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Renzi tra autocritica e rilancio

dolorcito

Un voto quasi unanime dell’Assemblea nazionale segna la ripartenza del partito democratico. La minoranza non partecipa al voto, ma dà il via libera alla proposta di Renzi di ricominciare dal Mattarellum, «l’unica proposta che può essere realizzata in tempi brevi». E che può tastare la voglia di elezione degli altri partiti. Il congresso viene riportato alle scadenze statutarie, quindi dopo le politiche, anche per evitare di farne solo una conta, e nel frattempo si prova a rilanciarne l’azione con una conferenza programmatica e una mobilitazione dei circoli sul territorio. C’è spazio anche per qualche spunto personale e qualche stilettata polemica, per una parola di solidarietà per il sindaco di Milano, Sala, e per un attacco frontale alla Raggi e ai Cinquestelle, ma gran parte del discorso è rivolta a ristabilire un clima di confronto civile all’interno del partito.

L’ex premier fa velocemente il bilancio dei mille giorni passati al governo, rivendica il lavoro compiuto ma non vi si dedica troppo: non è il momento di celebrarsi. L’analisi del voto è severa, senza compiacimenti per quel 41% di sì che non cambia i termini del risultato: per il Pd è stata una sonora sconfitta, soprattutto al Sud e tra i giovani. «Abbiamo straperso», dice Renzi senza giri di parole. Ma è escluso che si torni indietro, e per togliere ogni dubbio mette nella colonna sonora dell’Assemblea l’inno beffardo di Checco Zalone alla prima Repubblica. E però, a fine giornata, le idee forti per ripartire daccapo e rimettersi il partito in asse col Paese latitano un po’.

Le quattro sconfitte.

Renzi non comincia dall’analisi del voto, ma ci arriva presto. E non fa sconti, non usa giri di parole. Ammette che la via del cambiamento istituzionale come risposta alla crisi generale del Paese è ormai preclusa. La sconfitta è maturata non una ma quattro volte: nel Sud, tra i giovani, nelle periferie, sul web.  Non è poco, perché chiama in causa la natura stessa di un partito di sinistra, che proprio in quelle aree e in quelle fasce sociali dovrebbe invece riscuotere più consenso. Fa male a Renzi soprattutto non aver convinto le nuove generazioni, sia per il segno generazionale che aveva impresso alla sua leadership, sia perché le riforme costituzionali dovevano parlare del futuro della nuova Italia, e dunque convincere anzitutto loro. L’unico lenimento alla sconfitta è la consapevolezza che quelli del No non hanno una proposta politica: « C’era nel fronte del No chi diceva che in 15 giorni avrebbe fatto le sue proposte di riforma. Aspettiamo i prossimi cinque mesi».

Le riforme

Un libro racconterà l’esperienza del governo Renzi. In altri tempi, i mille giorni sarebbero forse stati ripercorsi da Renzi con il passo di una campagna napoleonica: l’ex Presidente del Consiglio deve invece limitarsi al progetto editoriale e a un’orgogliosa rivendicazione del lavoro svolto. Quando però dice che le riforme approvate dal suo governo non puzzano, ma resteranno nella storia del Paese, si sente che lo dice con convinzione. È significativo tuttavia che scelga, per riassumere il senso dell’operato del suo governo, la legge contro il caporalato, la legge sulle unioni civili, la legge sullo spreco alimentare. Il bilancio è cosa del passato, e il mio governo è già passato remoto, dice Renzi, ma intanto sceglie di non citare la buona scuola e il jobs act, e di richiamare le misure condivise da tutto lo schieramento democratico. Lo fa anche perché registra dal voto e dal dibattito interno l’esigenza di spostare più a sinistra il baricentro del partito. (Sull’orizzonte del nuovo governo Gentiloni c’è poco o nulla nel suo discorso, e così anche in quello di tutti gli altri relatori dell’Assemblea: giusto, insomma, lo spazio di una parentesi).

Il tempo dei tour è finito.

Il terreno sul quale più ampia si fa la disponibilità del Segretario è quello del partito e della sua interna organizzazione: Renzi annuncia un imminente incontro con tutti i segretari provinciali e regionali, poi una grande mobilitazione dei circoli e, più in là, una conferenza programmatica. L’accento viene portato sul noi, sul senso di appartenenza, sulla comunità dei democratici (in contrapposizione con l’azienda privata Casaleggio & associati, che procede a colpi di contratti e di penali per gli eletti del Movimento Cinquestelle). Accetta le critiche alla personalizzazione della lotta politica e rinuncia a ripartire in tour, col camper: il partito di Renzi, insomma, non si materializza neppure questa volta. Del resto, l’analisi è persino edulcorata rispetto alla realtà del partito in molte zone del Paese, e Renzi ne è chiaramente consapevole. Lo si capisce per esempio dal passaggio in cui dice che nel Mezzogiorno si è sbagliato a puntare sul notabilato locale, invece che cercare forze nuove e vive nella società. La frittura di pesce di De Luca non è stata ancora digerita.

