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Dice il saggio

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Scrive ad esempio Ernst-Wolfgang Böckenförde: «Il potere costituente deve essere concepito anche come entità politica reale, che fonda la validità normativa della costituzione. Come tale, non può certo sussistere all’interno o sulla base della costituzione, ad esempio come un organo da essa creato, ma deve preesistere alla costituzione e ai pouvoirs constituées da essa delimitati e regolati. Proprio in questa pre- e sovraordinazione rispetto ai pouvoirs constituées vi è la peculiarità del potere costituente».

Ora, io non credo di aver portato, con le parole dell’eminente giurista tedesco, un esempio indovinato.

(L’Unità, 9 giugno 2013: continua qui)

Facit indignatio versum

Decimo Giunio Giovenale: la storia la si può far cominciare da lui. D’accordo, è prenderla un po’ alla lontana, poco meno di un paio di millenni, ma forse serve per guardare sotto l’ondata di indignazione che ha investito l’Occidente. Dopo la primavera araba, dagli Indignados di Puerta del Sol a quelli di Occupy Wall Street, passando per le manifestazioni di Roma o di Parigi, un po’ ovunque si è riversata in strada la sacrosanta protesta contro le ingiustizie e le diseguaglianze sociali, spesso mescolata con un’aspra critica, dai tratti populistici, dei privilegi della casta dei politici o delle oscure trame degli gnomi della finanza. L’indignazione infatti è questa roba qua: l’invettiva a sfondo prevalentemente morale come arma di mobilitazione e critica del potere. Indignato è colui il quale, prima ancora di dedicarsi all’analisi complessa delle cause e delle condizioni, si solleva contro lo scandalo dell’ingiustizia. E fa bene, almeno secondo Aristotele, che collocava lo sdegno nel giusto mezzo fra la nera malevolenza di colui il quale gode delle disgrazie altrui, e la gialla invidia di chi soffre per la fortuna che arride agli altri. L’indignato si addolora sì per il successo altrui, ma solo quando è ingiusto, quando non vi è ombra di merito. Il che è un bene, perché dimostra che la coscienza morale non è ancora del tutto anestetizzata.

La coscienza morale: ma la coscienza politica? Per quello conviene dare un’occhiata ai temi che sollevavano lo sdegno del primo campione dell’indignazione, Giovenale appunto, uno che di sé diceva di non avere particolare genio artistico e letterario, ma solo tanta rabbia. Si natura negat, facit indignatio versum. Che grosso modo vuol dire: anche se non ho un talento naturale, sono così incazzato che non posso non scrivere. E di cosa scriveva, Giovenale? Più o meno: di Roma ladrona, dei favoritismi e dei parassitismi dell’amministrazione pubblica, dei privilegi degli uomini vicini al potere, della cortigianeria e dell’insincerità. Fin qui tutto bene. Sono di quelle descrizioni per cui uno dice: niente di nuovo sotto il sole! Ma insieme a questi temi si legge nelle Satirae anche l’elogio del buon tempo antico, il rimpianto per la sana vita di provincia, l’insofferenza nei confronti degli immigrati e l’invettiva contro il lassismo morale, nutrita di misoginia e omofobia.
Tirando le somme: un impasto di sensibilità civile e di forte conservatorismo. Il che spiega benissimo come possa accadere ancora oggi che giornalisti con pedigree autorevolissimi, ma inequivocabilmente di destra,  diventino paladini dell’opinione pubblica progressista. E soprattutto, aiuta a porre l’antica domanda: ma indignarsi è di destra o di sinistra?

