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Ma quelle inchieste hanno segnato una stagione politica

osteria-del-tempo-persoNon c’è due senza tre. O quattro, o non importa più quante siano le assoluzioni con cui si sta concludendo l’offensiva giudiziaria che qualche anno fa mise sotto scacco la politica campana per via della crisi dei rifiuti. E relegò ai margini della vita politica Antonio Bassolino, che ieri ha collezionato un’altra sentenza a lui favorevole. Ora di lui si parla come di un possibile candidato a Palazzo San Giacomo, e tutti sono costretti a misurarsi sulle sue intenzioni, dal momento che gode ancora di un’ampia popolarità, ma di mezzo, fra la fine della sua esperienza come Presidente della Regione Campania e la stagione che forse si aprirà il prossimo anno, con le elezioni comunali, si srotola la lunga fila dei procedimenti giudiziari risoltisi in un nulla di fatto. Certo, quelle inchieste trovavano ampio spazio ed eco sui giornali, ma come poteva essere diversamente? I giornali avranno pure le loro colpe, ma se tu metti sotto inchiesta il principale protagonista politico del Mezzogiorno (questo era Bassolino, all’epoca dei fatti), è inevitabile che si sollevi una grande burrasca mediatica. E infatti la burrasca c’è stata, e con la burrasca gli effetti politici delle iniziative della magistratura.Qual era il loro fondamento? Erano forse improvvide, frettolose, approssimative? La valutazione deve ovviamente farsi sulle carte processuali, e attenersi solo a quelle. Non è possibile generalizzare mettendo insieme procedimenti diversi, neanche quando riguardino lo stesso soggetto. Sta di fatto che la cosa colpisce: c’era un colpevole, mille volte colpevole, e ora non c’è più. Avevamo un capro espiatorio e ora non possiamo più prendercela con lui (se ne cercheranno forse altri?). Alla luce però di questo esito, così diverso da quello che l’opinione pubblica si attendeva quando fioccavano i provvedimenti dei magistrati, si ha tutto il diritto – anzi: il dovere – di chiedersi cosa conti davvero: il giudizio di colpevolezza che ha tenuto di fatto banco per anni, o la ritrovata innocenza di queste ore? Purtroppo – prestate pure le migliori intenzioni a tutti i protagonisti della vicenda – si rimane con la sgradevole sensazione che conta di gran lunga di più il primo. Le lancette non tornano indietro,  il tempo passa, il mondo va avanti per conto suo senza aspettare le future assoluzioni e fare prima un passo avanti e poi un passo indietro non riporta affatto le cose là dov’erano, soprattutto quando tra un passo e l’altro trascorrono poco meno di due lustri.

C’è un’altra sgradevole sensazione che si accompagna alla prima, ed è che tutta questa vicenda non solo ha falsato, o almeno pesantemente condizionato il corso politico della Regione (e quello del Comune, perché dal ciclone delle inchieste è stato investita anche la giunta Iervolino), ma ha pure sequestrato la nostra opinione sulla gestione dei rifiuti e gli errori commessi, come se contassero solo le sentenze, là dove appunto si aspetta che parlino le sentenze, e non invece il giudizio politico su quei fatti. Una vicenda di carattere amministrativo viene portata su un altro piano, di carattere penale, e tenuta lì per anni, finché un bel giorno si scopre che sul piano amministrativo doveva stare e su quel piano soltanto essere se mai giudicata.

Vi sono almeno due spinte culturali rilevanti, di carattere generale, che si possono descrivere a partire da questa vicenda. La prima riguarda la sempre maggiore estensione dell’attività giurisdizionale. È una tendenza forse inevitabile, dovuta alla crescente complessità della vita sociale e alle insufficienze del mero piano normativo, che non riesce più ad essere abbastanza stretto da aderire da vicino ai fatti, e non permette quindi al magistrato di lasciar parlare solo la legge, di scomparire dietro la sua applicazione. La legge da sola non parla, e il magistrato interpreta. Non può non andare così; e però, proprio perché va così, nelle procure e nei tribunali su su fino all’Alta Corte, occorre immaginare qualche nuovo punto di equilibrio, qualche ancoraggio in più dell’attività giurisdizionale (e magari qualche esuberanza e qualche ansia giustizialista in meno).

L’altra spinta punta a chiedere una penalizzazione sempre crescente, come se l’unica sanzione che i cittadini esigano che venga irrogata fosse quella penale, anzi carceraria, e nessuna squalifica di ordine morale, o sociale, o politico, soddisfacesse il bisogno di giustizia (o forse si tratta di qualche forma di sotterraneo risentimento nei confronti dell’uomo pubblico?). La legge penale però ha ancora le sue regole, e speso si finisce così con un pugno di mosche in mano. Il che procura pure un effetto di retroazione altrettanto sgradevole,, per cui la frustrazione per la mancata punizione si traduce in nuove richieste di rigore, di pene, di manette.