Niente melina.

La proposta del Mattarellum è quella che ha scatenato il momento più vivace della giornata, con Giachetti che insulta il novello Davide, Speranza, sceso in campo contro Golia-Renzi («hai la faccia come il c.!», gli urla Giachetti, e parte la bagarre). Si capisce perché: era la proposta che il Pd di Bersani, con Speranza capogruppo, aveva lasciato cadere, assecondando la scelta del 2013 di votare col Porcellum. Col Mattarellum la legge elettorale mantiene un impianto maggioritario, grazie ai collegi uninominali, il che consente a Renzi di tendere una mano a Pisapia, il quale ha il non facile mandato di federare lo sparso arcipelago alla sinistra del Pd, e di spegnere o almeno attenuare le pulsioni proporzionaliste che serpeggiano in Parlamento, in quasi tutte le forze politiche: nella minoranza Pd, che la considera come una sconfessione della stagione renziana; in Forza Italia, che non avrebbe più il problema di allearsi con Salvini; nei piccoli partiti, che non avrebbero il problema di confluire nei grandi; fra gli stessi Cinquestelle, che di andare da soli fanno una religione. Ma Renzi sa che i collegi uninominali premiano il partito che ha più nomi e classe dirigente da mettere in campo e, checché se ne pensi, questa forza rimane, a tutt’oggi, il partito democratico. Di qui la proposta, e l’energico invito a non fare melina. Col Mattarellum hanno vinto sia la destra che la sinistra: quindi un accordo lo si può trovare, ha detto Renzi. E forse ci crede davvero.

Ideologia, malgrado tutto

C’è qualcosa che Renzi ha lasciato fuori? Ha fatto il bilancio del governo e l’analisi del voto; ha indicato un nuovo fronte di impegno nel partito e formulato una proposta chiara e forte sulla legge elettorale; ha menato fendenti ai grillini e qualche stilettata a Bersani & Company: che altro? Forse di altro il Pd avrebbe bisogno. Perché molti interventi – da Cuperlo a Orlando, da Martina a Del Rio – hanno ragionato di una crisi della sinistra, in Italia e in Europa, che data da molti anni. Si sono sentiti accenti preoccupati sulle diseguaglianze crescenti, sulle nuove povertà, sui populismi alimentati da paure e insicurezze, sulle nuove esigenze di protezione sociale, sulla necessità di ripensare il ruolo dello Stato, ma la distanza tra il Pd e quest’orizzonte di temi e problemi rimane ampia: sul piano  culturale e ideologico prima ancora che su quello programmatico. A quelli che pensano che le ideologie sono defunte basterebbe sussurrare due o tre nomi: Trump, Le Pen, Brexit; e aggiungere parole come: Islam, emigrazione, banche, euro. A torto o a ragione, su tutte queste parole esiste un compatto fronte di idee in cui pesca la destra europea, e i suoi emuli italiani. E la sinistra? Come legge il Pd la globalizzazione, come legge o corregge la modernizzazione del Paese, come ridefinisce il suo profilo mentre il socialismo europeo continua ad andare a rimorchio delle forze moderate e popolari, dalla Merkel, in Germania, a Fillon, in Francia? Renzi è rimasto sulla superficie, e forse non poteva fare altrimenti, per riprendere in mano il partito e guidarlo nella prossima campagna elettorale. Ma che il Pd abbia bisogno di sterrare le radici della propria storia, per ripiantarle meglio e più in profondità, è pensiero di cui, dopo il 4 dicembre, molti ormai si sono fatti persuasi.

(Il Mattino, 19 dicembre 2016)

La tattica dei conti rinviati

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Con l’accordo su Guglielmo Epifani il partito democratico prova a fare un primo passo dopo la crisi in cui è precipitato all’indomani delle elezioni. L’Assemblea Nazionale di oggi dovrebbe infatti votare il nome sul quale le diverse componenti del Pd hanno faticosamente trovato un’intesa, anche se, visto lo stato di salute del Pd, non si può escludere che qualcos’altro accada durante i lavori dell’Assemblea.

