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Gli egoismi che disfano l’Europa

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La risposta dell’Unione europea non si sa se arriverà; di sicuro però si farà attendere. Conta poco che il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, abbia definito eroici gli sforzi che l’Italia è chiamata a compiere per dare accoglienza ai migranti, in realtà siamo alle solite: non c’è, allo stato, alcuna comune volontà dei Paesi europei di far fronte alla situazione. Così ascoltiamo quello che pensa la Francia, che parla per bocca di Macron e dichiara disponibilità ad accogliere i soli rifugiati, non i «migranti economici». Poi sentiamo la Cancelliera Merkel affermare con maggiore generosità (almeno a parole) che l’Italia e la Grecia non vanno lasciate sole. Registriamo gli apprezzamenti per l’impegno italiano e lamentiamo invece che alcuni paesi europei se ne lavino le mani; ma in questo confuso concerto di voci discordi, regolate esclusivamente dagli interessi nazionali, si disperde il significato stesso dell’unità europea. Non si capisce dove si trovi, chi la rappresenti, in che modo si senta chiamata in causa. In realtà, non c’è, in questo momento, nessun altro tema nell’agenda europea che sia declinato su base nazionale più del tema migrazioni. E d’altra parte non c’è nessun altro tema che, più di questo, possa mai trovare soluzione su un piano meramente nazionale. Perché non è una soluzione la chiusura delle frontiere, così come non lo è l’apertura. Respingere, così come accogliere, sono verbi che richiedono di essere costruiti in una frase: quando, dove, come.

Lo si vede bene dal gesto spazientito che ha spinto il governo italiano a minacciare la chiusura dei porti alle organizzazioni non governative che portano sulle nostre coste, quotidianamente, migliaia di migranti. A parte i complessi problemi legati al diritto internazionale (ma un’emergenza è un’emergenza: e il diritto, soprattutto il diritto internazionale, finisce di solito con l’adeguarsi), è chiaro che per il ministro dell’Interno, Marco Minniti, non si tratta di una soluzione, ma di una misura resa necessaria, oltre che dal numero eccezionale di sbarchi di queste ore, dalla difficoltà a spiegare cosa mai impedisca alle navi di attraccare in altri porti: maltesi, spagnoli o francesi. Minniti ha detto: «sarei orgoglioso se di tutte le navi che operano nel Mediterraneo centrale una sola, una soltanto, anziché arrivare in Italia arrivasse in un altro porto europeo». Doveva solo aggiungere che sarebbe stato orgoglioso di essere europeo, ed è proprio questa l’aggiunta che manca. Una gestione comune del fenomeno, sia in termini di rimpatri che in termini di ricollocamento nei Paesi dell’Unione, non c’è. Il piano Juncker di ripartizione pro quota dei nuovi arrivi (che pure vale solo per i rifugiati, aventi diritto alla protezione internazionale) è un clamoroso fallimento. E soprattutto non c’è una politica estera comune verso i Paesi africani.

È bene essere chiari: le politiche di accoglienza sono politiche umanitarie: benemerite, ma da sole non possono bastare. Diviene anzi sempre più difficile mantenerle, se non sono affiancate da tutto ciò che uno Stato (e una comunità di Stati, se esiste) può fare per regolare i rapporti coi Paesi viciniori. Finché la Libia rimarrà nell’attuale situazione di instabilità, rimarrà anche il corridoio lungo il quale si riverseranno tutti coloro che cercano in Europa migliori condizioni di vita. Possiamo resistere all’idea che i barconi carichi di migranti debbano essere respinti, solo se non ci limitiamo ad attrezzarci per i salvataggi in mare, ma proviamo anche a ridurre a monte i flussi migratori. Diversamente, non ci tireremo via dalla trappola umanitaria che gli egoismi degli altri Stati membri dell’Unione scarica sul nostro Paese. Perché non è per una cieca fatalità che la meta preferita degli scafisti che attraversano il Mediterraneo è l’Italia, e la rotta libica il percorso più affollato. Ciò dipende da un calcolo preciso, da una diversa probabilità di successo, assicurata lungo queste vie, e per esempio dalla forte riduzione dell’agibilità della rotta balcanica. Dunque non si tratta di fenomeni fuori da ogni controllo. È anzi evidente che qualora diminuissero dovessero diminuire le aspettative di un buon esito, diminuirebbero anche gli sbarchi.

