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Se il voto spezza le vecchie identità

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F. Bacon, Three Studies of Lucian Freud (1969)

Vi sono due punti interrogativi dinanzi al sistema politico italiano, che proverà a misurarsi con essi nei prossimi mesi. Il primo riguarda la legge elettorale: quella che ci è stata consegnata dai pronunciamenti della Corte costituzionale e dal risultato del referendum del 4 dicembre non viene giudicata soddisfacente da nessuno degli attori politici in campo. Ma nessuno degli attori politici in campo sembra avere forza sufficiente per cambiare il sistema di voto. Sicché, al di là di piccoli aggiustamenti “tecnici”, è molto probabile che ci terremo un proporzionale con un premio di maggioranza fissato a un’altezza irraggiungibile (40%).

Il secondo interrogativo è rappresentato naturalmente dalle elezioni politiche della prossima primavera. Al confronto si recheranno forze politiche profondamente diverse da quelle che si sono misurate nel 2013. Le due principali forze politiche, di centrodestra e di centrosinistra, intorno alle quali è stato imperniato il confronto politico nel corso di tutta la seconda Repubblica hanno subito scissioni e lacerazioni che ne hanno mutato la fisionomia. L’appello che Berlusconi rivolge oggi ad Angelino Alfano ed a Giorgia Meloni non ha, nelle parole stesse del Cavaliere, il significato di una proposta politica pronta per affrontare il voto nazionale. Eppure Alfano e Meloni, nel 2013, stavano nella stessa coalizione, il Popolo della Libertà (si è persa memoria del nome). E in quella stessa coalizione c’era la Lega (però a guida Maroni, non ancora a guida Salvini), la cui traiettoria ha seguito tutt’altra linea da quella presa nel corso della legislatura dai centristi di governo.

Anche a sinistra le cose sono cambiate. Al tornante dei suoi dieci anni di vita, il Pd vede di nuovo spuntare alla sua sinistra quella molteplicità di formazioni che, nel progetto originario di Veltroni, dovevano essere superate dalla vocazione maggioritaria del nuovo partito. L’impresa non è riuscita. La forza centripeta di Renzi ha innescato spinte centrifughe anche fra i democratici, se persino il candidato premier del 2013, Pierluigi Bersani, milita oggi in un nuovo movimento, che galleggia fra il Pd e le altre piccole forze politiche che del Pd non vogliono più saperne. Grosso modo, si tratta di un’area che nel 2013 si raccoglieva sotto la bandiera della Rivoluzione civile di Antonio Ingroia: anche di questo nome si è persa memoria.

(L’unica cosa che non è cambiata è il Movimento Cinque Stelle. Il che si spiega ovviamente con il giudizio di estraneità, anzi di ripulsa, reso nei confronti degli altri, screditatissimi partiti e finanche della dialettica parlamentare. Ma anche lì qualcosa dovrà prima o poi cambiare, se i grillini vorranno tentare manovre di avvicinamento al governo del Paese).

Il secondo interrogativo è dunque: come è possibile ipotizzare che dopo il voto questo insieme di forze – così avventizio, frutto più della fortuna che di strategie precise – continuerà ad offrire la stessa fotografia che si presenterà agli italiani nella domenica elettorale? Certo, nei prossimi mesi, i tentativi di mettere mano al sistema elettorale – veri o fittizi che siano, soltanto declamati o anche praticati – proseguiranno. Non c’è solo la doverosa preoccupazione del Presidente della Repubblica per la tenuta del futuro Parlamento; c’è un evidente impasse in cui il Paese intero rischia di cacciarsi, per l’impossibilità di offrire una soluzione di governo all’indomani del voto. Ma guardiamo le cose in maniera rovesciata: se i partiti non sono in condizione di cambiare la legge elettorale, e se con questa legge ben difficilmente potranno assicurare stabilità e governabilità, non finirà con l’accadere il contrario, che cioè saranno i partiti a cambiare? Chi scommetterebbe, del resto, sulla resistenza nella lunga durata del quadro politico attuale, prodotto dal fallimento dei percorsi di riforma esperiti in questa legislatura, non certo dai suoi successi?

C’è però una differenza rispetto al passato. Tutte le legislature dell’ultimo quarto di secolo hanno conosciuto una stessa deriva verso la scomposizione di coalizioni faticosamente costruite per affrontare la prova del voto. La politica aveva le sue sistoli e le sue diastole, le fasi di avanzamento in cui l’accento era posto, per necessità elettorale, sull’unità, seguite dalle fasi di rilasciamento, in cui l’accento tornava indietro, verso la divisione. E tutti i capi di governo ne hanno fatto esperienza: Prodi e Berlusconi, ma anche, in tempi a noi più vicini, Letta e Monti. E infine Renzi, che in verità era riuscito a rimandare l’appuntamento con il Big Bang della frantumazione fino al giorno del referendum. Poi, liberi tutti.