Un primo passo, ma in quale direzione? Tutta la discussione che è seguita alle dimissioni di Bersani è stata infatti condotta in cerca di un nome che non comportasse immediatamente scelte nette, che il Pd, evidentemente, in questo momento non è in grado di sostenere. Si è pensato perciò che di qui al prossimo congresso bisognasse affidarsi non a un segretario a pieno mandato, ma ad una figura la meno divisiva possibile, meglio se debole e politicamente non ingombrante, meglio ancora se disponibile solo per questa fase di transizione verso il congresso, e indisponibile a proseguire oltre. Alla fine la scelta è caduta su Epifani, figura più che dignitosa, con una storia sindacale e politica importante; ma basta guardare ai nomi circolati nelle ore che hanno preceduto l’accordo per rendersi conto di quali siano state le preoccupazioni e i motivi che hanno ispirato la scelta. In cerca di un traghettatore, di un reggente, o di una qualunque cosa non somigliasse a un segretario politico, il Pd ha provato a  accordarsi su nomi come quelli di Roberto Speranza o di Enzo Amendola, che indicavano una continuità netta con la segreteria uscente, ma avevano il pregio di non essere esponenti di primissima fila. Speranza, in realtà, essendo già stato promosso a capogruppo alla Camera, aveva ogni buona ragione per non avventurarsi in un incarico a tempo, da consumarsi preferibilmente entro una scadenza ravvicinatissima: era il primo a non crederci, insomma, e a non volerlo. Amendola, segretario dimissionario del Pd campano che non ha certo brillato nel risultato elettorale, poteva essere tuttavia il prescelto per la sua funzione semi-istituzionale di coordinatore nazionale dei segretari regionali – una carica, peraltro, che solo l’ubriacatura ideologica federalista, che in questi anni ha tramortito l’Italia (non solo il Pd), può spiegare, ma che non ha lasciato tracce visibili nell’organizzazione di partito: nonostante questo, o forse proprio per questo, è stato per qualche ora fra i papabili. Anche perché nel frattempo cadevano le candidature di Vannino Chiti o di Anna Finocchiaro, nomi questi di maggiore peso e sicuramente meglio profilati. Ma per la singolare legge della proporzionalità inversa fra peso politico e opportunità che in questo momento di disorientamento il Pd ha creduto di applicare, non potevano fare al caso. Alla fine il pendolo si è fermato sul nome di Epifani. Qualcuno deve essersi reso conto che anche all’autolesionismo c’è un limite.

Epifani, cioè il capolista del Pd a Napoli, insieme a Enrico Letta: a giudicare dalle responsabilità alle quali sono chiamati, si direbbe che da queste parti il Pd sia andato benone! E invece non è così, ma il fatto è che questa decisione non consegue ad un’analisi del voto, men che meno da una discussione sulle strategie adottate e su quelle da adottare, ma solo dall’intenzione di rinviare tutto al congresso. Al momento, non è nemmeno chiaro quali decisioni l’Assemblea prenderà sui nodi rimasti aperti, cioè sui tempi e le modalità di svolgimento del congresso. Il tratto politico più evidente che si accompagna alla scelta di Epifani – salvo sorprese dell’ultima ora, o dell’ultimo militante del Pd che dei primi prende a fidarsi sempre meno – è la continuità con la precedente segreteria. E in effetti, nonostante il tourbillon di nomi circolati, da questa esigenza di continuità il Pd non si è mai discostato.

Sembra incredibile, ma è così. Il Pd di Bersani si è comportato – e scegliendo ancora la continuità si sta comportando – come quel corridore che, tagliato il traguardo, continua la corsa ancora per qualche metro, prima di fermarsi del tutto. Solo che, quando vince, quello è il tempo in cui piovono gli applausi del pubblico; ma piove ben altro quando invece ha «non vinto». Un’espressione, quella usata da Bersani, che con qualche cattiveria si potrebbe tradurre così: il Pd ha perso a sua insaputa.

E davvero ha proseguito poi, nelle settimane successive, nell’insaputa generale. Come se non sapesse che con Grillo non avrebbe potuto mai stringere accordi, Bersani lo ha perseguito per più di un mese. Come se non sapesse che, se una possibilità c’era di fare un accordo coi Cinque Stelle, passava per un suo passo indietro, ha invece chiesto per sé l’incarico. Come se non sapesse che nessuno avrebbe creduto a un accordo su Franco Marini che non si ripercuotesse sul governo, ha sostenuto che si poteva dialogare con Berlusconi sulla presidenza della Repubblica in uno spirito puramente istituzionale, salvo essere smentito da Marini medesimo, che in un’intervista ha dichiarato il contrario. Come se non sapesse che, a quel punto, ripiegare su Prodi avrebbe comportato una piroetta di 360º, che nessun partito può compiere come un sol uomo in poche ore, ci ha provato lo stesso, portando il Pd alla disfatta.