Orbene, se non si vuole tradurre questo assioma spietato ma evidente in una politica attiva di respingimenti, bisogna almeno che si rendano disponibili altre leve di azione. Se quelle detenute dall’Unione latitano, e quelle a disposizione del nostro Paese si rivelano insufficienti, allora non ci sarà accoglienza che tenga. E il rischio che cresca il numero di coloro che saranno accolti solo dalle onde del mare aumenterà enormemente, macchiando per sempre l’onore dell’Europa.

(Il Mattino, 1° luglio 2017 – pubblicato su Il Messaggero col titolo “Paghiamo le furbizie dell’Europa)

Un richiamo alla realtà e all’Europa egoista

palladino

Accogliere i migranti e i rifugiati, ma distinguere. Non chiudere le frontiere, ma regolare. E integrare, certo, non ghettizzare. E dunque calcolare quanti possono essere integrati. Così ha parlato ieri Papa Francesco, di ritorno da una Svezia meno aperta e generosa che in passato, che però Bergoglio ha tenuto anzitutto a ringraziare per le politiche di accoglienza che anche in passato hanno permesso a molti argentini, a molti sudamericani, in fuga dalle dittature militari, di rifarsi una vita in Europa. In passato: oggi è più difficile, e il Papa lo riconosce. Perché accogliere non vuol dire far entrare chiunque, e fare entrare comunque: vuol dire invece predisporre strutture, servizi, risorse. Vuol dire fare opera di educazione, creare percorsi di cittadinanza, favorire il dialogo e la reciproca comprensione. Tutte cose che richiedono un lavoro paziente, una fitta tessitura di azioni, un serio impegno economico, sociale, culturale; richiedono persino la costruzione di un consenso diffuso, per evitare reazioni di rigetto, paure, risentimenti nella cittadinanza.

Avere presente tutte queste condizioni, e vincolare ad esse la parola del conforto e della solidarietà significa tenere un discorso intensamente politico, con quell’avverbio che il Pontefice scandiva con grande convinzione: «politicamente». Politicamente si paga «una imprudenza nei calcoli, nel ricevere di più di quelli che si possono integrare».

Ma che le politiche sull’immigrazione richiedano l’arte prudente di un calcolo: questo è proprio quello che non ci si aspetta da un Papa spirituale. Il fatto è che però Papa Francesco non è un Papa spirituale, se con ciò si intende un Papa ignaro della struttura del mondo, o della complessità del suo governo. Venuto quasi dalla fine del mondo, vicino ai popoli e ai Paesi meno sviluppati, con poca simpatia verso le grandi accumulazioni di ricchezza e le diseguaglianze generate dall’«imperialismo economico» del mercato, Bergoglio non ci ha messo molto a farsi la fama del Papa di sinistra. Per certi ambienti cattolici, anzi, José Mario Bergoglio è un comunista. Lo scorso anno, durante il volo che lo portava in America precisò perciò di essere certo di non avere detto una sola cosa che non fosse già contenuta nella dottrina sociale della Chiesa. E aggiunse scherzosamente: «Ho dato l’impressione di essere un pochettino più “sinistrino”, ma sarebbe un errore di spiegazione».

Ebbene, sarebbe, di nuovo, un errore di spiegazione, se le parole pronunciate ieri venissero giudicate poco coerenti, o troppo prudenti, o francamente deludenti. Il Papa che saluta con un cordiale buongiorno dal balcone di piazza San Pietro; quello che va a scegliersi gli occhiali dall’ottico o gira con la sua borsa nera sotto mano; il Papa che, soprattutto, compie un viaggio di portata storica, a Lampedusa, nel 2013, e lì cita, nel corso dell’omelia, le parole con cui Dio si rivolge a Caino – «dov’è tuo fratello?» – per fare i popoli europei e l’Occidente responsabile delle migliaia di vite sommerse dai flutti del mare, quel Papa è lo stesso che ieri ha mostrato con grande chiarezza e lucidità che il senso di umanità è una cosa, il generico umanitarismo un’altra. Che la politica non può minimamente trascurare le conseguenze delle decisioni che è chiamata a prendere. Che deve avere una sua morale, ma questa morale non è assoluta; deve bensì mediarsi con la realtà. Né alla Chiesa cattolica come istituzione è mai appartenuto l’atteggiamento dei santi, dei mistici o degli anacoreti. E nemmeno quello delle anime belle.

