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Una risposta in nome della verità

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Il ritiro dell’ambasciatore italiano dal Cairo, Maurizio Massari, è un atto grave, che l’Italia non compie a cuor leggero, ma che d’altra parte non poteva non essere compiuto, al punto al quale sono giunte le cose. Trascorrono infatti le settimane, e nessun progresso sostanziale viene raggiunto sul caso Regeni. L’unica cosa chiara è che l’Italia non può accontentarsi di versioni di comodo, per giunta cucite assai male. L’incontro a Roma fra gli inquirenti egiziani e quelli italiani si è concluso sostanzialmente con un nulla di fatto, non solo sul versante delle risultanze investigative, ma anche sul soddisfacimento delle richieste presentate dall’Italia, per far luce sulle ultime ore di Giulio Regeni. Non è forse sbagliato supporre che la reticenza delle autorità cairote è direttamente proporzionale alla portata del coinvolgimento di pezzi dell’apparato di sicurezza egiziano. Si tratta solo di una congettura, ma di una congettura che i silenzi, i depistaggi e le reticenze autorizzano abbondantemente. E dunque: a meno di non voler gettare alle ortiche la dignità nazionale, occorreva dare una risposta ferma, che dimostrasse in maniera inequivocabile la ferma determinazione del governo italiano a perseguire la verità sul rapimento, la tortura e l’assassinio di Giulio Regeni.

In realtà, le ragioni per trovare una via d’uscita diplomatica sono molte, perché molti sono gli interessi in gioco. Interessi anzitutto economici, legate all’esportazione italiane in Egitto e alle risorse energetiche di quel Paese, ma interessi soprattutto di carattere geo-politico, per i quali gli occidentali cercano almeno dai tempi di Anwar Al Sadat di mantenere rapporti amichevoli con il primo Stato arabo che è riuscito a fare pace con Israele. Il regime autoritario di al-Sisi, instauratosi dopo un triennio di fortissima instabilità, rappresenta per l’Italia uno dei pochi punti fermi nello scenario mediorientale. E anche in Libia il ruolo del generale egiziano nel riportare ordine e sicurezza, contenendo le spinte islamisteradicali, può essere fondamentale.

In fondo si tratta di un ritorno al passato, dopo le burrasche disordinate delle primavere arabe: sulle sponde non europee del Mediterraneo, è sempre stato più facile cercare appoggi fra le fila laiche degli eserciti nazionali, dai quali proviene al-Sisi (come prima di lui Mubarak, come prima di lui Sadat). Anche altrove, con il colonnello Gheddafi o con Saddam Hussein, l’Occidente ha mantenuto a lungo rapporti amichevoli: in cambio del contenimento dell’estremismo islamico, si chiudeva un occhio sui metodi sin troppo autoritari impiegati con gli oppositori interni.

In una fase di crisi delle relazioni internazionali, di recrudescenza terroristica, di relativo disimpegno americano, di guerra tanto a Ovest, nel territorio libico, quanto più a est, fra Siria e Iraq, poter contare sulla forza stabilizzatrice del regime egiziano è dunque importante.

Ma se muore un giovane ricercatore italiano è importante anche la dignità nazionale.

Che non è soltanto un valore morale, un punto di principio al quale non si può rinunciare. Certamente è anche questo, e dopo avere ascoltato la madre di Giulio chiedere di fare luce sull’uccisione del figlio con la più grande fermezza di carattere è soprattutto questo. Del resto, tutta l’opinione pubblica italiana non capirebbe un atteggiamento diverso del governo, e bene ha fatto dunque Matteo Renzi a richiamare in patria il nostro ambasciatore. Ma la dignità è anche, dicevo, un valore politico, un elemento di credibilità del paese. Riuscire a tenere ferma la domanda di verità è, in fondo, una dimostrazione di forza. Indica una certa maniera di far valere la propria sovranità nelle relazione fra gli Stati. Per un Paese spesso accusato di essere troppo accomodante, di tenere condotte compromissorie, di usare astuzie levantine per non avere guai in casa, di trattare e pagare riscatti per risolvere i rapimenti e di non volere mai esporsi veramente, la crisi diplomatica che si apre con l’Egitto di al-Sisi è una prova di maturità. Può darsi che l’Egitto non possa permettersi di svelare cosa sia veramente accaduto al povero Regeni, perché le conseguenze politiche sul regime sarebbero troppo serie. Può darsi che anche le più pressanti richieste italiane rimarranno, dunque, inevase. Può darsi, anzi è probabile: di questa pasta sono fatte le relazioni internazionali. Così è probabile che, finché sarà possibile, l’Italia ribadirà l’amicizia con il popolo egiziano. Ma appunto: ritirando l’ambasciatore, l’Italia dice agli amici egiziani che non tutto è possibile al nostro Paese. È bene che lo sappiano, e che si regolino di conseguenza.

