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La riforma della Costituzione ha un motivo che non si vede

immagine 29 agosto

Vi sono stati, finora, due piani di discussione della riforma costituzionale, in vista del referendum del prossimo autunno. Il primo concerne il merito, cioè il contenuto della riforma. Il secondo riguarda invece la partita politica che si gioca attorno al referendum. C’è però un terzo piano, sul quale sarebbe necessario portare la discussione, e che è purtroppo ben poco frequentato nel dibattito di queste settimane. Nel merito, i difensori della riforma rivendicano l’importanza di scelte che mettono fine al bicameralismo paritario e ridefiniscono i rapporti fra il livello statale e quello regionale, dopo anni di pseudo-federalismo malissimo digerito; quanti sono contrari trovano invece confusa o involuta la fisionomia del nuovo Senato delle Regioni e paventano una restrizione degli spazi di legittimità democratica delle istituzioni. Sul piano politico, invece, gli avversari della riforma trovano un comune denominatore nella possibilità di far cadere Renzi (e si direbbe proprio lui, più ancora che il governo da lui presieduto); al contrario, Renzi sa che con la vittoria al referendum il resto della legislatura sarebbe in discesa, e magari potrebbe riprendere verve l’antica spinta rottamatrice.

Qual è però il terzo piano, quello assai poco frequentato finora? Forse lo si vede meglio se lo si osserva da lontano, da molto lontano. Dalla foresta amazzonica, per esempio, dove si spinse l’antropologo Claude Lévi-Strauss. Imbattendosi in società «fredde» che, a differenza di quelle «calde», vivevano vicini allo «zero di temperatura storica». Società che allo studioso francese sembravano stazionarie, preoccupate esclusivamente di «perseverare nel loro essere». Lévi-Strauss aveva certamente in testa un solo modello di storia, un solo «regime di storicità»: quello tipico delle società occidentali, persuase di vivere (da almeno un paio di secoli) dentro il corso progressivo di una storia che procede per successivi accumuli, e che è palesemente ispirata e diretta verso il futuro.

Quella persuasione è ormai andata smarrita. Un altro studioso francese, lo storico François Hartog, ha parlato di crisi del regime moderno e coniato l’espressione «presentismo» per spiegare in qual modo oggi viviamo l’esperienza del tempo. L’avvenire non è più, infatti, il punto luminoso verso il quale la società umana è diretta, e così il fiume della storia, invece di dirigersi sicuro verso la foce del futuro, si slarga e ristagna nella morta gora del presente.

Il «presentismo», in realtà, ha dapprima significato l’impazienza rivoluzionaria di buttare a mare il passato, o di ottenere tutto e subito, come gridavano i muri di Parigi nel maggio del ’68. Poi, però, passata la febbre rivoluzionaria, e abbassatasi drasticamente la temperatura storica, ha voluto dire e vuol dire un tempo privo di vere aspettative, accartocciatosi su se stesso, sprofondato definitivamente al di qua di ogni linea d’orizzonte. Un provincialismo non dello spazio ma del tempo, per dirla con il poeta inglese Eliot, in cui non ha più parte il passato, che ha perso ogni esemplarità, ma in cui anche il futuro ha perso qualsiasi attrattiva.

Domanda: se questa diagnosi è corretta – e a questa diagnosi concorrono molti fenomeni storici e sociali: dalla crisi del lavoro salariato alla diffusione dei social media, dalla fine delle grandi narrazioni politiche e ideologiche ai progetti di naturalizzazione coltivati (anche) dalle scienze umane – se la diagnosi è corretta, la domanda diviene: cosa significa fare una riforma profonda della costituzione, in una simile temperie culturale? Non dovrebbe significare immettere nuovo dinamismo ed energia politica nel tessuto istituzionale del Paese? Non dovrebbe essere questa la vera scommessa, ben al di là del merito dei singoli articoli toccati dal processo di revisione?

Vi è in effetti un modo di presentare gli effetti del cambiamento costituzionale, per il quale la riforma produce al più un adeguamento, un aggiornamento del contesto istituzionale. Si tratterebbe cioè – secondo questo racconto – non di aprire un nuovo corso, una nuova storia, ma al più di non rimanere indietro rispetto al presente: del futuro c’è così, in questa maniera di apprezzare la riforma, ben poca traccia. Ce n’è ovviamente ancora meno in chi guarda invece al passato: è la retorica che monumentalizza la Carta del ’48, trasformandola in un patrimonio immutabile, ed è un altro modo, irrimediabilmente passatista, di sfuggire all’appuntamento con i compiti che la storia assegna alla politica. Ma chi vuole la riforma forse non può accontentarsi di vivere vicino allo zero di temperatura storica, o ha anzi il dovere di spingere lo sguardo più in là, oltre la crisi del tempo attuale, provando per una volta ancora a dire in maniera solida e non effimera che questo presente è inferiore all’avvenire che si tratta di aprire. Non è del resto la stessa incapacità che affligge oggi l’intera costruzione europea?