Collocando la doccia a sinistra e il bagno caldo a destra, la Nutella a sinistra e il cioccolato svizzero a destra, Giorgio Gaber ha quasi ridicolizzato la domanda. E siccome per molti, compresi molti indignati, questa domanda non ha più motivo d’essere, possiamo pure metterla (provvisoriamente) da parte. Non possiamo però rinunciare a capire. O almeno a chiedere se le categorie morali che l’indignazione brandisce, la distinzione fra bene e male, fra ladri e onesti, permetta davvero di descrivere i conflitti reali che attraversano le società occidentali, e la società italiana in particolare: nel mondo del lavoro, nel rapporto tra cittadini e istituzioni, nella sfera dell’istruzione e della formazione, e così via. Se si trattasse di bene e male, basterebbe eliminare il secondo per tenersi il primo: ma sono operazioni che riescono solo sulla carta (o in uno slogan). Nella realtà, le cose sono maledettamente più complicate.

Ora, l’indignazione targata 2011 ha preso di mira, in particolare, la finanziarizzazione dell’economia: di qui le manifestazioni davanti a Palazzo Koch o a Wall Street. E come non indignarsi per l’enorme quantità di zeri che accompagna le transazioni finanziarie, spesso al riparo da ogni forma seria di controllo e di tassazione? Proprio però uno dei guru del movimento, il filosofo sloveno Slavoj Zizek, ha spiegato che pensare di separare con un tratto di penna l’economia reale buona dalla economia finanziaria cattiva è una pia illusione. In fondo, la finanziarizzazione incomincia con l’invenzione della carta moneta: c’è qualcuno che sogna di eliminare il denaro? Zizek, lui, vuol far la rivoluzione, ed il suo è un invito a rammentare che, per Marx, pure l’economia reale sta sotto il segno dello sfruttamento capitalistico. Ma tra la rivoluzione che abolirebbe il capitale e l’indignazione che abolirebbe le banche forse va trovato il modo ed il terreno per  costruire una seria via di riforme. e soggetti politici che ne sostengano il cammino. Non per mollezza o condiscendenza, ma anzi per mettere un po’ di contenuto civile nella risposta che Marziale diede allo sdegnato amico Giovenale: Sic me vivere, sic me iuvat morire “Così mi piace vivere, e così voglio morire”.

L’unità, 31 dicembre 2011 (col titolo Gli indignati. Quella rabbia abti-potenti che inizia con Giovenale)

Franco Volpi

Non ho scritto nulla sulla morte di Franco Volpi. Rimedio oggi. Conoscevo Volpi, anche se superficialmente. Ero ancora studente quando lo vidi per la prima volta, ospite ad un convegno heideggeriano all’Università di Salerno: mi fece impressione l’autorevolezza che gli veniva riconosciuta, pur essendo ancora molto giovane (parlo di più di vent’anni fa, se non ricordo male). L’ultima volta che l’ho visto è stato a Napoli, in occasione della presentazione del romanzo di Feinmann L’ombra di Heidegger, tradotto da un mio grande amico e da un suo grande amico, Lucio Sessa. Romanzo che lessi in bozza, e di cui pure discutemmo un po’, con Lucio. E con il mio heideggerologo di fiducia, da cui sarei curioso di avere un parere, a proposito del testo che metto qui sotto (pubblicato sul Domenicale del Sole 24 Ore). Volpi si è nutrito di Heidegger per tanti anni, ne ha curato un bel po’ di roba, e colpisce che sia giunto a un bilancio così fallimentare. In verità, penso che questo bilancio Volpi lo avesse tratto da tempo: ricordo un suo saggio sulla riabilitazione della filosofia pratica, e ricordo che pensai allora che un tal saggio era abbastanza incompatibile con le vertigini e gli abissi dell’ultimo Heidegger.
Che Volpi non poteva amare. Lo dico senza conoscere per bene il suo lavoro di storico. Ma ne conosco l’opera fondamentale, quella su Heidegger e Aristotele. Vitiello, che stimava molto Volpi, leggeva Heidegger in maniera non opposta ma quasi: Essere e Tempo non è solo una riambientazione di concetti aristotelici, ma ha almeno due anime, una greca e una cristiana. Le vertigini e gli abissi dipendono essenzialmente da quest’ultima, che Vitiello ha finito col preferire. Volpi ha preferito l’altra.
Infine. Sono stato all’Università di Padova, lunedì scorso, per una chiacchierata. Ho visto alcune splendide persone di cui ho molto stima, e sono veramente felice di averle reincontrate. Ma c’era un clima di mestizia, in una città che mi ha sempre dato l’impressione di essere mesta fino alla depressione (ma forse è solo colpa della pioggia, che immancabilmente vi ho incontrato). Sarà per questo che Volpi aveva trovato quasi una seconda patria in Sud America?
Ai muri c’erano i saluti al professor Franco Volpi, e qui io lascio il mio.

