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Le voci del corpo

Come farsi un corpo non nazista? Bella domanda.  Prima di provare a rispondere, però, è forse il caso di chiedersi se davvero il corpo uno se lo fa, o se invece non si trova ad averlo, e c’è poco da fare. La prima domanda si trova in realtà nell’ultimo libro di Rocco Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica (Feltrinelli 2012) e sta insieme al mazzo di domande che invece di chiedere “che cosa?” o “perché” chiedono piuttosto “come?”. Se uno chiede “come?”, “come fare?” è perché si trova già, come diceva Pascal, embarqué, imbarcato, preso cioè in mezzo e chiamato a fare qualcosa, in un modo o nell’altro. Ma appunto: in qual modo? E cosa vorrà mai dire che in qualche modo noi ci facciamo il nostro corpo?

Nulla di particolare. In fondo, è dall’alba dei tempi che l’uomo si fa un corpo. Per Marcel Mauss, il corpo è anzi il primo strumento dell’uomo, “il primo e più naturale oggetto tecnico”. Il che non vuol dire che intratteniamo con esso un rapporto puramente strumentale, ma al contrario che la dimensione della strumentalità non è affatto una dimensione accessoria della nostra esistenza. E, d’altra parte, il corpo delle origini non è forse un corpo tatuato, in qualche modo rifatto? Claude Levi-Strauss ha raccontato, in Tristi tropici, di come gli indigeni si stupissero nel vedere i visi bianchi, lisci e nudi dei primi missionari. Nessun tatuaggio, nessuna iscrizione sui loro volti: come gli animali, essi dovevano pensare.

La nostra credenza nella naturalità del corpo umano appartiene in effetti ad una determinata epoca storica (che forse si sta per chiudere, vista la nuova diffusione del tatuaggio). Un’epoca, prima cristiana poi specificamente moderna, dentro un ben più ampio, anzi sterminato intreccio di pratiche corporee, maniere variopinte e diverse di farsi un corpo.

Con la non piccola complicazione che, ormai, anche se non possiamo prendere e lasciare a nostro piacimento il nostro corpo, o addirittura fabbricarlo come più ci aggrada, possiamo però ben modificarlo geneticamente, ritoccarlo qua e là con iniezioni di botox o con protesi al silicone, allenarlo  e anzi ‘doparlo’ (a proposito, oggi si conclude il primo Giro d’Italia, da un bel po’ di anni in qua, che non vede irrompere i Nas tra le ammiraglie delle squadre: meno male!). E dunque: come ce li facciamo, oggi, i nostri corpi?

Possibilmente in modo non nazista, suggerisce Ronchi, il che lascia intendere che sia ancora in campo un modo nazista di farsi i corpi, un’estetica o piuttosto una cosmetica nazista dei corpi, di cui qualcosa comprendiamo andando con la memoria al cinema di Leni Riefenstahl, al culto della forza, al corpo forgiato dall’esercizio, dalla fatica e dalla sottomissione. Certo, ci piace pensare che, siccome c’è una cesura netta fra i regimi totalitari e i regimi democratici, allora anche sul piano della disciplina dei corpi vi deve essere un’altrettanto netta cesura fra atleti, modelle e attori dei nostri giorni e la vigoria dei corpi nazisti. E forse è davvero così; in ogni caso, non è una differenza da poco se a farsi un corpo sia ciascuno per sé, o se invece sia un omino coi baffi, fattosi Führer, a decidere la salute del corpo di tutti (anzi: della sola razza ariana).