Non si può dire, a conclusione di questa storia: chi ha avuto, ha avuto. Troppo poco. Gli anni della presidenza Bassolino alla Regione Campania tornano ad essere offerti ad una valutazione di carattere ormai storico-politico, sulla mancata risoluzione di certi problemi e sulle sue cause. Ma alle forze politiche tocca oggi provare a dire, o a fare, qualcosa di più.

(Il Mattino, 28 ottobre 2015)

Bassolino bis, avanti tutta nel vuoto del Pd

bassolinoSpiace un po’ per i nipotini, ma è ragionevole pensare che il nonno, nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, avrà un po’ meno tempo per loro. Antonio Bassolino è ormai ai nastri di partenza. Tutto, naturalmente, può succedere ancora. La fase di ascolto della città, inaugurata qualche settimana fa, non si è ancora conclusa, ma è difficile ipotizzare che svanisca in una bolla di sapone il gran parlare di questi giorni sulla candidatura di Bassolino a sindaco di Napoli.

Perché d’altronde dovrebbe tirarsi indietro, se è bastato che il suo nome circolasse per mettere a subbuglio il partito democratico. Forse perché la campagna elettorale si risolverebbe in un giudizio sul passato, invece di dare indicazioni sul futuro? Oppure perché Bassolino rappresenterebbe il vecchio? Il fatto è che il vecchio diventa vecchio quando il nuovo lo sopravanza. Se il nuovo non ce la fa ad avanzare, c’è poco da fare: il vecchio ne fa un sol boccone.

La questione della candidatura di Bassolino è infatti un problema per il partito democratico, non certo per Bassolino medesimo. È il Pd che deve tirar fuori qualche nome da buttare nella corsa delle primarie. Anzi, non andrebbe detta nemmeno così, perché al partito democratico compete solo l’organizzazione della competizione: il resto lo deve fare il voto. A meno che non si raggiunga un accordo ampio su un candidato unitario. che raccolga il consenso di tutti, o quasi, nella direzione regionale del partito. Quando però i democratici cominciano la ricerca di questo nome fatidico, tutto si impantana fra veti reciproci, vecchi vizi e antiche debolezze, e il nome non salta fuori.

D’altronde, che nome cercherebbero i democratici? Bassolino corre, se corre, per vincere. Non è detto ovviamente che gli riesca, ma la sua candidatura manda in secondo piano tutto il resto: la costruzione della classe dirigente, il rinnovamento generazionale, il profilo del partito democratico, il rapporto con la regione o quello col governo nazionale. Tutte cose che vengono dopo, e che con Bassolino in campo subiscono una torsione profonda: del resto, non è stata la sua prima stagione di sindaco della città di Napoli a imporre il tema della leadership personale, poi ripropostosi anche nel Paese? Vi sono stati altri interpreti, nel centrosinistra campano, di una simile stagione? Uno in verità c’è stato, si chiama De Luca e siede a Palazzo Santa Lucia (e probabilmente non è entusiasta del ritorno di Bassolino). Ma, per il resto, non se ne sono visti.

Per il partito democratico si avvicina perciò il dilemma a cui diede forma Arturo Parisi negli anni dell’Ulivo, con nobile senso della sconfitta: meglio perdere che perdersi. Ma è davvero così? A livello nazionale,  il partito democratico, forse, non ha proprio deciso di perdere l’anima, ma di sicuro a giocare per perdere non ci pensa nemmeno: Renzi non è affatto il tipo. E a Napoli? Anche a Napoli, dopo la batosta del 2011, e senza tuttavia aver fatto molto in questi anni per dotarsi di un profilo vincente, non pare che ci sia qualcuno disposto a intestarsi una sconfitta, magari per cominciare da lì la costruzione di una nuova fase. Bassolino è dunque in campo, o lo sarà a breve, perché offre al Pd almeno una chance di rovesciare l’assioma di Parisi: meglio, molto meglio vincere, e, quanto al resto, si vedrà.

Certo, è possibile che candidando Bassolino il Pd faccia un regalo a De Magistris e ai grillini, che avrebbero un argomento in più per imbastire la retorica del cambiamento contro le vecchie nomenclature, soprattutto se o’ Sindaco facesse l’errore di formare la sua squadra guardando all’indietro e pescando nel passato. Ma il fatto è che si fa un errore ancora più grande pensando che il Pd candidi Bassolino: lui, infatti, si candida da sé, com’è nello spirito delle primarie democrat, che mettono davvero pochi paletti alle candidature. Presto perciò il dibattito si farà stucchevole, e a meno che il Pd non voglia logorarsi, come già altre volte, in inutili e sfiancanti discussioni sulle regole e i tempi e i modi della sfida elettorale, farebbe molto meglio a ragionare solo e unicamente sul punto politico che la candidatura di Bassolino pone: ce l’ha il partito democratico un candidato migliore?

Così stanno le cose: poco altro rimane da ragionare. Intanto, alla presentazione del film-documentario sul Mattino Bassolino, ovviamente, c’era. I nipotini no. E Bassolino non stava lì, nel suo palco, per fare solo da comprimario. Pochi, del resto, tra quanti si sono fermati a parlare con lui, hanno avuto l’impressione che la sua principale passione ed il suo assillo fosse ancora e soltanto scalare le Dolomiti.