La questione dell’immigrazione è, insomma, una questione enorme. Che non si affronta con astratte affermazioni di principio, e nemmeno soltanto con l’appello ai buoni sentimenti. Che ci vogliono, naturalmente. Ma ci vuole anche il calcolo, dice Papa Francesco. Cioè una saggia commisurazione di mezzi e fini.

È evidente che il Pontefice non intendeva con ciò fare sconti a quei popoli che si sottraggono ai doveri dell’accoglienza. La Svezia non è l’Ungheria, e la prudenza non è sinonimo di miope egoismo o di gretto nazionalismo. Se anzi l’Europa riuscisse ad imporre uno stesso atteggiamento di apertura regolata, se facesse suo il calcolo di Bergoglio, se fosse in grado di gestire in maniera coordinata i flussi, con la collaborazione leale di tutti i membri dell’Unione, potrebbe dare una risposta di gran lunga più efficace di quella che oggi mette sotto tensione Paesi rivieraschi come l’Italia e gonfia e altera la percezione degli eventi prestandogli i contorni del fenomeno incontrollato, e perciò tanto più pericoloso.

Ma per questo ci vuole una buona dose di razionalità politica che, bisogna dirlo, ieri sembrava trovarsi nelle parole del Pontefice della Chiesa cattolica romana, più di quanto non accada nei discorsi di certi leader politici europei.

(Il Mattino, 2 novembre 2016)

L’accoglienza impossibile senza l’Europa

Acquisizione a schermo intero 20092016 164121.bmp.jpgLa lettera di Beppe Sala, sindaco di Milano, sull’immigrazione ha sicuramente un pregio: non è banale. Dice almeno un paio di cose che su questo tema vanno dette: che il fenomeno migratorio è tutto meno che un’emergenza. E che i Comuni italiani non possono fare da soli. In mezzo a questi due estremi stanno gli altri due attori convocati da Sala: l’Unione Europea, e lo Stato italiano. Sui primi due punti si può raggiungere un elevato grado di consenso. Ragionato, non improvvisato.

Anzitutto, le migrazioni hanno dalla loro la forza irresistibile dei numeri della demografia, ancor prima che l’urgenza e la drammaticità della politica e della storia. È stato calcolato che se i paesi ricchi chiudessero ermeticamente le loro frontiere, e se altrettanto facessero i paesi poveri (asiatici, africani, sudamericani), impedendo alla popolazione di emigrare, i primi perderebbero, nel giro di vent’anni, quasi cento milioni di persone nella fascia di età attiva, fra i 20 e i 64 anni, mentre i secondi crescerebbero, nello stesso arco di tempo e nella stessa fascia anagrafica, di ben 850 milioni di persone.

Siamo dunque in presenza di un fenomeno strutturale, di portata epocale. Che va governato, non esorcizzato. A tale, imponente fenomeno si somma la componente dei rifugiati, di coloro che fuggono dalla guerra, o da paesi in cui non vengono rispettati i loro diritti politici e civili. E si sommano inevitabilmente inquietudini, paure, diffidenze, quanto più lontana o impermeabile appare l’identità culturale e religiosa di provenienza. I numeri dei rifugiati sono in costante aumento, anche se, per il nostro Paese, non sono ancora tali da giustificare l’uso di certe parole. Non è in corso un’invasione, insomma, anche se ormai l’ordine di grandezza è delle centinaia di migliaia di persone. Ed anche se quel che è in corso – questo è il secondo punto della lettera di Sala – difficilmente può essere gestito a livello periferico. Ci vuole un coordinamento nazionale, e ci vuole per esempio che l’autorità centrale, che stabilisce la distribuzione dei migranti a livello locale, abbia da un lato mezzi e competenze, dall’altro legittimità sufficiente perché le sue decisioni non siano rimesse in discussione degli enti locali. Sala, peraltro, ha ragione di richiamarsi alla tradizione civica della sua città, allo spirito di accoglienza, alla collaborazione dei suoi abitanti. Ma non tutte le città sono uguali, e soprattutto non tutti i territori hanno le medesime strutture, il medesimo retroterra economico e sociale, la medesima capacità di assorbimento e integrazione della presenza straniera. Non solo, ma anche la preoccupazione per il rispetto della legge prende forme diverse: nelle città e nelle campagne; nelle zone di degrado e nelle aree meglio attrezzate; dove esiste una piccola criminalità diffusa o di strada, e dove invece non si ha la medesima percezione di insicurezza. E così via. Sala tuttavia fa solo un fugacissimo cenno al tema. È vero che le politiche di integrazione non si riducono affatto al tema della legalità, ma è anche vero che il tema non può essere eluso, o sottaciuto. Perché non c’è solo un’offerta politica che si organizza strumentalmente su questi temi: c’è anche una domanda reale, che a torto o a ragione viene formulata, e a cui amministratori e governanti devono dare risposte concrete ed efficaci, in Italia e in Europa.