Però un brivido corre ugualmente lungo la schiena, se si pensa alla prepotenza con la quale ai nostri corpi viene più o meno esplicitamente  richiesto di essere sempre più efficienti, sempre più in forma, sempre più in salute, sempre più rispondenti a modelli e imperativi sociali a cui rischiamo di rimanere assoggettati, senza alcuna capacità di distanziazione critica. Un principio di ottimizzazione sembra essersi esteso dall’organizzazione dei sistemi sociali ed economici alla maniera in cui abbiamo il nostro corpo. E non si tratta più di mantenere un certo equilibrio o una sana armonia, ma di stressare il corpo fino a estrarre da lui ogni riserva di energia disponibile e, sempre, il massimo della prestazione. Michel Foucault dava a questo dispositivo il nome di “biopolitica” e per non farci credere che stesse parlando di chissà quale lontanissimo orizzonte teorico spiegava: ecco a voi il neoliberalismo!

Ora, queste analisi portano sempre con sé scenari da incubo. Chi però inforca la bicicletta, va in palestra o si mette a dieta non pensa in realtà né ai film della Riefenstahl né al capo del personale. E certo un abisso separa l’una dall’altro. Ciascuno si fa il suo corpo per e con gli amici, senza bordeggiare derive totalitarie e, dopo tutto, senza neppure rinunciare a una birra. Però i corpi inermi, violentati, oppure offesi di cui parlano o che ci rappresentano la letteratura, l’arte o la religione da un bel po’ di decenni a questa parte qualche allarme lo mandano. A volte, anche nel processo legislativo e nel dibattito pubblico fanno capolino preoccupazioni analoghe.

Forse, la maniera migliore per non ritrovarsi con un corpo nazista è non dimenticare mai che i nostri corpi, comunque li facciamo, parlano anche, e vogliono parlare con la loro voce. E la democrazia rimane il terreno sul quale i corpi possono anche essere l’un l’altro forzosamente intonati, ma dove le voci possono ancora rimanere, fortunatamente, dissonanti.

L’unità, 27 maggio 2012

Gli astrologi sconfitti dai creduloni

(questo articolo è apparso sul Mattino il 4 gennaio 2012)

