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Il voto non scaccia le paure globali

naphta

Il succo del commento rilasciato, a proposito del dibattito televisivo fra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, dal premio Nobel per l’economia  Joseph Stiglitz su Les Echos, il principale giornale economico-finanziario francese, è il seguente: «L’idea che gli elettori, da soli, si opporranno al protezionismo e al populismo non può essere altro che un pio desiderio cosmopolita». Traduco: la globalizzazione è un processo diseguale, che fa vincitori e vinti. Pensare che i vinti votino per Macron, cioè per il campione della globalizzazione, è un’illusione. La Le Pen si oppone alle politiche neoliberali che hanno accompagnato negli ultimi trent’anni l’espansione dei mercati. Non basta che le ricette che propone siano confuse o sbagliate, o persino disastrose: sono comunque espressione di un risentimento che trova consensi nei ceti medi impoveriti dalla crisi, e che non verrà meno solo perché il lepenismo lo alimenta con tratti xenofobi o accesamente nazionalisti, con la paura dell’immigrato o con il terrore di Frau Merkel. Il protezionismo sarà anche una minaccia per l’economia mondiale, ma se i flussi economico-finanziari tagliano fuori una fetta della società sempre più estesa, non si vede perché questa parte della società non dovrebbe manifestare tutto il suo malcontento e volgersi verso ricette di tipo protezionistico. Non è quello che è successo nel Regno Unito, con la Brexit, o in America, con Trump? Perché mai non potrebbe succedere anche in Francia? Stiglitz non conclude il suo ragionamento con una previsione funesta sul voto francese, ma con un invito ad adottare politiche in grado di assicurare un buon livello di protezione sociale e buoni livelli occupazionali.

Ora, vi sono due cose che rimangono implicite nel ragionamento di Stiglitz e che però conviene esplicitare. La prima: il voto francese conta, eccome se conta. Se la Le Pen dovesse vincere, smentendo tutti i sondaggi, l’Europa e l’Unione, non solo la Francia, non sarebbero più le stesse. Nulla del paesaggio politico che oggi osserviamo rimarrebbe immutato, di là e di qua delle Alpi. Questo non è un argomento sufficiente per votare Macron, come Stiglitz spiega. Anzi: quelli che l’attuale paesaggio lo hanno in odio, possono trovarvi un motivo in più per votare la destra lepenista. Ma è comunque sbagliato ragionare solo sulla base delle percentuali che la Le Pen raccoglierà nelle urne. Quale che sia l’esito del voto, una minaccia latente graverà sul corso della politica europea finché i suoi nodi strutturali non saranno risolti. Tirato il sospiro di sollievo per la vittoria di Macron (posto che davvero andrà così) non verranno meno le ragioni dello spavento. All’indomani del primo turno, lo dichiarava il Presidente Hollande: i sette milioni e mezzo di francesi che hanno votato Le Pen non evaporeranno sol perché Macron ce l’avrà fatta (posto che davvero ce la faccia). Stiglitz auspica per questo una riforma sociale del capitalismo, che considera l’unica risposta seria al pericolo populista. Forse, aggiungo, andrebbe accompagnata da una ripresa robusta del processo politico europeo di integrazione. Anzi: da una sua più coraggiosa reinvenzione.

Il secondo punto è più sottile, ma non meno importante. Poniamo che l’alternativa sia: prendersela con gli altri, piuttosto che con se stessi. Ebbene: non sarebbe una pia illusione pensare che, in una tale ipotesi, gli elettori se la prenderebbero con se stessi? Socrate pensava che è più giusto subire che commettere ingiustizia, ma si può chiedere non a un filosofo ma a ciascuno e a tutti noi di ragionare come Socrate e bere la cicuta? Non si cadrebbe in un vizio di idealismo imperdonabile, nella solita chiacchiera illuministica che ignora la vita reale dei popoli? Se dunque si offre all’opinione pubblica un nemico, il nero l’immigrato il musulmano (e con la Le Pen c’è purtroppo ancora da aggiungere l’ebreo, temo), cosa bisogna pensare, per essere realisti e non farsi illusioni, che accada?