(Il Mattino, 9 aprile 2016)

Il Mattino, 5 agosto 2009

«Amici, amici, non ci sono più amici!», diceva Aristotele, e siccome sono passati più di duemila anni, e quegli amici ai quali il filosofo voleva spiegare quanta rara fosse la vera amicizia devono essere passati a miglior vita da un pezzo, la situazione, per l’amicizia, s’è fatta veramente difficile.
L’insegnamento di Aristotele ha attraversato i secoli ed è giunto sino all’arcivescovo di Westminster, Vincent Nichols. Il quale però non si è limitato a dire che gli amici sono rari, o a distinguere, come il Filosofo, le amicizie interessate (tante) dalle amicizie disinteressate (poche, pochissime). Né ha pensato di sollevare l’aporia che i rivoluzionari francesi hanno lasciato in eredità al mondo moderno, non spiegando come promuovere la «fraternité» che mettevano accanto alla «liberté» e all’«egalité», sicché si sono fondati per secoli partiti della libertà o dell’eguaglianza, mentre alla più amichevole fratellanza è andato solo l’omaggio formale tributatogli con l’Inno alla gioia di Beethoven nelle cerimonie ufficiali dell’Unione europea.
No, Nichols ha voluto aggiungere di suo una più che preoccupata riflessione a proposito dei social network che vanno oggi per la maggiore, come Facebook, Myspace o Friendfeed, sui quali è possibile fare un mucchio di nuovi amici: basta accettare con un clic la richiesta di amicizia di chi viene a bussare alla tua homepage, e il contatto è stabilito. Nichols ha spiegato molto saggiamente che la vera amicizia è un’altra cosa, che non si può chiamare amicizia uno scambio virtuale di messaggi tra perfetti sconosciuti, che quel che conta non è la quantità di amici, ma la qualità, e che la superficialità di una simile rete di relazioni mette in pericolo il valore stesso dell’amicizia. Esagerando un po’, ha infine paventato il pericolo che il trauma causato dal vedersi rifiutata l’amicizia online possa indurre i giovani al suicidio – nel che è evidente che le paure per la sorte dei giovani sono anzitutto le paure che l’incapacità di padroneggiare nuovi strumenti suscita invece nei vecchi.
Che si tratti di esagerazioni è facile, peraltro, mostrarlo. Per rimanere in materia, basti pensare che la stessa preoccupazione nutrita dall’arcivescovo si manifestò quando comparvero i primi amici di penna: qualcuno pensò che con la diffusione della scrittura il numero di falsi amici sarebbe incredibilmente aumentato, visto che è molto più facile simulare amicizia per iscritto che non guardando qualcuno negli occhi. L’autenticità andava a farsi benedire – e pare andarci sempre più, nell’epoca della moltiplicazione tecnologica dell’amicizia.
Più in generale, la denuncia del carattere disumanizzante della tecnica accompagna l’uomo da che è uomo. Si potrebbe addirittura provare a definire la specie umana in ragione della capacità, che possiede in esclusiva, di disumanizzarsi: in effetti, nonostante i profondi cambiamenti intervenuti nei loro rispettivi ambienti naturali e stili di vita, a cavalli o cani, gatti o piccioni proprio non è riuscito, di disanimalizzarsi.
La denuncia si è poi andata accentuando via via che si è accentuato l’impatto dell’innovazione tecnologica sulle nostre vite, e sotto questo aspetto la presa di posizione di Nichols rientra a pieno titolo nel filone di interventi allarmati nel quale spicca l’ottocentesco anatema di papa Gregorio XVI contro le ferrovie, strumento del demonio: si vedeva infatti che, facilitando gli spostamenti, sradicando dal suolo natio, i binari portano lontano dalle tradizioni e dai costumi aviti (e quindi anche dagli amici, dalle mogli e dai buoi dei paesi tuoi). Disumanizzano, appunto.
Ora, se non si vuole che simili angosce vengano ridicolizzate, occorre perlomeno rispettare una regola vecchia come una favola di Esopo: gridare “Al lupo! Al lupo!” ad ogni nuova moda non aiuta a capire se e quando la tecnica ha raggiunto davvero una soglia decisiva, se davvero la nostra umanità è minacciata dal lupo famelico della tecnica. E invece una volta gli arcivescovi, un’altra i sacerdoti laici delle anime, cioè gli psicologi di ogni specie (questi ultimi in verità persino più di frequente) non si può dire che gli uni e gli altri abbiano mai saltato un giro: prima la televisione, poi i videogames, quindi i telefonini, infine l’Ipod, ora i social network, ad ogni novità non fanno che mettere in guardia contro il disumanizzante predominio della tecnica. Senza dire che, non fosse per la tecnica, saremmo ancora come i gatti o i piccioni.
Dopo di che non ci è però proibito di pensare a quel che sta succedendo adesso, sotto i nostri occhi. A come cambiano le nostre vite. E pensare significa sottrarsi ai due atteggiamenti più facili. Uno è facile individuarlo: si tratta di quel riflesso conservatore per cui ad ogni cambiamento si sospetta che l’umanità sia alla fine. Al suicidio. La reazione Nichols, insomma. L’altro è invece più sottile, ma non meno familiare, e consiste in quella generica fiducia liberale per la quale siamo portati a pensare che, cambiano i tempi, cambiano i modi, ma l’uomo è sempre lo stesso – e così pure l’amicizia. E in questo modo in nessun cambiamento si riesce più a vedere non quel che viene alla fine, che se è giunto alla fine è probabile dovesse finire, ma quel che invece può avervi radicalmente inizio.
(Come si capisce, sono rientrato dalle ferie)