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La Capria e la sfida al lettore italiano: impara a leggere

ImmagineGiusto cent’anni fa, nel 1913, Marcel Duchamp mise una ruota di bicicletta su uno sgabello, e la espose: era il primo ready-made della storia. Il primo oggetto d’arte che non bisognava fare – concepire, poi realizzare, infine cesellare – perché era già fatto. Cinquant’anni fa, poco più, Andy Warhol espose in una galleria di New York i suoi primi barattoli di zuppa di pomodoro Campbell. Trentadue, per l’esattezza. Tra gli interrogativi più profondi che l’opera di Warhol poneva vi era il seguente: si tratta di un’unica opera composta di trentadue pannelli tutti uguali, o si tratta invece di trentadue opere esposte le une accanto alle altre? Per il resto, quel che c’era da vedere era precisamente il barattolo, riprodotto trentadue volte. Ieri, infine, Raffaele La Capria ha inviato una lettera al «lettore italiano», per il tramite del quotidiano Il Foglio, lamentando con garbo ed ironia quanto poco questa figura, forse ormai in via di estinzione, si sia dato pena, negli ultimi decenni, di leggere i libri dello scrittore napoletano. Libri buoni, ben scritti, con gli aggettivi giusti e uno stile ben definito, che però il lettore italiano ha continuato a lasciare sugli scaffali, continuando a comprare invece libri scritti male, che non valgono niente, che sono un monumento all’ignoranza, e che tuttavia si vendono in quantità industriale. Come la mettiamo? Possibile – si chiede La Capria – che solo un mio libro, Ferito a morte,  abbia venduto bene, e tutti gli altri no?

Il direttore del giornale, Ferrara, dà la risposta che ci si aspetta da lui, e salta a piè pari il problema. Io, caro La Capria, ti leggo – assicura Ferrara – come mai non ti basta? Ovvero: perché ti ostini a pretendere, anche adesso che hai novant’anni, che la qualità si incontri con i gusti della maggioranza? Perché vuoi gettare le perle ai porci?

Già: perché ostinarsi? Perché non dovrebbe bastarci che da una parte se ne stiano gli artisti, i letterati, gli intellettuali, gli unici in grado di toccare le più alte sfere dello spirito umano, e da un’altra parte invece rimangano tutti gli altri, con i loro gusti triviali, con le loro preferenze dozzinali, con la loro estetica degradata di massa?

Io sospetto che almeno una parte di questa ostinazione discenda dalla ruota di Duchamp e dal barattolo di Warhol, cioè dal tentativo di forzare i rispettivi confini di quelle regioni: mettere una ruota di bicicletta in un museo significa costringere i visitatori a lasciar perdere la bellezza e a guardare finalmente il museo, il fatto stesso che si sia in quel luogo e che lì l’arte vi venga esposta. Che significa? Cosa rende possibile una simile fruizione dell’arte, e soprattutto a chi la rende possibile? A cosa serve, e soprattutto a chi serve, l’algida distanza fra arte e vita? Allo stesso modo, riprodurre un oggetto di uso assolutamente comune, senza nessun lavorio artistico, senza nessuna particolare ingegnosità, senza l’aiuto del mestiere o l’assistenza di una divina ispirazione significa farla finita con l’ideale, farla finita con la profondità, finirla anche con la sublimazione, e dipingere né più né meno quello che siamo: gente che beve Coca-Cola e mangia zuppa di pomodoro.

Warhol stessa vedeva bene, in realtà, quello che sarebbe potuto capitare, se si fosse presa sino in fondo una simile strada. Un anno dopo la mostra che lo consacrò ad icona dell’arte americana e mondiale, in un’intervista rilasciata nel 1963,Warhol disse: un giorno succederà che ciascuno sarà felice di pensare soltanto a quello che vuole lui, e proprio così, probabilmente, tutti finiranno col pensare le stesse cose. Questo mi sembra quello che sta accadendo, concluse; e questa è anche la ragione per cui La Capria non sarà molto contento di vedere comprese le sue ragioni con i barattoli di Warhol: non è forse l’esito che vorrebbe scongiurare, con i suoi testi, evitare che il mercato editoriale sia dominato da libri prodotti in serie, privi di qualunque differenziazione estetica, tutti uguali come i barattoli al supermercato?  O forse: evitare almeno che si sia persa qualunque percezione del problema? In fondo Ferrara vede bene dove sia il problema, però lo dichiara irresolubile, si limita a leggere La Capria lui solo e a evitare come la peste il supermercato del libro. Ma La Capria no, non si è rassegnato, il suo spirito illuministico lo porta ancora a dire che una via di mezzo fra la letteratura come prodotto squisito per pochissimi eletti e il banale contrabbandato come letteratura ci deve essere, deve essere ancora cercato (siamo sicuri infatti che La Capria non finirà affatto di pubblicare: o almeno ce lo auguriamo).

Non occorre, ora, prendere partito: basta, ripeto, vedere il problema. E poi magari ascoltare il governatore di Bankitalia, Visco, osservare ieri come in Europa vi sia una differenza sensibile, in termini di occupazione, fra diplomati e laureati, mentre in Italia no, le percentuali sono identiche. E in attesa che la teoria estetica si interroghi ancora e sempre su cosa sia arte e cosa no, provare almeno a mettere mano a quest’ultimo problema. Non per far vendere più libri a La Capria, ma per far lavorare qualche laureato in più. E per non rassegnarsi all’estetismo e al cinismo di Ferrara.

(Il Mattino, 20 ottobre 2013)