Come se non sapesse tutto questo, e come se non fosse urgente dotarsi di una piattaforma politica chiara – perché si può fare il governo anche con Belzebù, ed anzi lo si è fatto, ma dentro una strategia politica e non in stato di necessità, senza avere più il coraggio di rivendicare nulla – l’Assemblea è chiamata ad avallare una linea di continuità non per convinzione, ma per mancanza di alternative.

Così succede che le alternative si formano, ma fuori dall’Assemblea. Renzi, infatti, si tiene alla larga. E D’Alema sta a Barcellona, e non sa se arriverà, anche perché ormai, così dice, ha il «core business» all’estero. E se è vero quello che ha raccontato Peppino Caldarola, che D’Alema rinviò a gennaio la presentazione del suo ultimo libro per non fare ombra a Bersani nel duello con Renzi, forse si può dire che, oggi, le ombre tornano ad allungarsi: il rinvio è finito, e quello che dovrebbe essere un primo passo ha invece il sapore dell’ultimo, fatto inutilmente dopo la «non vittoria» sulla linea del traguardo.

Il Mattino, 11 maggio 2013

L’alleanza al tempo dei partiti deboli

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«Domani si vedrà!», ha detto ieri Felice Casson (Pd) in versione Rossella O’Hara. Ma quel che si è visto finora non offre i migliori presagi: Nitto Palma, che doveva andare alla guida della Commissione Giustizia del Senato, non è passato. Per due volte. E tutto sembra tornare in discussione, perché qualora non passasse nemmeno oggi, alla terza votazione, è chiaro che il Pdl non starebbe a guardare. E le ripercussioni potrebbe lambire anche Palazzo Chigi. Né d’altra parte si può pensare che un partito, impegnato in un governo di larghe intese, che dunque deve necessariamente collaborare per assicurare una tranquilla navigazione parlamentare al governo, stringa accordi formali tramite i suoi capigruppo, lasciando che però i componenti del gruppo li disattendano alla prima occasione. Questo, infatti,  è quel che è accaduto: i capigruppo Pd Zanda e Speranza hanno concluso con i loro omologhi del Pdl un patto, che i senatori del Pd si sono dati subito la pena di non osservare .

Ora, dalle parti del Pd si spiegherà perché il nome di Nitto Palma, già commissario del Pdl in Campania, amico dell’ex sottosegretario Nicola Cosentino (ora agli arresti) non andasse bene. Ma non è questo il punto. Il punto è se, in generale, dopo che si è fatto un governo, qualcuno non si debba prendere la briga di rifare i partiti, e cioè di dare loro un’ossatura, una spina dorsale, una conduzione sufficientemente univoca. Innanzitutto per il bene del partito medesimo, che non può recitare a soggetto ad ogni votazione; poi per il buon funzionamento delle istituzioni parlamentari, i cui regolamenti poggiano sulle attività di gruppo, prima che sull’interpretazione solista affidata ai singoli parlamentari; infine per il governo medesimo, che deve poter contare su una maggioranza minimamente affidabile.

Allo stato, non sembra che queste condizioni si siano ancora realizzate. Al Pd evidentemente non è bastata l’esperienza fatta con Monti, quando Bersani ripeteva che non era quello il governo che voleva, salvo però appoggiarlo: nelle urne, questa schizofrenia non è stata premiata. Tantomeno lo sarebbe oggi, che a capo del governo c’è Letta, cioè il vicesegretario del Pd.

Ma forse bisognerà attendere l’Assemblea Nazionale di sabato prossimo, quando sarà eletto un nuovo segretario, dopo le dimissioni di Bersani. Già sembra però che si vada verso soluzioni transitorie, provvisorie, che lascerebbero di fatto la deputazione parlamentare libera di regolarsi secondo le circostanze. Il Pd non avrà bisogno di un Grande Timoniere, ma neppure gli può bastare un semplice traghettatore. Accade infatti come nelle squadre di calcio: quando i giocatori sanno che l’allenatore che li guida non è lo stesso che sarà in panchina nel prossimo campionato, finisce che fanno un po’ quello che vogliono. Ora, nel Pd non ci sarà un’aria da rompete le righe, ma non si può dire che, dopo le figuracce sull’elezione del Presidente della Repubblica, le file si siano ricompattate.