Fare pronostici per l’anno che verrà potrebbe essere un’operazione inutile, dal momento che la madre di tutte le previsioni, quella ricavata in base a complicati calcoli dalla sapienza astrologica del popolo Maya, dice che, con il 2012, il mondo finirà. Un così fosco presagio renderebbe inutile lo sforzo di risanamento del governo Monti, ma anche quelli del Napoli per entrare in Champions League: non, però, l’obiettivo di andare il più avanti possibile nell’edizione di quest’anno, perché i Maya fissano l’apocalisse a dicembre. Non c’è dunque il rischio che la finale non si giochi per impraticabilità del mondo.
Le previsioni che ci interessano per davvero sono, però, altre. Sono anzitutto quelle che rammodernano le vecchie formule di scongiuro e le risorse così rassicuranti del rito. In mancanza di cerimonie cosmogoniche e altri culti di grande formato, ormai ci accontentiamo di piccole superstizioni tradizionali. Così, se nel cenone di fine anno mangiamo piatti ricchi di lenticchie, è perché portano soldi: non è ben chiaro come facciano, ma ci piace pensarlo. Naturalmente, non c’è nessuno che giurerebbe che i simpatici legumi abbiano questo fantastico potere, ma ciò non diminuisce lo zelo (e il cotechino) con cui le serviamo a tavola. Quel che ci serve, infatti, è ancora e sempre di disporre di qualche mossa ben eseguita per mettere sotto controllo il caso. Ed è un bisogno così fondamentale che anche quando si è perso completamente il nesso con il successo dell’operazione, noi ripetiamo gli stessi gesti apotropaici o augurali, che ci crediamo o meno. La funesta previsione Maya serviva probabilmente allo stesso scopo: non a fasciarsi il capo prima di esserselo rotto, ma a togliere incertezza sulla maniera di regolarsi nei casi della vita. Come quando c’è un morto in casa: tutti sanno cosa c’e da fare e come comportarsi, tutti si muovono nel modo giusto e ben ordinato.
Le previsioni che si portano oggi sono però di ben altra fattura: non perché siano meglio fondate, ma perché si agganciano alle nostre azioni in un’altra maniera, sconosciuta agli antichi. Il genere di previsione in cui infatti abbondiamo è quello delle cosiddette profezie autoavverantesi: quel genere di prognosi sul futuro che, se ci crediamo, il futuro ci fa la cortesia di disporsi nel senso delle nostre credenze. Sembra bello! Credere che domani non piova a tal punto, che non piove davvero! Un passo avanti rispetto alla magia stregonesca, a cui non bastava la credenza, ma occorreva anche la parola magica.
In realtà, con la pioggia la nostra credenza ha ben poco da fare. Ma il numero di fatti che sono influenzati dall’andamento delle opinioni è considerevolmente aumentato, e disporre quindi di previsioni che orientano le opinioni è un modo sicuro per intervenire sui fatti. A volte può non bastare, e infatti tutto l’ottimismo di Berlusconi non è bastato a raddrizzare il bilancio pubblico, e neppure a modificare le propensioni al consumo degli italiani: dopo tutto, quando i soldi non ci sono, non ci sono.
Quel che però è degno di nota, è proprio il retrocedere dei fatti naturali dal novero delle cose che ci interessano e da cui ci facciamo influenzare (almeno fino alla prossima, imprevedibile e prevedibilissima catastrofe), e l’avanzare di strani fattoidi – li chiamano così -, di fatti cioè mescolati alle opinioni, di fatti incistati nelle parole, fatti su cui far previsioni non è affatto contemplare, ma agire.
Cambiata dunque la cerchia dei fatti su cui è interessata ad esprimersi, la modernità ha compiuto un giro completo e, dopo il trionfo galileiano delle previsioni scientifiche certe, ci riconsegna nuovamente a previsioni largamente incerte, per la gioia di tutti gli astrologi da rotocalco, che non si vedono più confutati dalla seriosità dei fisici, ma soltanto affiancati da psicologi allegri ed economisti tristi (questi, di solito, sono gli umori dominanti), non meno incerti di loro circa i casi della vita. A pensarci, Previsioni che, per avverarsi, richiedono il nostro credulo concorso non differiscono di molto da quelle degli antichi stregoni, che si aiutavano piuttosto con formule rituali e gesti scaramantici.
Non resta, dunque, che crederci, indipendentemente dal grado di attendibilità. Con la consapevolezza però che gli esperti in grisaglia che prevedono il corso della borsa o quella dello spread, non sono molto diversi dai maghi di una volta, se non per l’abito più sobrio.

Welby cinque anni dopo

Non è giusto. O è giusto così. Dinanzi alla morte di una persona cara, nessuno è in grado di rimanere così impassibile da non chiedersi se sia giusto che debba morire. Morire così. Morire ora. Anche quando ci rassegniamo, per esempio per l’età avanzata, non sentiamo meno il bisogno di elevare il processo naturale del morire nella sfera dello spirito, che è, in un senso minimale, ciò per cui nel morire ne va del senso del vivere e dell’aver vissuto.

Non è giusto, oppure è giusto così. Ma la giustizia, qui, non è l’obbligo contratto innanzi a una legge, umana o divina, bensì la misura della comune appartenenza all’umanità e al senso, che si compie assegnando alla cultura (all’elaborazione dell’uomo) ciò che altrimenti apparterrebbe solo alla natura. Così la nascita, così la morte, così tutti i fenomeni di passaggio, gli attraversamenti di soglie, i transiti al confine. Perciò non è giusto che moriamo: non lo è in assoluto, non già solo in rapporto a questa o a quella morte, poiché il mero morire naturale non ci appartiene in quanto uomini. E perciò è giusto che noi moriamo, quando è resa giustizia (onore, rispetto, sepoltura) a chi muore, e all’umanità che muore con lui. Un tratto che però caratterizza la «seconda modernità» che noi viviamo è l’ampliamento delle scelte a nostra disposizione: scelte trasferite dapprima dall’ambito naturale a quello istituzionale, poi da quello istituzionale a quello individuale. Un processo che sociologi e filosofi presentano spesso come una perdita di sostanzialità, perché pone su esili spalle, quelle del singolo individuo, decisioni che investono l’orizzonte più grande del vivere e del morire. Non si muore quasi più, ma ogni volta, in luogo del «si» muore, si compie così un «io muoio» o un «tu muori».

