell’articolo vale anche per individui umani adulti che tutti considerano persone, non ho discusso questo punto, né intendo discuterlo qui. La correzione della metafisica delle partorienti, perché adeguino il loro registro di comprensione del feto che hanno in grembo alle esigenze del personalismo, non è affar mio. Certo, chi difende la vita appellandosi all’evidenza non ha, credo, evidenze empiriche a conforto della personalità dell’embrione; tuttavia, nella misura in cui ritenesse di averle –  ad esempio: per un feto di otto mesi – non potrebbe non trovare evidente anche per altri quel che è a lui evidente, sennò che razza di evidenza sarebbe?, e perciò non potrebbe non trovare assassina chi ciononostante abortisce. Se c’è lì un’evidenza, è facile, non dico necessario ma almeno facile, che molti comprendano la cosa esattamente negli stessi termini in cui la comprendo io).
Ffdes conclude con efficace retorica: chi comprende che è vita umana quella che interrompe, è in guai seri con sé. D’accordo, però devi auspicare – auspicare perlomeno – che sia in guai seri con la giustizia penale. Se poi scendi in politica e vuoi essere coerente, devi formulare pubblicamente l’auspicio. E proporti di stendere le relative distinzioni giuridiche. Quando Ferrara lo farà, ne guadagnerà in coerenza e credibilità.
A Schwarzwelf
Io non discuto nell’articolo, come ho detto sopra, la questione della dignità personale dell’embrione o del feto. Credo di avere spiegato perché: trovo che l’argomento della Thomson valga anche là dove nessuno dubita che di persone si tratti. Il caso del violinista famoso immaginato dalla Thomson, che un bel mattino io trovo attaccato non si sa perché ai miei reni, è appunto immaginato per saltare a pié pari la discussione sulla personalità dell’embrione (il che ovviamente non significa che sia pacifico che l’embrione sia persona né che non lo sia – però ti chiedo: qual genere di certezza attribuisci all’affermazione che l’embrione è persona? È una certezza che ritieni fondata sul dato biologico? Ritieni quindi che la biologia sia decisiva per stabilire le condizioni necessarie e sufficienti per decidere se un individuo sia persona oppure no? E se ora ti proponessi il caso immaginario di mia figlia, che ad un esame clinico è risultato possedere una dote biologica aliena? Mi autorizzeresti a sopprimerla?).
Ciò detto, confesso che mi infastidirebbe un po’ che qualcuno ritenesse che io sia anestetizzato, dal momento che non riconosco la personalità dell’embrione. Dotato come sono di smisurata autostima, mi verrebbe peraltro naturale di pensare che sono abbastanza imbecilli le persone (no, non le persone: facciamo i Magisteri) che mi considerassero anestetizzato. Così, per par condicio.
Ma torno all’argomento della Thomson. Che non è affatto ingenuo, ma stilizza il caso della gravidanza indesiderata. Se non si ritiene che esistano gravidanze indesiderate, cioè non volute, l’argomento della Thomson non funziona, mi rendo conto, ma non capisco perché il fatto che io sappia di poter rimaner incinta nel corso di un rapporto sessuale debba significare che dunque la gravidanza me la sono voluta. (Poiché apprezzo molto il tono non polemico, e mi scuso per un paio di battute polemiche, offro in cambio la rinuncia a tirare in ballo la questione contraccettiva).
E poi, posto pure che l’argomento si attagli solo a rarissimi casi (ad esempio: lo stupro) voglio sapere dai difensori e paladini della vita se in tali casi considererebbero moralmente lecita la decisione della donna. Se la considerano lecita, vorrei capire su qual fondamento la considerano tale.
Non vorrei, infine, apparir troppo leggero. L’ho scritto nell’articolo: sapere qual genere di responsabilità si esercita, avendo il diritto di esercitarla, non diminuisce affatto la responsabilità; casomai, l’aumenta. Di personale aggiungo che ho tre figli, e per nessuno dei tre io e mia moglie (più lei che io, naturalmente) abbiamo fatto ricorso all’amniocentesi: non avremmo mai e poi mai fatto seguire l’aborto ad un eventuale esito infausto. (Così  stiamo tranquilli che troppo anestetizzato non sono).