(Il Mattino, 29 agosto 2016)

Riformare i candidati

i-colori-dell-autunno-2014-legambiente-valtriversa-704x318Parlando alla Camera, Renzi ha indicato una data «ragionevole» per il referendum sulle riforme costituzionali: l’autunno del prossimo anno. Ma, intanto, nella prossima primavera si voterà per le elezioni municipali in molte città italiane, e in particolare nelle prime tre grandi città del Paese: Roma, Milano, Napoli. Domanda: non sarebbe ragionevole votare insieme per l’una cosa e per l’altra, per le riforme costituzionali e per le elezione dei sindaci? Risposta: dipende. Dipende dal punto di vista dal quale si osserva la cosa. Dal punto di vista del premier, molto probabilmente sì. Significherebbe infatti mettere le comunali nella scia delle riforme, nella speranza che un voto trascini l’altro, così che le difficoltà del partito democratico nelle grandi città sarebbero bastantemente celate dalla più grande partita del cambiamento costituzionale.

In verità, la sequenza già indicata in Parlamento un senso ce l’ha: se infatti le cose al Pd dovessero andar male in primavera, Renzi si potrebbe prendere la rivincita in autunno. Ma il fatto è che nell’ultima settimana la situazione romana è precipitata, Marino si è dimesso e la sfida non si  gioca solo su Napoli e Milano, e sulle altre città minori. Ora ne va anche della Capitale: sarebbe dunque difficile circoscrivere una eventuale sconfitta in una dimensione puramente locale. Il desiderio inconfessabile di giocarsi tutto in un unico round comincia a prendere forma.

È complicato. Lo è sotto il profilo dei tempi, poiché le riforme non sono ancora all’approvazione definitiva, e lo è dal punto di vista politico, perché un simile accorpamento tra questioni amministrative e questioni costituzionali susciterebbe più di uno strepito. Ma il solo fatto che la cosa venga prospettata è indice delle difficoltà in cui si dibatte il Pd. Difficoltà che, forse, vanno anche al di là della scelta dei nomi e del profilo dei candidati: l’impressione è infatti che Renzi non trovi nel suo partito un serbatoio nel quale attingere per sfornare quella famosa classe dirigente, che è famosa proprio come la famosa invasione degli orsi in Sicilia, «nel tempo dei tempi»: una roba fantastica, insomma, perché al momento non se ne hanno notizie certe.

Così bisogna provarle tutte. Nelle prossime settimane, il partito democratico deve trovare i candidati giusti, e in molti casi, prima ancora dei candidati, dovrà chiarirsi le idee quanto al metodo di selezione. La retorica delle primarie «elemento identitario» del partito, inscenando la quale il Pd è nato, è decisamente in ribasso, perché nessuno sa bene cosa ne uscirebbe fuori. Un conto è fare le primarie confermative, alla Prodi, un altro è fare primarie competitive, in cui però sia in gioco di fatto il governo del Paese, come è stato con Renzi, un altro, tutt’altro conto ancora è farle là dove conta solo il notabilato locale, dove tutto si decide in base al «chi sta con chi», e dove la ragione sociale del partito si è – a dir poco – parecchio appannata.  A leggere l’intervista del vicesegretario del Pd, Guerini, su questo giornale, pare che questo appannamento sia a Napoli un po’ più vero che altrove, forse perché a Napoli alle difficoltà del partito si somma la volontà di fermare Bassolino: la sua candidatura è, infatti, per il solo fatto di stare in campo, una bocciatura per il resto del partito. Come che sia, a Napoli nessuno sa (e Guerini non chiarisce) quale progetto abbia il Pd sulla città. Dopo le dimissioni di Marino, in verità, non è chiaro neppure a Roma, posto che prima invece lo fosse, mentre a Milano la cosa sarebbe diversa, se non fosse che la mancata ricandidatura di Pisapia spalanca un buco che non è facile colmare. Improvvisamente (ma non troppo),ci si accorge che del Pd che, a livello nazionale, veleggia sopra il 35% nei sondaggi, in giro, nei territori, ce n’è pochino, e non solo perché calano gli iscritti o si chiudono i circoli. In una situazione del genere, è probabile peraltro che la minoranza interna troverà nuovi motivi per polemizzare, anche se la debolezza dei partiti politici è un dato cronico, quasi consustanziale al percorso dell’intera seconda Repubblica.

Proprio perciò non sarebbe male – dal punto di vista del premier, almeno – usare il battesimo referendario della terza Repubblica, il prossimo anno, per fare un’operazione di ricambio profondo anche nelle città. Per dire: noi siamo quelli del sì alle riforme, e coprire così, con il proprio investimento personale, tutte le magagne piccole e grandi del Pd.

Poi, certo, non è mica detto che arrivi il sì largo e rotondo che Renzi si aspetta dal referendum. Ma la partita politica avrebbe un significato chiaro, e verrebbe giocata su un terreno sul quale Renzi potrebbe muoversi con disinvoltura, tanto più che l’avversario più temibile sembra oggi essere, in attesa che il centrodestra si ristrutturi, il movimento Cinque Stelle. Come dire: una scelta di sistema, di qua o di là, riforme o rivoluzione. Il tutto lo si farebbe poi senza pagare dazio alle debolezze politiche locali, senza dover subire candidature più o meno discutibili, o semplicemente improvvisate, senza – infine – dar fiato e spazio ai propri avversari interni.

Insomma, una sfida vera e grande, all’altezza delle ambizioni del presidente del Consiglio. Che poi ci siano le condizioni per arrivarvi, politiche e parlamentari, è un altro paio di maniche. Ma questo non vuol dire che non si possa accarezzare l’idea. Sempre meglio accarezzare idee in autunno che prendere sberle elettorali in primavera.

(Il Mattino, 15 ottobre 2015)