Questi movimenti erano però gli spasmi di un sistema maggioritario rispetto ai quali i partiti riluttavano, e che quindi accettavano alla vigilia del voto solo per disfarlo il giorno dopo. Ora è il contrario: con una legge proporzionale, il moto avrà segno opposto, l’appuntamento con le urne esalterà le differenze, che il giorno dopo le elezioni bisognerà trovare il modo di superare. Ma per questo diverso andamento del ciclo politico nessuno dei partiti oggi in campo è preparato, e tutti tentano di allontanare da sé l’inconfessabile sospetto di voler “inciuciare” con gli altri (cosa invece richiesta dal sistema proporzionale). Bisognerà dunque farsi una nuova cultura politica, e non sarà semplice. E questo, a pensarci, è un terzo interrogativo, più grande ancora dei primi due: i partiti di centrodestra e di centrosinistra non vedranno ridisegnata in profondità la loro fisionomia, la loro identità e la loro stessa leadership da questa nuova necessità?

(Il Mattino, 13 agosto 2017)

La democrazia e i giochi pericolosi

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L’idea di Angelino Alfano, di rinviare il referendum costituzionale, non ha fatto molta strada. Il ministro dell’Interno l’aveva avanzata con molta prudenza, sostenendo che c’era soltanto, da parte del governo, una disponibilità a valutare l’ipotesi nel caso in cui le opposizioni avessero avanzato una richiesta in tal senso. Ma le opposizioni hanno comunicato subito, a stretto giro di posta, la loro posizione: non se ne parla nemmeno. E la cosa è finita là.

Come poteva essere altrimenti? Come si poteva immaginare che i Salvini, i Grillo e i Brunetta chiedessero per favore di lasciar perdere, e che dall’altra parte Renzi, quello che ha cominciato tutto con lo slogan “Adesso”, si risolvesse per il rinvio della data? Solo chi non ha seguito i due anni di navigazione del governo Renzi, e chi, prima ancora, non ricorda che questa legislatura è partita, sotto l’egida dell’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con il mandato esplicito di realizzare le riforme, può credere che dopo i numerosi passaggi parlamentari, dopo il voto di Camera e Senato, dopo l’indizione del referendum, dopo l’apertura della campagna elettorale, sia ancora possibile fermare il treno in corsa.

Angelino Alfano lo ha pensato per davvero? Difficile a credersi. Più probabilmente, ha pensato – o ha dato voce a chi pensa – che l’eventualità di una vittoria del No rappresenta un pericolo troppo grande che il Paese non può correre, e che dunque è necessario trovare una via d’uscita. O perlomeno prendere tempo, procrastinare, e usare i margini concessi dal rinvio del voto per una precisa manovra politica. Se infatti per far passare il referendum – questo è il ragionamento che circola in certi ambienti – bisogna scindere il suo esito dagli altri temi che nel corso della campagna si sono ad esso sovrapposti – la legge elettorale, la sorte del governo e della legislatura, il destino del premier – e se a questo fine non basta la correzione di rotta, impressa sul piano della comunicazione nelle ultime settimane, bisogna evidentemente fare di più.

Si è già data disponibilità a cambiare la legge elettorale? In effetti, è un’esigenza formulata a chiare lettere anche dal Presidente Napolitano, che Renzi stesso ha finito con l’accogliere nella Direzione nazionale del suo partito. Ma ecco: siccome non basta ancora, siccome i sondaggi rimangono sul filo e danno anzi il Sì un passo indietro, bisogna mostrare una più grande disponibilità: a superare anche il governo Renzi, se fosse necessario, per avere in cambio il sì alla riforma. Ecco allora che prende corpo l’ipotesi: un rinvio, dettato dall’emergenza terremoto, e qualche mese per costruire un diverso scenario politico in cui non sia più Renzi l’unico dominus della situazione. Un modo per cuocerlo a fuoco lento, o semplicemente per creare le condizioni perché passi la mano. In maniera indolore o traumatica si vedrà, ma intanto si sarà trovata una maniera per decantare, e al limite depoliticizzare il voto sulla riforma.