Più difficile è dunque trovare la misura, la giustizia. Dopo i casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, il Parlamento italiano ha ritenuto di averla trovata. Piergiorgio Welby è morto, giusto cinque anni fa, avendo ottenuto, al termine di una lunga, lucidissima battaglia, che fosse staccato il respiratore che lo teneva artificialmente in vita. Eluana Englaro è morta dopo che il padre, al termine di una battaglia altrettanto lunga, ebbe ottenuto, grazie a un tribunale, l’interruzione dell’alimentazione artificiale, conformemente alla supposta volontà della figlia. I due casi hanno scosso profondamente le coscienze, mostrando quale viluppo di azioni e di decisioni vi sia oggi dove prima c’era un semplice accadimento naturale. E hanno anche portato il Parlamento a legiferare, con un accanimento pari a quello terapeutico, sul cosiddetto testamento biologico. L’obiettivo: porre limiti stretti tanto alla libertà del malato quanto a quella del medico. In questo

modo, però, soglie sottilissime, che devono ancora trovare una stabile configurazione di senso intorno a un letto d’ospedale o al capezzale di un malato, sono state disegnate d’autorità, fissate rigidamente in una disposizione di legge.

Ma la soglia è, soprattutto, un’esperienza, come il primo bacio, come un esame di maturità o come il primo giorno di lavoro: chi vorrebbe mai disciplinare per legge i passi da compiere per affrontare l’ingresso nel mondo adulto, prepararsi alle peripezie dell’amore o

agli affanni della vita professionale? Perché sottrarre al singolo uomo il più antico e più arduo compito, quello di cimentarsi con le prove dell’inizio e della fine? In uno Stato democratico, una legge si fa per proteggere i deboli dai forti, non già per assicurare ai forti un potere di controllo o di disciplinamento sui deboli. Ciò che valeva per gli antichi sovrani, detentori del potere di vita o di morte sui sudditi, non può valere per i cittadini.

A cinque anni di distanza dal caso Welby, ci si può dunque chiedere, «sine ira ac studio», perché quella legge. E soprattutto se non sia l’umanità dell’uomo garanzia più solida di giustizia che non l’impero della legge, in casi estremi come quelli che riguardano il vivere e il morire. Senza dogmatismi, senza sicumere, disposti a riflettere e, se del caso, a cambiare. A utilizzare lo strumento legislativo, se è per difendere e non per coartare, o a accantonarlo, se è per dare responsabilità e non puro arbitrio.

L’unità 21 dicembre 2011

Pelle

Pezzo a pezzo, prosegue la serie di Puzzle. L’uomo a pezzi e la filosofia. Stasera (Red Tv, ore 21) tocca a La pelle.

(E siccome mi si prende in giro sull’accento napoletano, stasera leggo un pezzetto de La pelle di Curzio Malaparte, per il quale non c’è accento migliore)

Il paradosso antropologico/2

Si può fare un’ontologia del presente? L’espressione, che è di Michel Foucault, ha un carattere paradossale: indica un oggetto di studio – il presente, le forme di vita contemporanee, quel che sta capitando proprio ‘adesso’ – che è storico quant’altri mai, e che anzi costringe persino a inseguire la cronaca; ma scomoda l’ontologia, cioè un sapere che, al riparo dal divenire storico, si propone di delineare le strutture universali e necessarie proprie di ogni ente in quanto tale: ieri come oggi, e oggi come domani. Perché dunque il proposito di costruire le linee di un’ontologia del presente non appaia soltanto un equivoco, occorre avanzare l’ipotesi che quel che sta succedendo oggi è perlomeno l’annuncio di qualche profonda modificazione in corso, che tocca se non la natura in generale, almeno la natura umana.

