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La commedia degli equivoci

Menecmi

Non è certo la prima volta che la sinistra chiede ai suoi elettori di armarsi di santa pazienza. Questa volta tocca loro farlo per i risultati deludenti del voto siciliano, ma ancor più per il dibattito che ne sta sortendo.

Che non è in grado di chiarire quale sia il punto di capitone, quello intorno al quale si annoda tutto il resto: si tratta di Renzi, o delle politiche adottate dal Pd in questa legislatura? Si tratta della leadership, o del jobs act? Per un pezzo della sinistra – quella, grosso modo, che fa capo a Sinistra italiana di Fratoianni e ai nuovi eroi della società civile, i Falcone e i Montanari – il problema sono le politiche, e Renzi solo in quanto è stato lo strumento più efficace della loro attuazione. In questa chiave, fra Gentiloni e Renzi non c’è tutta questa differenza. E in verità differenza sostanziale non c’è nemmeno rispetto al precedente governo Letta, se non per questioni di stile e di energia politica. Che differenza vi può mai essere, poi, sempre dal punto di vista di questa sinistra più radicale, col Pd di Bersani che sosteneva lealmente il governo Monti, insieme a Forza Italia? Nessuna vera differenza. E a riprova: mentre Bersani celebra il Presidente Grasso come un dio, Tomaso Montanari ha già scritto una lettera aperta per dire rispettosissimamente che per lui Grasso (come ieri Pisapia) non può affatto rappresentare il mutamento di politiche di cui vi sarebbe bisogno.

Le cose stanno invece tutt’al contrario per i fuoriusciti di Mdp: per loro il problema è Matteo Renzi, e solo subordinatamente le politiche. Se non la vogliono mettere troppo sul personale diranno che è il nefando giglio magico, ovvero un certo modo di gestire il potere, oppure la concezione renziana del partito e della democrazia, o semplicemente il suo essere troppo divisivo. Ma insomma: è lui. Le politiche di questi anni c’entrano solo strumentalmente: hanno votato persino il pareggio di bilancio in Costituzione (quasi una bestemmia, per la sinistra radicale), hanno ingoiato ogni specie di rospo finché sostenevano responabilmente il governo: quale altro anfibio non deglutirebbero, una volta che si fossero sbarazzati di Renzi?

Queste cose le sanno tutti, dentro il Pd e fuori il Pd. Le sanno gli avversari interni, che, preoccupati o sollevati che siano, spingono Renzi verso il passo indietro, e le sanno quelli di fuori, che però non hanno alcun interesse a sciogliere tutte queste ambiguità.

E neppure hanno interesse a vedere quello che davvero è successo in Sicilia, dove il Pd non ha preso un solo voto in più rispetto al 2012, mentre ha subito una emorragia di voti che cinque anni fa erano venuti dal centro (dalle parti dell’Udc, non proprio una formazione di sinistra), e dove Mdp non ha aggiunto un solo voto a quelli raccolti da Fava nelle passate elezioni, quando Mdp non esisteva. Che è come dire che non esiste neanche adesso, se non come indice di un problema, certo non di una soluzione.

La soluzione, però, non ce l’ha nemmeno Matteo Renzi. Perché da un lato è perfettamente consapevole che dalla sconfitta al referendum ad oggi ha perso il suo appeal verso l’elettorato che lo aveva portato su, fino al 40% delle europee – un elettorato che solo una fervida fantasia potrebbe connotare come di sinistra, in una qualunque accezione ideologicamente significativa del termine –, ma che si trova, volente o nolente, invischiato in un logorante dibattito sul destino del campo democratico, che in realtà si fa sempre meno distinguibile, agli occhi dell’opinione pubblica, da un dibattito sul destino dei suoi gruppi dirigenti. E questa, c’è poco da fare, è una maniera sicura per avvitarsi su se stessi, e lasciare che le uniche proposte politiche credibilmente offerte al Paese siano quella del centrodestra (i cui problemi interni appaiono oggi in via di soluzione) e quella dei Cinquestelle (che per definizione problemi interni non ne hanno).