Non occorre attribuire tutti questi pensieri al ministro Alfano. È sufficiente, per comprenderne l’esternazione, tenere presente che il suo interesse e l’interesse del suo partito è quello di portare a termine questa legislatura, perché la fine anticipata rappresenterebbe la fine anche di Ncd. Un minuto dopo il No, Alfano sarebbe spazzato via. Renzi no: si giocherebbe la sua partita alle politiche, ma Alfano a quale santo potrebbe votarsi? Da una parte avrebbe il trionfo bacchico dei Grillo e dei Salvini a togliergli ogni spazio, e dall’altra avrebbe un partito democratico pronto a chiedere correzioni di rotta a sinistra.

Ma soprattutto Alfano non avrebbe (e non ha) i voti. Lo spazio della politica in cui si muove, in cui continua a muoversi, non è quello della legittimazione popolare, ma è quello dell’accordo di palazzo, tutto interno alle trame politiche che vengono tessute fuori dal confronto franco e aperto con gli elettori. È  a loro, invece, che tocca decidere se affidare alla riforma costituzionale il futuro del Paese, ed è naturale che a porre questa domanda sia il governo nato sostanzialmente a questo scopo.

Del resto, uno dei significati della riforma non è forse il compimento di una transizione costituzionale che esponga con chiarezza governo e Parlamento al giudizio del corpo elettorale? E non è dunque in palese contraddizione con il verso stesso della riforma l’ipotesi ventilata da Angelino Alfano il Temporeggiatore? Mentre si sottolinea che la riforma è indispensabile per dare alla politica più speditezza, si cercano strategie più o meno confessate per troncare e per sopire, come il Padre Provinciale dei Promessi Sposi. Ma quello, si sa, era un personaggio secondario. E forse anche l’esile trama imbastita da Alfano ha dietro di sé protagonisti innominati.

(Il Mattino, 3 novembre 2016)

Un’Italia piccola e vecchia

Daumier

Non cercate elementi di prova, nelle carte finite sui giornali: al momento, per quel che si può leggere, non ce ne sono. Voglio dire: non ci sono rilievi giudiziari che interessino il ministro dell’Interno Angelino Alfano. E però il ministro è ugualmente sotto pressione. Per colpa del padre, e del fratello. O per meglio dire: per colpa delle intercettazioni in cui si parla del padre e del fratello.

Naturalmente i giornali danno le notizie, e come potrebbero non darle? Ma gli effetti dell’ennesima bufera giudiziaria si propagano così, pure questa volta, a prescindere dalla futura valenza processuale della vicenda. E ancora una volta il solo farlo rilevare suona vergognosamente assolutorio – il che però significa che l’opinione pubblica è naturaliter colpevolista. Ha cioè acquisito, prima e indipendentemente dalle specifiche circostanze che di volta in volta vengono sollevate, che la politica è sempre uguale, sempre la stessa, e figurati se il ministro non c’è dentro fino al collo.

Vi sono due osservazioni da fare, al riguardo, ed è bene che il lettore vi rifletta sopra, anche se non è disponibile a mettere in dubbio le sue convinzioni. La prima: se questo Paese è corrotto, e lo è da vent’anni, da trent’anni, da sempre, non si può dire che i polveroni suscitati dagli scandali e la furente indignazione abbiano finora dato una mano effettiva a migliorare la qualità dell’azione pubblica. Diciamo anzi che non sono serviti affatto. Il politico di turno finisce sulla graticola e a volte si dimette. Si  dimette Mastella e cade il governo Prodi; si dimette Errani e cade il governo della Regione Emilia Romagna; si dimettono, più di recente, i ministri Yosefa Idem e Maurizio Lupi, ma queste dinamiche non incidono né poco né punto sul contenimento delle pratiche corruttive (oltre a non avere spesso alcun rilievo penale). Hanno  però enormi conseguenze politiche, possono determinare il destino politico della legislatura e del Paese, e soprattutto non aspettano le pronunce dei tribunali per effettuarsi. Anzi, l’opinione pubblica si disinteressa completamente di come le cose vanno a finire, tanto quello che si voleva sapere ormai lo si sa già: che Tizio raccomandava Caio o tramava per arrivare a Sempronio. Orbene, da questa cantilena ripetuta fino alla noia si dovrebbe trarre con franchezza la conclusione che, se è la politica che deve cambiare, per questa via mediatico-giudiziaria (in realtà poco giudiziaria e molto più mediatica) ad oggi non la si è cambiata affatto. Certo, si può aggiungere che non è colpa dei magistrati, che fanno il loro dovere e conducono le inchieste, e non è colpa nemmeno dei giornalisti, che fanno il loro dovere e pubblicano le notizie, ma sta il fatto che sempre le stesse cose tornano, come diceva Aristotele, o ciclicamente o in altro modo. Tornano, e consumano quel poco di sentimento civile che dovrebbe sostenere una riforma del costume politico e sociale del Paese. Una riforma morale e intellettuale, ancor prima che una riforma legislativa.

