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Appello degli intellettuali: difendiamo l’umanesimo

ImageAl centro dell’allarmato appello in difesa dei saperi umanistici promosso da tre intellettuali di diversa formazione e cultura politica – Roberto Esposito, Ernesto Galli della Loggia, Alberto Asor Rossa – stanno due termini più uno: la tradizione umanistica, la tradizione italiana e, terzo, l’incrocio tra le prime due. Gran parte della discussione anche vivace suscitata dal testo, apparso sulla rivista Il Mulino, ha riguardato quasi soltanto il primo termine. Così, se gli autori scrivono preoccupati che si profila un tempo in cui più nessuno saprà chi mai sia stato Plinio (ma già oggi quanti lo sanno?), è all’intera sorte della civiltà greco-latina, mediata dall’umanesimo italiano ed europeo, che pensano. Non credo però in chiave meramente conservativa, se ciò che rivendicano è il nesso costitutivo col futuro che così si mantiene: c’è infatti un futuro solo per chi ha un passato, è vero. Ma è vero anche il contrario: c’è passato solo per chi ha futuro, e può dunque mediare e tradurre la propria eredità in nuovi contesti di senso. Il guaio è che, in Italia (e siamo al secondo termine), uno dei luoghi fondamentali di quella mediazione, cioè il sistema dell’insegnamento e della ricerca, è in condizioni critiche. Per gli autori, a risentirne sono soprattutto le scienze umane, passate sulla lama di criteri di valutazione che ne mortificano le specificità, ma più in generale è il bilancio delle trasformazioni subite dall’università italiana negli ultimi quindici anni che suona, nel suo complesso, negativo. Ben venga dunque un appello che quel bilancio chiede, perlomeno, di farlo.

Il nocciolo del problema è però in quel terzo termine, che ha un nome e un luogo preciso: la politica e lo Stato italiano. La crisi dei saperi umanistici porta infatti con sé, in Italia, la crisi della politica, dal momento che di quei saperi è costituito nel nostro Paese il linguaggio stesso della politica. Questo è il nodo cruciale, la tesi su cui pensare, dibattere, prendere posizione. E invece quanti, e sono tanti, si sono affrettati a lamentare il carattere o il tono «passatista» dell’appello – un’idea di cultura umanistica come luogo di memoria e di identità da mettere al riparo dal progresso tecno-scientifico, dalle forze anonime del mercato, dall’aggressione della lingua inglese – non hanno detto una parola sull’epicentro di questa crisi, cioè sulla politica. E, purtroppo, si può fare la figura di essere moderni, al passo coi tempi e con le nuove generazioni ma rimanere ciononostante in posizione di subalternità: rivendicare la propria nicchia di internazionalità non significa ancora, infatti, avere un progetto culturale e una visione politica per il Paese intero. E, al momento, all’orizzonte non si vede affatto chi mai una tale visione davvero ce l’abbia.

(Il Messaggero, 5 gennaio 2014)