L’Europa, appunto. Qui le cose sono forse più complicate di come appaiono al sindaco di Milano. Si sa, per grandi linee, che cosa l’Unione Europea deve fare: anzitutto modificare gli accordi di Dublino sulla ricollocazione dei migranti, perché non hanno funzionato e non stanno funzionando. Poi snellire procedure e stanziare più fondi. Quindi potenziare gli incentivi destinati ai Paesi che sono più esposti e più direttamente investiti dalle migrazioni in corso. Infine attuare in loco strategie di contenimento e politiche di stabilizzazione. E in prospettiva pianificare e regolarizzare i flussi, rendendoli anche più sicuri e meno esposti al ricatto criminale.

Ma se l’Europa non lo riesce a fare, è evidente che il fallimento – che Sala denuncia con forza, come del resto ha fatto Renzi al termine del vertice di Bratislava – è evidente che non può non avere conseguenze sulle politiche di accoglienza del nostro Paese. Fermo restando il dovere di salvare il maggior numero possibile di vite umane, come fa l’Italia ad «uscire dall’idea di essere una piattaforma di prima accoglienza» se non c’è un vero accordo europeo di cooperazione? Certo, Renzi continua a dire che l’Italia può farcela da sola: lo ha ribadito anche ieri, in risposta alle sollecitazioni della lettera di Sala. Ma pensiamo davvero che se l’Europa fallisse, non fallirebbe anche il modello di piena accoglienza e integrazione a cui pensa il Sindaco di Milano? E non fallirebbe – prima ancora che nei numeri – nell’idea, nella concezione dello spazio politico in cui ciascuno di noi vive, pensa, lavora? Quello spazio è oggi attraversato da mille problemi, ma non è ancora così angusto da scatenare necessariamente urti e conflitti. Ma sarebbe ancora così, se l’egoismo degli Stati nazionali prevalesse? E l’Unione sopravviverebbe, se si divaricassero ancor più politiche di apertura e di chiusura, riconoscimenti e respingimenti, spazio di accoglienza nel Mediterraneo, e spazio di rifiuto nell’Est e nel Nord del continente?

(Il Mattino, 20 settembre 2016)

L’emergenza che frantuma gli ideali

Mare

Lo scorso anno l’Europa ha adottato un’agenda europea sulla migrazione in cui ha formulato le azioni prioritarie da attuarsi per far fronte l’emergenza. L’emergenza è la seguente: nel corso dell’intero 2014 sono giunti in Europa 282.500 migranti. Nel 2015 hanno tentato di attraversare in maniera irregolare le frontiere esterne dell’Unione Europea 1,83 milioni di persone. Di queste, secondo l’Unicef, il 20% (in lettere: il venti per cento) sono bambini. I numeri si leggono nella articolatissima risoluzione adottata l’aprile scorso dal Parlamento europeo. La quale risoluzione prosegue: menzionando i doveri di solidarietà iscritti nei trattati dell’Unione; ricordando che salvare vite in mare non è solo un dovere morale ma è anche un obbligo giuridico di diritto internazionale; formulando una serie di considerazioni sullo sviluppo di vie sicure e legali per l’accesso dei richiedenti asilo e dei rifugiati. C’è anche dell’altro, nella risoluzione: ci sono i rimpatri, i ricongiungimenti, la tutela dei minori. C’è l’auspicio di un approccio globale alla migrazione, volta a smantellare le reti criminali nella tratta e nel traffico illegale di persone; c’è il richiamo alle decisioni di ricollocazione dei migranti nello spazio interno dell’Unione assunte dal Consiglio europeo per far fronte all’emergenza, con particolare riguardo alla posizione particolarmente esposta in cui si trovano, per motivi geografici, l’Italia e la Grecia; c’è il sostegno operativo ai due paesi del versante meridionale dell’Unione per l’allestimento dei punti di crisi (gli «hotspot»); c’è l’invito a rivedere il regolamento di Dublino che stabilisce sì i criteri per la determinazione dello Stato europeo competente all’esame della domanda di protezione internazionale, e alla concessione dell’asilo, ma che non era stato concepito per affrontare il problema della ripartizione delle responsabilità fra tutti gli Stati dell’Unione. C’è praticamente tutto: c’è il diritto internazionale ma pure quello penale, c’è la cooperazione coi Paesi terzi, di origine e di transito dei migranti, e ci sono  le cause profonde, di carattere geopolitico, che impongono l’azione diplomatica, il coinvolgimento degli organismi internazionali, risorse finanziarie per contribuire a ricostruire i paesi in situazioni di «guerra, povertà, corruzione, fame e mancanza di opportunità». C’è, infine, persino la sottolineatura che il mantenimento dello spazio Schengen – l’Europa senza frontiere interne – è subordinato alla gestione efficace delle frontiere esterne dell’Unione, e non è quindi una cosa che possa essere data per scontata. Anche se subito dopo è espressa la preoccupazione che la chiusura temporaneo di frontiere interne da parte di alcuni Stati membri rischia di mettere in pericolo una delle maggiori conquiste dell’integrazione europea. Insomma: c’è il GAMM, l’Approccio Globale per la Migrazione e la Mobilità, e tutto quello che sta dentro il GAMM.