Habemus articulum

Con titolo, L’aborto e la coerenza, del quale ringrazio il giornale (anzi, già che ci sono, ringrazio pure il Direttore:

Un diverso clima culturale. Giuliano Ferrara giura e spergiura che non vuole cambiare la legge 194 sull’interruzione di gravidanza, ma soltanto favorire un nuovo clima contro “la cultura della morte”, contro la selezione eugenetica dei nascituri, contro la selezione in base al sesso e in base a qualunque altro motivo. La sua lista, che a quanto pare si apparenterà col PdL, si chiamerà dunque “Aborto? No, grazie”, ma non proporrà alcun intervento legislativo in materia. Verranno, tuttavia, varate linee guida assai proibitive, questo si è per ora appreso, che impediscano aborti come quello di Napoli. La legge verrà in questo modo svuotata, ma si potrà dire che è ancora lì.
Comunque vada questa singolare vicenda, un po’ di coerenza non guasterebbe. Per capire, se non altro, come si possano presentare i fatti di Napoli così come ha fatto il Foglio, titolando “Ucciso bimbo perché malato”, e poi difendere la legge a norma della quale si uccidono i bambini malati; come si possa dire che no, le donne non sono assassine, e tuttavia sostenere che “le interruzioni di gravidanza sono un omicidio perfetto”. Quella logica aperta e franca, secondo la quale si vuole condurre il dibattito, pregando tutti di chiamare le cose col loro nome, non consentirebbe infatti di cavarsela attribuendo genericamente la responsabilità dell’uccisione di un bimbo malato allo spirito del tempo, alla temperie culturale o all’atmosfera eugenetica che tutti respireremmo. Sarà così, ma è troppo facile: se c’è un omicidio, c’è un omicida; se c’è un assassinio, c’è un’assassina. E anche se nel mondo, è vero, di “omicidi perfetti” se ne commettono molti di più, e non per commendevoli motivi, non si capisce perché dovremmo chiudere un occhio sugli omicidi di casa nostra. E poiché infine nessuno vuol rivedere il biblico “non uccidere”, coerenza vorrebbe che prima o poi si chieda invece di rivedere la legge. Nel senso del divieto, e della condanna penale. Nel senso della colpevolizzazione delle donne. E dell’incriminazione – almeno finché l’omicida va considerato un criminale.
Vi sono naturalmente argomenti per respingere simili ragionamenti e le loro conseguenze. Ne proporrò uno, anzi due. Ma, intanto, sono i sostenitori dell’aborto uguale omicidio che devono, se credono, proporre un argomento razionale per non dare la patente di assassina alla donna che abortisce. Nell’appello per la moratoria se ne trova soltanto uno: il diritto di autodifesa. Ma è un argomento insoddisfacente, parecchio lacunoso, assai improprio. A meno che infatti non sia in pericolo la vita stessa della donna, non ad esempio soltanto compromessa la sua salute fisica o psichica, uccidere il bambino per difendersi non può essere né moralmente né giuridicamente lecito. Occorre trovar di meglio. Trovare qualcosa che non sia una semplice attenuante. Le attenuanti, del resto, non tolgono la patente di assassino a chi commetta un omicidio. Anche così, dunque, coerenza vorrebbe che la lista contro l’aborto e il suo futuro ministro della salute mettessero in programma l’abrogazione di una legge che riconosce il diritto di uccidere ad una donna spaventata dalle conseguenze di una gestazione indesiderata, lasciando ad altre anime belle, per esempio a Casavola, che ne ha scritto con grande misura sabato su questo giornale, la difesa di una disciplina legale nel suo complesso positiva, che regolamenta con saggezza i casi in cui è possibile far ricorso all’interruzione di gravidanza.
Ora però l’argomento. Il più franco che conosca. Lo prendo da un altro clima culturale, quello che c’era negli anni in cui in Italia e nel mondo si conquistava non il diritto di abortire, che fa inorridire taluni, ma il diritto all’autodeterminazione della donna, che gli inorriditi non sentono purtroppo di dover difendere. Lo formulò a suo tempo Judith J. Thomson, filosofa americana che secondo la terminologia ripristinata sabato da Sgarbi sul Giornale meriterebbe senz’altro l’epiteto di strega (a proposito del clima). E dice più o meno così, in breve: se un giorno io trovassi che dall’uso del mio corpo dipende la vita di un altro, non sarei per questo moralmente tenuta a prestarglielo, né alcuno mi potrebbe costringere a ciò. In questo modo la drammaticità della scelta non è affatto diminuita, poiché nessuno rifiuta a cuor leggero ad altri una possibilità di vita. Nessuno lo pensa, e nessuno lo rivendica. Ma si ritira alla donna la patente di assassina. E si può cominciare a ragionare, a considerare le differenze, le situazioni, i casi della vita. Le settimane di gravidanza.
Ma ecco il secondo argomento. Breve, senza trucchi e senza eufemismi: le donne, caro Ferrara, non commettono “omicidi perfetti”. Convinciamoci almeno di questo, se vogliamo migliorare il clima.