Perché questa è la seconda considerazione che non si può non fare, a leggere di amicizie e personaggi, di mondi di mezzo e dèmi-monde, di faccendieri affaccendati e imprenditori prenditori. Chi sono le persone di cui la politica a volte si circonda, quali legami stringono e quale tipo di fedeltà nutrono? Chi si muove nel sottobosco del potere, nelle anticamere, nei corridoi, nei labirinti dei palazzi romani? Chi sono i portatori di interesse che si incontrano a cena, chi sono gli intermediari, i maneggioni, i traffichini? Chi sono i commercialisti di fiducia? Chi sono gli ineffabili fratelli Pizza, cresciuti nella pancia della vecchia balena democristiana i quali, da quando è morta, si preoccupano solo di ricavarne del grasso? Possibile che dobbiamo ogni volta tornare indietro di centocinquant’anni e rievocare l’inflessibile Destra storica per trovare l’esempio di una classe politica (e dei suoi dintorni) davvero integerrima, e soprattutto compresa del suo ruolo e della sua funzione? Possibile che i politici non abbiano più idea di quali frequentazioni avere, dei salotti nei quali sedere, delle opinioni e delle idee con le quali confrontarsi? Perché è vero: la corruzione c’è da che il mondo dura, ma è il resto che non c’è più, in quel mondo, o c’è molto meno. Non c’è un impasto autentico, fatto di ideali, di cultura, di decoro, di rispetto anzitutto di sé oltre che delle istituzioni e dello Stato. Un impasto fatto di ambizione, anche, e di amore per il potere, ma che almeno alberghi in uomini di più grande formato, che sappiano usarlo non solo per pacchiani arricchimenti privati e altre indecenze personali, ma per difendere la propria idea del Paese, della politica e del futuro. Prima ancora che di moralità e di legalità, questi uomini, questi Giuseppe e Lino Pizza e gli altri che gli ruotano intorno, sembrano mancare di qualsiasi aspirazione a ciò che è più grande di loro.

E purtroppo, così facendo, fanno sempre più piccola anche l’Italia.

(Il Mattino, 7 luglio 2016)

Il delfino è finito nel secchio

ImmagineNell’ampio mondo delle figure retoriche con cui si racconta la politica italiana, dove svolazzano simbolicamente falchi e colombe, dove Berlusconi resta ancora il Cavaliere per antonomasia e Alfano possiede (nei giorni pari) o non possiede (nei giorni dispari) un certo «quid» dal forte valore metonimico, non ha ancora fatto la sua comparsa la metafora del secchio. La introduciamo ora, a commento di una giornata di forti tensioni non solo per il Pdl ma per il Paese intero, visto che i sommovimenti che si producono sempre più violenti nel centrodestra finiscono inevitabilmente col ripercuotersi anche sul governo.

(L’Unità, 26 ottobre 2013)

Euro e democrazia. Allarme populismo

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Si può cominciare da dove la campagna elettorale è finita – dalla piazza San Giovanni di venerdì sera, gremita all’inverosimile per l’ultimo comizio-spettacolo di Grillo – per chiedersi quanto la politica italiana sia infettata dal populismo, e se le urne ci regaleranno davvero un Parlamento affollato di parlamentari che, però, non credono nella democrazia parlamentare. Che il populismo sia una sorta di febbre che innalza la temperatura politica di un paese mettendone a dura prova la fibra è giudizio largamente condiviso, anche se, almeno entro certi limiti, si tratta di una malattia fisiologica, da cui è impossibile immunizzarsi (a meno di non voler rinunciare al suffragio universale). Le ultime battute della campagna elettorale, ma forse l’intera stagione politica che volge con queste elezioni al termine, fanno però temere che siano stati raggiunti ormai i livelli di guardia: l’astensionismo è dato in aumento, non solo il Movimento 5 Stelle, ed è diffuso nel Paese il discredito nei confronti della politica tutta. Quanto poi alla sfiducia nei confronti delle istituzioni rappresentative, sono gli stessi grillini, alfieri della democrazia diretta e della partecipazione via web, a proclamarla ad ogni occasione, trascinando in un unico giudizio le istituzioni e gli uomini che le rappresentano. Questo, peraltro, è il primo dei tratti caratteristici del populismo: la profonda diffidenza, il fastidio e infine il rigetto per tutte le forme della mediazione politica, identificate senz’altro con il compromesso, l’inciucio, l’imbroglio. Quando Grillo dice che i suoi uomini andranno alla Camera per aprirla come una scatoletta di tonno, lascia intendere che il Parlamento è per lui tutto meno che il luogo della rappresentanza: è piuttosto il covo dove si consumano truffe e raggiri ai danni dei cittadini. La polemica contro la partitocrazia finisce col tracimare, e investe poi anche i più alti organi costituzionali, giudicati volta a volta responsabili o conniventi.