Dopodiché, essendoci tutto questo, ci sono i sindaci. I sindaci delle città italiane, piccole e grandi, che in buon numero sono pure in campagna elettorale, e a cui riesce difficile partecipare a una gara di solidarietà che temono abbia per loro un costo in termini di consenso. È forse miope – senza forse: lo è senz’altro – avere una così corta vista e ragionare su come affrontare un problema epocale, di così ampie proporzioni, in considerazione del prossimo 5 giugno. Ma di simili miopie, e di egoismi e di paure, insicurezze – a volte legittime, altre volte no –, di interessi poco lungimiranti e pure però di difficoltà obiettive, legate a mancanza di strutture, di mezzi, di disponibilità finanziarie, anche di tutte queste cose è fatto lo spazio Schengen. Cose che, peraltro, non se ne andranno con il 5 di giugno. Allora: deve sicuramente crescere in tutti il livello di consapevolezza della sfida, altrimenti non ce la si fa. Ma deve compiere uno straordinario salto di qualità pure la risposta organizzativa: la risposta pratica, concreta, operativa. Perché i barconi continuano a prendere il mare. Oltre la linea dell’orizzonte che noi vediamo da qui si continua a combattere, e a morire.  Facciamo allora che le affermazioni di diritto non si risolvano in petizioni di principio. E che fra le risoluzioni in dozzine di pagine del Parlamento e l’assessore del comune che deve trovare dalla sera alla mattina strutture di accoglienze idonee, qualcosa ci sia, che leghi piccoli interessi e grandi ideali, e il breve e il lungo periodo, e le paure di perdere tutto e la prospettiva di costruire invece qualcosa. Quella cosa c’era, si chiamava politica. Sarebbe bello dimostrare che serve ancora.

(Il Mattino, 27 maggio 2016)

L’accoglienza e i controlli fuori tempo

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Il cammino che ha percorso la religione, nei paesi europei, non rende semplice l’integrazione di forti identità confessionali. Charles Taylor, filosofo canadese, tra i maggiori studiosi contemporanei dei processi di secolarizzazione, ha riassunto la formula dell’esperienza americana, così differente da quella europea, in questi termini: va’ nella Chiesa che vuoi, ma vacci. Una formula che la maggior parte degli europei oggi non saprebbe o vorrebbe fare propria. Taylor aggiungeva poi questa parola di commento: «quando anche gli imam fecero la loro comparsa alle colazioni di preghiera, tra i preti, i pastori e i rabbini, fu il segno che l’Islam era stato invitato a far parte di uno stesso consesso». Di nuovo: un invito simile non sembra che possa venir formulato dalla generalità dei cittadini europei (a parte, naturalmente, lo spirito ecumenico di pochi). Chi lo vuole un imam a colazione? Per Taylor, la spiegazione starebbe in ciò, che mentre l’integrazione nella società statunitense è avvenuta «attraverso» la fede o l’identità religiosa,in Europa l’integrazione ha potuto compiersi «solo ignorando, marginalizzando o relegando nella dimensione del privato ogni eventuale identità religiosa». Le ragioni di questa differenza sono molte e complesse, e affondano le loro radici in una storia plurisecolare; il risultato però è questo: in America, tutto ciò che può iscriversi in una forma di patriottismo nazionale mantiene un contatto con la sfera del religioso; non così in Europa, dove forme anche varie e declinazioni anche diverse di religione civile si sono di molto raffreddate. L’Unione Europea è anzi – per continuare con la metafora –il punto di maggior freddezza che l’umanità abbia mai raggiunto, quanto a temperatura religiosa. E però l’immigrazione porta in Europa uomini e donne che hanno invece un rapporto ancora molto intenso con la religione. Non sto parlando di varianti fondamentaliste o integraliste o fanatiche, che è facile giudicare un pericolo per la convivenza democratica: parlo della più comune esperienza religiosa, di precetti, presenze rituali, cerimonie. A noi europei tutto ciò ormai fa strano, molto più strano che non agli americani, che infatti hanno percentuali più alte di credenza e pratica religiosa.