I «Contributi alla filosofìa»? «Il diario di un naufragio. Avventurandosi troppo in là nei mari dell’Essere, il suo pensiero va a fondo»
L’esperienza di Nietzsche vuota le metafore di Heidegger, tarpa i suoi slanci, mina alle fondamenta la costruzione dei Contributi alla filosofia. È forse un caso che Heidegger ponga in esergo ai due volumi dedicati a Nietzsche (1961) una epigrafe tratta dall’Anticristo che corrisponde esattamente alla conclusione dei Contributi? Questi terminano con una "fuga" che tratta dell’ultimo Dio, il primo capitolo del Nietzsche si apre con la citazione: «Quasi due millenni e non un solo nuovo dio!».
Forse Heidegger non è più riuscito a risollevarsi filosoficamente dal de profundis di Nietzsche. Nella triste luce dell’esaurimento, l’Essere – quest’ospite solitamente fugace dei nostri pensieri – rimane per il grande Heidegger l’ultima chimera che valga la pena di sognare. Tutti i suoi sforzi mirano a quest’unica meta, l’Essere, ma i sentieri si sono interrotti. La sua intermittente sperimentazione filosofica e il suo "procedere tentoni" in questo sogno hanno prestato il fianco a critiche da far tremare i polsi. Heidegger rifiuta la razionalità moderna con lo stesso gesto sottomesso con cui ne riconosce il dominio, richiama la scienza che "non pensa" ai suoi limiti, demonizza la tecnica fingendo di accettarla come destino, fabbrica una visione del mondo catastrofìsta, azzarda tesi geopolitiche quanto meno avventurose – l’Europa stretta nella morsa tra americanismo e bolscevismo – soffiando sul mito greco-germanico dell’originario da riconquistare. Anche le sue geniali sperimentazioni linguistiche implodono, e assumono sempre più l’aspetto di funambolismi, anzi, di vaniloqui. Il suo uso dell’etimologia si rivela un abuso (…). La convinzione che la vera filosofia possa parlare soltanto in greco antico e tedesco (e il latino?), una iperbole. La sua celebrazione del ruolo del poeta, una sopravvalutazione. Le speranze da lui riposte nel pensiero poetante, una pia illusione. La sua antropologia della Lichtung, in cui l’uomo funge da pastore dell’Essere, una proposta irricevibile e impraticabile. Enigmatico non è tanto il pensiero dell’ultimo Heidegger, bensì l’ammirazione supina e spesso priva di spirito critica che gli è stata tributata e che ha prodotto tanta scolastica.
Certo, i comuni mortali spesso deridono le soluzioni del filosofo solo perché non capiscono i suoi problemi. Dunque non è affatto detto che queste critiche colgano nel segno. Ma se fosse così, allora i Contributi alla filosofia sarebbero allora davvero il diario di bordo di un naufragio. Per avventurarsi troppo in là nel mare dell’Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime.

Aristotele e l'anello di bronzo

La colpa è mia. Ieri ero stanco, e sul treno non mi andava di studiare. Alla stazione ho allora deciso di acquistare un romanzo breve, che potessi leggere e terminare nel viaggio di ritorno. A causa del poco tempo, del nome di Aristotele, delle dimensioni del libro e della sua prossimità alle casse, la scelta è caduta su questo libro di Margaret Doody, che non ho difficoltà a considerare il peggior libro che io abbia letto, da un bel po’ di tempo in qua.

Lo sconsiglio caldamente a tutti.