La discussione in corso a sinistra finisce così con l’essere una commedia degli equivoci: però voluti, per nulla involontari. Ci si mette in cerca del nome giusto per riunire finalmente il centrosinistra, e si fa finta che l’esigenza del partito democratico di allargare il campo, di costruire una coalizione di forze che restituisca al Pd un profilo innovatore, aperto, vincente, sia la medesima di esigenza di chi vuole semplicemente togliere di mezzo Renzi. Si cerca di produrre la necessaria discontinuità, il che di nuovo significa sacrificare Renzi, e si finge di credere che in questo modo i voti della sinistra radicale si potranno facilmente sommare a quelli del Pd. Il tutto avendo a disposizione soll quattro mesi, il tempo che ci separa dalle elezioni. Come se il centrosinistra non l’avesse già provata questa strada, nel 2001, quando a un passo dal voto cambiò cavallo e scelse Rutelli al posto di Giuliano Amato. Coi risultati che sappiamo.

Ma più di un cambiamento del genere il Pd non è in grado di proporlo, al punto in cui è. Non potendo restar fermo, è possibile che cercherà di qui in avanti tra le formule che consentano di salvare capra e cavoli: distinguendo fra premiership e leadership; fra segretario del partito e presidente del Consiglio; fra leader del partito e leader della coalizione. Come se davvero questo si aspettassero gli italiani, per portare il centrosinistra al 40%, o almeno Mdp a una percentuale di voti significativa. E poi non dite che non occorra molta, moltissima pazienza.

(Il Mattino, 8 novembre 2017)

La sinistra moderna secondo Amato

coppia_funzionale12Il mondo qual è e il mondo quale deve essere. E una sinistra che non può esistere se non cerca linee di scorrimento dall’uno all’altro mondo. Giuliano Amato ha dato un’intervista al Foglio, in cui è difficile trovare risposte banali. Qualche esempio. A proposito della situazione in Medioriente: «non possiamo fronteggiare l’onda lunga della fuga dei siriani senza affrontare in modo efficace il problema siriano». A proposito dell’accoglienza e del diritto di asilo europeo: «La strada dell’asilo europeo è giusta, ma non funziona se non si rendono europee le stesse procedure di registrazione». A proposito della sinistra continentale: «non è stata capace di produrre politiche in grado di fronteggiare e di superare la crisi economica […] e ha finito per trovare rifugio nei diritti civili. Tema sacrosanto, ma una sinistra che campa di diritti civili è una sinistra che non si sa quanto possa durare». A proposito, infine, dei populismi e delle forze anti sistema: «o mutano nel tempo o rimangono passeggeri. Vale anche per l’Italia: il giorno in cui vi sarà una forza di centrodestra capace di contendere elettori al Pd sono convinto che l’anti-politica sarà riassorbita».