Il confronto con l’esperienza americana è importante, perché nessuno dubita che la società americana sia, anzitutto nelle sue istituzioni politiche, una società secolarizzata. Ma lì la secolarizzazione convive più facilmente con le manifestazioni dello spirito religioso di quanto non accada da noi.

Non propongo queste considerazioni per trarne la conclusione che dunque il problema è nostro: del nostro palcoscenico ideologico, così poco ospitale nei confronti della credenza religiosa.  Nient’affatto: abbiamo tutto il diritto di essere ciò che siamo. Dico solo che è difficile, che i processi di integrazione sono complicati, per quanto – io credo – necessari. Investono cioè strutture profonde della società, che non sempre hanno l’elasticità necessaria per resistere alle tensioni e torsioni a cui sono sottoposte, soprattutto nei tempi di crisi. È bene saperlo. Possiamo certo contare sulla buona volontà di molti, ma non è detto che basti, e soprattutto non è detto che si abbia davvero tutto il tempo che ci vuole. Anzi: politicamente parlando, a ogni attentato è certo che il tempo a disposizione si accorcia (e i terroristi ovviamente lo sanno).

La notizia dell’arresto del cittadino algerino a Bellizzi mi ha dato però due cose da pensare. La prima, è la cosa alla quale più spesso ho associato il nome di Bellizzi, da qualche anno almeno a questa parte. Dico piazza Antonio De Curtis, e la statua di Totò (una delle prime, se non la prima in Italia). Domando: quanto tempo ci vuole a un cittadino algerino, che passa per quella piazza e qualche volta si siede vicino a quella statua, per innamorarsi di un film di Totò, per ridere delle sue battute? Con certe sue smorfie è più facile, ma con certi suoi giochi di parole? Quanto tempo ci vuole a capirli, a spiegarli, a farli propri e magari a tirarli fuori la sera con gli amici? Se ci vuol tempo, e un bel po’ di vita in comune, quanto ce ne vuole per tradurre tutto il resto di una cultura e di una forma di vita? Lo sforzo – ripeto – è indispensabile, e rinunciarvi è stupido, oltre che insensato. Ma bisogna sapere che in ogni traduzione del genere, sono mondi interi che vengono a confronto, e provano a riversarsi l’uno nell’altro.

La seconda cosa a cui ho pensato è come mai il sindaco abbia annunciato, all’indomani dell’arresto di Djamal Eddine Ouali, che si procederà al censimento dei circa seicento immigrati presenti a Bellizzi, molti dei quali costretti a vivere in condizioni poco dignitose. Nessuno però capisce perché un’Amministrazione si ponga solo l’indomani il problema di sapere chi vive, dorme, lavora nel territorio comunale. Possiamo infatti scomodare lo spirito europeo e quello americano, Charles Taylor e il secolarismo, e fare le più dotte riflessioni sulle mediazioni culturali necessarie per unire le sponde del Mediterraneo, le religioni del Libro o più semplicemente i ricchi e i poveri, e quelli che non hanno più nulla dietro di sé e quelli che si tengono stretti quel (poco o molto) che hanno per sé, ma se poi c’è bisogno di un arresto clamoroso per accorgersi di seicento immigrati finora invisibili, è molto difficile ragionare di politiche di integrazione o di sicurezza, di accoglienza o di controlli. Finisce che possiamo solo augurarci che chi viene qui venga per cercare di vivere una vita decente, perché gliene verrà del buono anche a lui.

(Il Mattino, 29 marzo 2016)