Ed è un paradosso. Il partito democratico è l’unica formazione politica che mantiene nelle proprie insegne la parola «partito», così bistrattata al giorno d’oggi. È il partito che più di ogni altra forza politica si attiene al dettato della Costituzione, la quale chiede di adottare metodi democratici al proprio interno. Fa (con esiti alterni) le primarie, le parlamentarie, i congressi. Ma tutto questo produce debolezza piuttosto che forza. Disperde energia politica invece di concentrarla. E le difficoltà e le incertezze che il Pd continua a manifestare finiscono col mettere la sordina anche ai limiti del Pdl. Il «partito di plastica», il «partito-azienda» mostra infatti una compattezza che, di rimbalzo, risalta come la prima delle virtù politiche. Certo, l’identificazione con Berlusconi facilita le cose. Finché dura, però. Anche il Pdl, infatti, si troverà scosso, quando questa simbiosi produrrà più problemi che soluzioni: non è questo che è accaduto, durante la scorsa legislatura? La brillante campagna elettorale e gli attuali sondaggi coprono il tallone d’Achille del Cavaliere, ma è un fatto che nelle prove di governo le sue maggioranze si sono sempre sfaldate, dal ’94 in poi.

E invece il sistema politico italiano ha estremo bisogno di corpi intermedi dotati di forza organizzativa e di una fisionomia netta, di stampo europeo. Se dunque vacillano appena si ingrossa l’onda della Rete, oppure arrancano sotto gli attacchi populisti sferrati da Grillo (che di fare un partito non ha bisogno: gli basta un blog e un’associazione fatta insieme col nipote e col fido commercialista) non ce la si può prendere col destino cinico e baro, ma con tutto quello (ed è tanto) che non è stato fatto finora nella costruzione di una solida cultura politica.

E come vanno le cose lo si deve vedere oggi, non domani, perché, per come è messo il Paese, domani è già troppo tardi. 

Il mattino, 8 maggio 2013

Fate voi

Quello che leggete nel post sotto, è l’attacco del mio pezzo per il Mattino; quello che invece vi metto qui è l’attacco dell’editoriale di oggi di Galli della Loggia. Un meme deve essere partito da Napoli verso Milano:

"E’ la sala della Pallacorda, non uno squallido hangar della Fiera di Roma, il luogo vero — vero perché definito dalla misteriosa verità dei simboli — dove si riunisce oggi l’assemblea del Partito democratico"

(Siccome siete pigri, vi metto anche il finale dell’articolo, che somiglia un po’ di più:
"E dunque: l’Assemblea nazionale non sarà agitata da spiriti rivoluzionari. Il Padiglione della Fiera di Roma non avrà gli stucchi e gli arazzi di Versailles. Ma se non altro nel Pd il segretario è già caduto, mentre nel 1789 c’era ancora il re e non ne voleva sapere di farsi da parte. Per superare lo stallo e fare una scelta un po’ più netta e coraggiosa c’è bisogno perciò di molto meno di una rivoluzione: è sufficiente tornare a fare politica, discutere, decidere. E non solo ratificare. Se il partito democratico vuole davvero trovare la sua identità, i delegati dell’assemblea nazionale possono cominciare a cercarla da domani").

Leader vero e subito (ovvero: della Pallacorda del PD)

Il paradosso del partito democratico, il rebus della sua sempre più misteriosa identità, sta tutto qui: non si possono convocare le assise massime del congresso, perché lo statuto ha reso troppo macchinose le procedure necessarie, e perché le elezioni europee sono alle porte (e perché il tesseramento è a sua volta un rebus non ancora sciolto, aggiungerei), ma è possibile convocare in tre giorni un’assemblea nazionale che porti a Roma ben tremila persone, membro più membro meno, a cui affidare un compito poco più che notarile: quello di assegnare la reggenza del partito al vice-segretario Dario Franceschini, come soluzione ponte in vista del congresso d’autunno. In realtà, nessuno ha mai visto affidare a una riunione di tremila persone l’onere di una semplice ratifica. E nessuno sembra sospettare che cosa significhi, nel momento attuale, dare la parola a tremila persone perché affrontino una discussione che nei contenuti non può non essere impegnativa, ma di cui però si pretende di predeterminare l’esito. Se invece sabato i tremila convenuti trovassero una sala della Pallacorda in cui giurare di non separarsi più e di non sciogliersi finché il partito democratico non sarà stato stabilito e posto su salde fondamenta, come fecero nel 1789 i rappresentanti del Terzo Stato, dando il segnale della rivoluzione, forse il partito potrebbe trovare il modo di risollevarsi.