Ognuno di questi giudizi può essere discusso, precisato, riveduto, ma non c’è dubbio che disegnano il perimetro di una sinistra più razionale che sentimentale, che non si innamora delle proprie idee senza preoccuparsi insieme di procurare ad esse capacità di intervento nel mondo e di governo reale delle cose. Amato indica abbastanza chiaramente da quali sirene bisogna che la sinistra sappia guardarsi. A proposito dell’ordine internazionale: da un pacifismo velleitario, che non solo ripudia la guerra, ma rifiuta pure di guardare dentro la realtà geopolitica mondiale, ed è quindi impreparata a misurarsi con la crisi drammaticamente aperte alle porte del continente: vale per la Siria ma vale anche per l’Ucraina, o per la Libia. Un conto è il mondo di pace e di cooperazione, «quale deve essere», un altro è il mondo qual è, nel quale non solo ci sono le guerre, ma c’è chi, come la Russia di Putin, non perde tempo ad occupare gli spazi che gli occidentali lasciano vuoti. A proposito dei flussi migratori, la sirena dalla quale la sinistra deve guardarsi è la sirena di un umanitarismo appassionato ma ingenuo, che in nome di una indistinta e universale solidarietà (il mondo «quale deve essere»), non predispone strumenti di governo dei fenomeni, e non costruisce un quadro regolatorio efficace. Ancora: a proposito dei temi politici interni, che contribuiscono a definire l’identità, ma anche le priorità programmatiche delle forze di sinistra, la sirena è quella di un moralismo o di un giuridicismo astratto, che si costruisce anche aggressivamente intorno alla frontiera dei diritti civili, essendo ormai sempre più intimidita sul versante della cultura economica e sociale, sicché quel che perde arretrando su quest’ultimo terreno, cerca di prendersi avanzando su quell’altro terreno. Siccome la struttura economica del mondo qual è non la si riesce a riformare, insomma, si costruiscono – in una chiave surrogatoria dell’identità progressista – altri orizzonti di riforme e di cambiamento. Infine, a proposito delle nuove istanze che si affacciano nello spazio politico, la sirena ammaliante da non ascoltare è l’infantilismo della democrazia diretta. Nel mondo quale deve essere, la disintermediazione elimina ogni problema di leadership: ognuno vale uno, e il leader è solo un megafono. Nel mondo qual è, senza leadership personali non si va da nessuna parte, e le leggi ferree dell’organizzazione costringono anche i più informali dei movimenti a mettere, prima o poi, la cravatta.

Pacifismo velleitario, umanitarismo ingenuo, moralismo astratto, democraticismo estremistico: una sinistra che si tenesse alla larga da tutte queste malattie sarebbe la sinistra dal profilo riformista su cui Amato invita a ragionare. Il ragionamento può discostarsi da alcune delle soluzioni alle quali Amato pensa. Ad esempio: la critica al fallimento dell’Occidente nel confronto con il fondamentalismo islamico è comprensibile e fondata, ma nell’alternativa che si disegna ormai in maniera ineludibile – o noi, o loro – dobbiamo comunque evitare di trascinare l’intero mondo islamico, e studiare con esso le forme di un possibile «noi e loro». Ancora: è giusto denunciare i limiti della cultura economica della sinistra europea nella crisi, ma l’analisi andrebbe forse portata più a fondo, alle condotte della sinistra da Maastricht in poi. Senza dire che è giusto ridefinire certe priorità, ma la contrapposizione fra i due versanti – quello dei diritti civili, e quello dei diritti economici e sociali – può essere forse evitata, senza pensare che le richieste su un versante siano giocoforza una forma di risarcimento per quello che non si ottiene sull’altro versante.

Si può ragionare, insomma: però c’è materia per chiamare davvero le cose col loro nome, invece di nascondersi ipocritamente i problemi. Sarebbe importante che le sollecitazioni di Amato venissero accolte, anche solo per scongiurare la tentazione minoritaria (e perdente) che consiste nel tenersi strette le proprie vecchie, care idee, perché è tanto rassicurante, pagando però il prezzo di non metterle davvero in gioco, nell’attrito vero con la realtà, cioè col mondo qual è.

(Il Mattino, 18 settembre 2015)

Bronci

“Non si può mettere il broncio ai propri tempi senza riportarne danno”. Così, con una citazione di Robert Musil, Massimo Adinolfi ha spiegato ieri il senso del “rapporto” elaborato dal gruppo di filosofia della fondazione ItalianiEuropei. Una citazione che si potrebbe considerare già smentita dal fatto che la fondazione presieduta da Massimo D’Alema e Giuliano Amato abbia un “gruppo di filosofia”, e che in quella sede, assieme a giuristi quali lo stesso Amato, Luigi Ferrajoli e Stefano Rodotà, il suddetto gruppo si ritrovi a discutere il proprio lavoro per buone tre ore.

(continua)