(continua su InSchibboleth)

La mutazione umana

Si può fare un’ontologia del presente? L’espressione, che è di Michel Foucault, ha un carattere paradossale: indica un oggetto di studio – le forme di vita contemporanee, quel che sta capitando proprio ‘adesso’ – storico quant’altri mai; ma scomoda l’ontologia, cioè un sapere che si propone di delineare le strutture necessarie proprie di ogni ente in quanto tale: ieri come oggi, oggi come domani. Perché dunque il proposito di costruire un’ontologia del presente non sia solo un equivoco, occorre avanzare l’ipotesi che quel che accade oggi è l’annuncio di qualche profonda modificazione in corso, che tocca se non la natura in generale almeno la natura umana.
Alla natura umana, infatti, è dedicato l’ultimo libro di Massimo De Carolis, che aveva già condotto un’affascinante esplorazione del nostro tempo storico ne La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Bollati Boringhieri, 2004). Nel solco di quella ricerca si colloca ora Il paradosso antropologico (Quodlibet, 2008) [recensito anche su Il manifesto]. E se in quel volume era a tema il fatto, di per sé inquietante, che l’uomo è ormai l’oggetto di una potentissima ingegneria scientifica e tecnica, sul piano biologico (si pensi all’ingegneria genetica) come su quello cognitivo (si pensi agli studi sull’intelligenza artificiale), il nuovo libro verte sulle trasformazioni non meno preoccupanti che interessano sia la psiche individuale che i sistemi sociali.
L’approccio ‘ingegneristico’ delle moderne scienze dell’uomo risponde ad un’esigenza precisa: riprodurre tecnicamente quanto l’uomo compie naturalmente. Ora però, quel che appare specifico dell’uomo, quel che rappresenta un autentico paradosso, è la capacità di inventare, di interpretare, di non attenersi a schemi ripetitivi e fissi: tutto quello che insomma sembra sottrarsi in linea di principio alla possibilità di una mera codifica tecnica.
Orbene, per l’antropologia filosofica, il cui arco si distende da Aristotele ad Heidegger, questa capacità può essere rappresentata nei termini della facoltà di formare un mondo, che sarebbe propria dell’uomo e non dell’animale. Il termine ‘mondo’ va qui contrapposto ad ‘ambiente’. L’animale ha infatti un ambiente, cioè uno spazio nel quale si muove secondo schemi di azione e risposta fissati dal corredo di istinti proprio della sua specie; l’uomo invece è correlato a un mondo, cioè ad un ambito non già assegnato dalla natura alla specie umana, ma da essa ritagliato (inventato, appunto) secondo operazioni ‘culturali’ – la prima delle quali, ecco il paradosso, consiste proprio nell’invenzione della cultura.
Il cuore della ricerca di De Carolis consiste ora nel mostrare che la capacità specificamente umana di formare un mondo si è ridotta ormai alla più modesta capacità di formare nicchie, cioè mondi dentro mondi. Non solo mondi più piccoli, in verità, ma mondi in certa misura illusori, in cui ci si illude di poter ‘fabbricare’ la realtà, come prima accadeva solo nella dimensione del gioco o dell’arte (oppure, nei casi patologici, nei fenomeni di dissociazione psichica).
L’ipotesi di De Carolis è che la formazione di nicchie comporti un profondo riassestamento tanto dei sistemi sociali quanto dei sistemi psichici individuali. I quali erano prima organizzati secondo una linea di divisione ‘orizzontale’ che separava il sopra e il sotto, il piano simbolico e quello pulsionale, l’imperium rationis e l’imperium passionis. Al piano di sopra stavano la legge, la cultura, al piano di sotto stavano le etnie, gli interessi, gli egoismi sociali. Analogamente, sul piano individuale, di sopra stava il soggetto, la sua autonomia e la sua libertà; nel sottosuolo le pulsioni e gli istinti.
Questa ‘topica’ oggi non funziona più: la formazione di nicchie è frutto di una scissione non più orizzontale ma verticale, con la quale l’identità individuale si dissocia in una molteplicità di ruoli, mentre il mondo si suddivide in una molteplicità di spazi fra di loro isolati e protetti, la cui stabilità dipende dalla possibilità di tenere fuori da essi tutto il resto della realtà (o più radicalmente dalla possibilità di inventare una realtà ad hoc).
Il fascino di questa ricostruzione delle forme di vita contemporanee è indubbio: essa coglie infatti fenomeni molto diversi tra di loro, che interessano volta a volta l’etnologia critica di Ernesto De Martino e la psicanalisi di Freud e Winnicott, l’antropologia filosofica di Gehlen e Schmitt e le analisi linguistiche di Austin e Wittgenstein, riuscendo a ricondurre tutto questo materiale su un piano di comune intellegibilità.
Ma il terreno ultimo e decisivo su cui De Carolis si misura è quello politico: qui l’indagine intende mostrare l’obsolescenza di gran parte del lessico politico moderno, fondata su concetti (popolo, Stato, sovranità) per i quali si dovrebbe dire che, letteralmente, non c’è più spazio, nel senso che appunto lo spazio psichico e quello sociale si prospettano oggi secondo linee molto diverse da quelle moderne. Le nicchie tagliano trasversalmente le comunità di appartenenza tradizionali e non si lasciano ricondurre a denominatori comuni. La scommessa è così se prevarrà in esse solo il tratto della chiusura autoreferenziale, fino all’atrofizzazione dell’inventività propria della natura umana, o se invece non si possa formare, a partire da esse, "una nuova sfera pubblica".
È una scommessa difficile, come ogni tentativo radicale di sporgersi oltre la cornice statuale moderna. Che per un verso appare logora, per l’altro rimane quella che ha meglio saputo assicurare, finora, una misura di uguaglianza giuridica tra gli uomini. Ma la consapevolezza che la posta in palio tocca la sfera politica perché tocca la radice antropologica dell’umano, quella, almeno, dovrebbe accompagnare ogni seria riflessione sul proprio tempo, che non rinunci a comprenderlo in pensieri.