Quel che accade, lo si vedrà al secondo turno. Si vedrà se prevarranno i sentimenti di chiusura, lo sciovinismo, la paura dell’altro, il rifiuto della libera circolazione di beni, servizi, persone e idee, su cui si fonda, pur con le sue storture e brutture, il mercato mondiale (e insieme – si badi – il suo grado di civiltà). Stiglitz sostiene che le paure che circolano nella società francese, ed europea, sono fondate, e che non le si può semplicemente ignorare. Ha perfettamente ragione. Se per giunta una buona parte degli elettori della sinistra estrema di Mélenchon non sosterranno Macron, vuol proprio dire che il punto di rottura della società francese è pericolosamente vicino. Ma il sentiero del riformismo che Stiglitz invita a perseguire, prima ancora di essere profondo o radicale, come un New Deal europeo o come un nuovo piano Marshall per le infiacchite economie del continente, bisognerà che sia almeno nutrita di un’ultima, forse residuale illusione: che non sempre e non necessariamente scatta il meccanismo del capro espiatorio. Se invece si concede ai nemici della società aperta che diritti fondamentali e valori illuministici di progresso, razionalità, libertà sono sempre astratti, sempre freddi oppure tecnocratici, buoni solo per le élites e comunque sempre lontani dai veri bisogni (una volta si diceva con una parola soltanto: borghesi), allora si finirà davvero a mal partito. Magari non in un dibattito televisivo o in un confronto politico, ma sicuramente sul piano delle idee e della battaglia culturale. Ben oltre il voto di domenica. È, questa, una concessione che non si deve fare. Una concessione che, più ancora di Macron, è l’Europa che non deve fare, se non vuole rinnegare se stessa.

(Il Mattino, 5 maggio 2017)

Heidegger antisemita e i conti aperti con la storia

Come ha dimostrato Donatella Di Cesare nel suo recente libro su Heidegger e gli ebrei, l’antisemitismo del filosofo di Messkirch e la sua adesione al nazismo non possono essere considerati semplici accidenti. Gli episodi pubblici, del resto, e il profilo biografico di Heidegger sono noti ormai da molto tempo e non lasciano adito a dubbi. Ma la pubblicazione dei Quaderni Neri (progettata dallo stesso filosofo) aggiunge altre tinte a un quadro già fosco e obbliga a riaprire la discussione. Nell’ultimo volume, che sta per vedere la luce in Germania, Heidegger parla infatti della Shoah come dell’«autoannientamento» degli ebrei. Finora Heidegger era stato attaccato per il suo silenzio sull’immane genocidio: ora siamo messi di fronte alle sue parole, e non è più possibile parlare di debolezze morali, di errori, pavidità o altro. Finora ci si chiedeva perché, anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, Heidegger non avesse mai preso le distanze pubblicamente dal nazismo e dal suo passato. Ora sappiamo che non era soltanto il suo passato, neanche dopo il ’45, e che quelle distanze non le ha prese perché, in fondo, non c’erano. Per lui, la colpa degli Alleati, che avevano vinto la guerra, era persino maggiore dei crimini nazisti. E il fatto che l’antisemitismo di Heidegger non poggiasse su basi razziali probabilmente non diminuisce ma aumenta la responsabilità del suo pensiero.

Ma un conto è domandarsi come sia possibile che uno dei più grandi filosofi del Novecento abbia potuto condividere il destino politico del nazionalsocialismo; un altro è invece concludere in maniera sbrigativa che Heidegger, se dunque fu nazista, non fu affatto quel gran filosofo che si dice, come se la sua compromissione col nazismo inficiasse anche l’intero suo itinerario filosofico. O come se fra un Heidegger e un Goebbels alla fin fine non ci fosse poi tanta differenza. E come nessuno si sogna di leggere quest’ultimo, se non per ragioni strettamente storiche, così nessuno dovrebbe più leggere Heidegger, per lo stesso motivo. Ovviamente non è così, e una polemica condotta in tal modo rischia persino di essere fuorviante. Il rapporto fra vita e pensiero è esso stesso un problema filosofico, e non basta inorridire dinanzi alla prima per ritrarsi anche dinanzi al secondo.

In certi casi ciò è evidente. Spesso ci si dimentica dell’antisemitismo di Gottlob Frege, uno dei padri della logica del ‘900, ma nessuno si sognerebbe di desumere dalle sue opinioni un giudizio sul suo lavoro di logico. Nel caso di Heidegger la faccenda è più complessa ed anche più scabrosa, non solo per il tempo in cui Heidegger ha vissuto e per i giudizi che ha reso, quanto piuttosto perché diversa è la modalità con cui si annodano nel suo pensiero il piano storico-esistenziale e quello concettuale. Ma purtroppo per sciogliere questo nodo non basta vedere quale funesta prova abbia dato di sé il pensatore della Foresta Nera.

Infine, il nazismo di Heidegger non è sufficiente nemmeno per dare un giudizio liquidatorio su quei versanti del pensiero europeo del dopoguerra che hanno largamente attinto alla sua lezione filosofica. In Italia Gianni Vattimo è stato tra i primi a discutere Heidegger, sdoganandolo – come si dice – a sinistra, e ora quasi si risente per tutte queste polemiche. Ma non c’è bisogno di minimizzare né di sentirsi chiamati in causa. È sufficiente invece far presente che, se fosse solo questione di cattivi maestri, forse non dovremmo più aprire alcun libro di filosofia, o quasi.

(Il Messaggero, 9 febbraio 2015)