(Il Mattino – ed. Napoli, 30 settembre 2015)

Perché si torna a parlare di Bassolino

Acquisizione a schermo intero 19082015 154614.bmpIl «nonsipuotismo». Antonio Genovesi aveva battezzato così il sentimento profondo e inguaribile dell’impossibilità di cambiare le cose, la rassegnazione, la sfiducia, il cronico disincanto. Antonio Bassolino divenne sindaco di Napoli, ormai più di vent’anni fa, con l’obiettivo di curare la malattia. E per qualche tempo ci riuscì.

Se oggi l’ipotesi di una sua candidatura a Palazzo San Giacomo riempie le pagine dei giornali, e stuzzica i napoletani, è forse perché è il partito democratico ad essere affetto dalla malattia: il numero delle cose che pensa non si possano fare cresce ogni giorno di più. Non si possono fare le primarie, non ci si può dividere un’altra volta in maniera lacerante, non si può andare con De Magistris, non si può confidare nella società civile, non si può convergere su un nome unitario, non ci si può affidare a un volto nuovo, non si può aspettare la benedizione di Matteo Renzi, non si possono imporre nomi e però non si possono neppure sceglierli e votare, i nomi. Non si può commissariare il partito ma neppure si può fare la scelta all’interno degli organismi di partito, perché non hanno sufficiente forza e legittimazione per tenere tutti insieme. Non si può questo e non si può quello: più sfiduciati di così si muore.

Qual meraviglia, allora, se in mezzo a tutti questi «non possiamo» – che sono in realtà dei «non vogliamo» – torni di nuovo in lizza il nome di Bassolino? Il quale aspetta sornione e sta a vedere se davvero tutto riprenderà a ruotare intorno a lui, come fosse il motore immobile di Aristotele: non è lui, infatti, che si muove e si affanna in cerca di una candidatura. Sono gli altri, che non potendo andare da nessun’altra parte, per giri ora più grandi ora meno grandi si avvicinano a lui.

E così, dopo la vittoria di Vincenzo De Luca alle regionali, il film della politica campana rischia di girare davvero il sequel degli anni Novanta. Ma cosa vorrebbe dire il possibile ritorno di Bassolino? È banale dirlo, ma il primo significato di una simile, clamorosa rentrée sarebbe una condanna per incapacità della classe dirigente espressa dal centrosinistra negli ultimi cinque, dieci anni. Prima ancora di affrontare la competizione elettorale, il Pd ammetterebbe che dalle sue fila non è venuta fuori un solo nome in grado di proporsi credibilmente per le elezioni municipali. Il che è abbastanza paradossale, visto che il Paese vive in questo momento un profondo rinnovamento generazionale: basta guardare la composizione del governo nazionale.

Ovviamente, il nuovo per il nuovo non è mai stata una vera proposta politica: funziona nei momenti di rottura, e rischia di alimentare risposte avventuristiche: l’esperienza di De Magistris docet. Ma rimane il fatto che l’eventuale candidatura di Bassolino apparirebbe come un ripiego, come una scelta necessitata da insipienze, veti e inconcludenze. Non sarebbe il frutto di una nuova scommessa, ma casomai del rifiuto di scommettere ancora.

Tutto ciò non riguarda, ovviamente, il piano personale. Sul quale Bassolino fa bene a togliersi qualche piccola soddisfazione, essendo uscito dal cono d’ombra nel quale era stato troppo frettolosamente relegato. Ma il primo a sapere che non sussistono oggi le condizioni che lo portarono a vincere nel ’93 è lui.

Si era allora in piena Tangentopoli, la classe dirigente democristiana e socialista era franata rovinosamente, e intorno a Bassolino si raccolse tutto il contrario del «nonsipuotismo»: una speranza di rinnovamento e di rinascita, favorita anche dalla riforma istituzionale dell’elezione diretta dei sindaci, sullo sfondo di un panorama partitico disastrato. Oggi, la crisi della politica, sia locale che nazionale, ha prodotto soggetti come Luigi De Magistris da una parte, e i Cinquestelle dall’altra, che provano entrambi a legittimarsi in chiave polemica nei confronti del governo politico nazionale: De Magistris per spostare l’attenzione e il giudizio degli elettori dal piano amministrativo a quello politico; i Cinque Stelle perché ancora ben lontani dall’essersi provati nei consigli locali. Il Pd è invece alla guida del paese e del Mezzogiorno. È la principale infrastruttura su cui poggia la capacità della politica di riprendere in mano le redini del Paese. Ed ha una responsabilità storica e politica nuova, di interpretare il governo del cambiamento in continuità con la fase aperta da Renzi, dalla «rottamazione» in poi. Può essere Bassolino l’interprete anche di questa stagione? A ciò si aggiunga che nel 2016 il voto in città come Milano o Napoli avrà il valore di un test nazionale. Può Renzi affrontarlo al Sud affidandosi alla vecchia guardia? Non sarebbe l’implicita ammissione che, gli riesca o no di cambiare il Paese, non gli è veramente riuscito di cambiare il Pd?

(Il Mattino, 19 agosto 2015)