L'impegno di De Martino tra politica e cultura

(Se volete una prima informazione sull’argomento, leggetevi questa pagina di Massimo De Carolis)

La Fondazione Italianieuropei e la Fondazione MezzogiornoEuropa organizzano, con il Patrocinio dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dell’Associazione Internazionale Ernesto De Martino, il convegno "L’impegno di De Martino tra politica e cultura". Il convegno si terrà a Napoli, Mercoledi 10 dicembre, presso l’Istituto Studi Filosofici (Via Monte di Dio 14, Palazzo Serra di Cassano).

on il Patrocinio dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
e dell’Associazione Internazionale Ernesto De Martino

L’impegno di De Martino tra politica e cultura

Napoli, Mercoledi 10 dicembre

Istituto Studi Filosofici
Via Monte di Dio 14, Palazzo Serra di Cassano

 

Ore 15,30 Il Mondo di Ernesto De Martino

Presentazione dell’iniziativa
Massimo Adinolfi

Relazioni
Massimo De Carolis, Che cos’è il mondo e perché può finire

Marcello Massenzio, Cristianesimo e identità culturale dell’Occidente. La visione di Ernesto De Martino

 

Ore 16,30 Il Mezzogiorno di Ernesto De Martino

Tavola Rotonda

Modera
Ivano Russo

Interventi
Marino Niola

Francesco Paolo Casavola

Beppe Vacca

Massimo D’Alema

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