E a proposito del tonno e di immagini simili, altro tratto evidente della retorica populista sono le espressioni grevi e sguaiate, spesso violente, che in queste settimane non ci sono state risparmiate. Sono servite per opporre al politichese una lingua presuntamente genuina, che dica finalmente pane al pane e vino al vino. Su questo terreno in Italia s’era già messa la Lega, nei cui discorsi non è infrequente che compaiano il turpiloquio e il vilipendio, ma anche Berlusconi, che ha provato a ripetere il refrain contro lo spregevole teatrino della politica, o Di Pietro, con le sue sgrammaticature da finto Bertoldo della politica. Oggi c’è Grillo, che di suo ci mette il gusto della battuta spesso denigratoria.

Poi c’è la faccenda del leader, di partiti fortemente personali e carismatici, sorti lontano dalle tradizioni politiche nazionali, che anzi rifiutano e dileggiano (con la conseguenza però che non si riesce nemmeno a capire a quali famiglie politiche europee appartengano, e dove andranno a sedersi il prossimo anno, dopo le europee). La personalizzazione della politica è fenomeno di lunga data, che procede di pari passo con la destrutturazione del sistema politico tradizionale e la sempre più significativa incidenza dei mass media. Il voto di oggi e domani fornisce nuovi, fulgidi esempi, a destra come a sinistra. A parte il solito Grillo, a destra, l’emancipazione del PdL dal suo padre fondatore è terminata il giorno in cui Alfano e compagni si sono resi conto che la campagna elettorale poteva farla solo Berlusconi, e così è stato. Dall’altra parte, appannatosi il fascino tutto personale delle narrazioni vendoliane, è accaduto che l’arcipelago residuo della sinistra antagonista si mettesse, per sopravvivere, sotto l’insegna di un nome e di un cognome, quello di Antonio Ingroia.

Populista è dunque il rifiuto della mediazione, populista è l’identificazione semplicistica con il capo, populista è infine la contrapposizione diretta e immediata fra élite e popolo. Vi sarebbe in verità un altro tratto rilevante, il nazionalismo (e addirittura il razzismo), ma per ora, per fortuna, ne abbiamo fatto l’economia, non essendo andati molto oltre le minuscole liste localistiche al Sud, e le consuete rivendicazioni territoriali della Lega. Sarà importante misurare la loro forza residua nelle regionali lombarde.

Ma alla forma principale con cui si presenta da noi la rivolta contro la casta – il ceto politico corrotto opposto alla gente onesta che lavora – forma che rimbomba nel grido grillino di piazza: “arrendetevi, siete circondati!”, si è aggiunto, complice la crisi, il sentimento di ostilità nei confronti della tecnocrazia europea. Una nuova linea di demarcazione sembra tracciarsi, a queste elezioni, fra quelli che vogliono tener l’Italia dentro l’euro, e quelli che invece pensano di tenerla fuori. Anche in questo caso, non c’è solo il roboante Grillo, ma pure la sinistra radicale e, a far da compagnia, benché più esitante, ancora il Cavaliere, che un giorno sollecita populisticamente propensioni antitedesche e un altro si ricorda invece di appartenere ancora alla famiglia del popolarismo europeo.

Quest’ultimo aspetto è però il più decisivo, benché una campagna elettorale deludente non lo abbia evidenziato abbastanza. Perché molto del nostro futuro dipenderà dall’Europa, le cui istituzioni non hanno però appeal presso l’elettorato e anzi scontano un pesante deficit di legittimità democratica, accentuato dalla crisi, che ha marginalizzato il Parlamento e la Commissione europea, esaltando il ruolo della BCE e gli accordi intergovernativi. Il contraccolpo è ancora una volta un balzo in avanti degli umori populisti, che si sollevano contro burocrati e banchieri centrali. Su questo si sarebbero dovuto misurare i partiti in campagna elettorale; su questo ci auguriamo che, almeno, vogliano farlo seriamente nel nuovo Parlamento

Il Mattino, 24 febbraio 2013