Vi sono stati, finora, due piani di discussione della riforma costituzionale, in vista del referendum del prossimo autunno. Il primo concerne il merito, cioè il contenuto della riforma. Il secondo riguarda invece la partita politica che si gioca attorno al referendum. C’è però un terzo piano, sul quale sarebbe necessario portare la discussione, e che è purtroppo ben poco frequentato nel dibattito di queste settimane. Nel merito, i difensori della riforma rivendicano l’importanza di scelte che mettono fine al bicameralismo paritario e ridefiniscono i rapporti fra il livello statale e quello regionale, dopo anni di pseudo-federalismo malissimo digerito; quanti sono contrari trovano invece confusa o involuta la fisionomia del nuovo Senato delle Regioni e paventano una restrizione degli spazi di legittimità democratica delle istituzioni. Sul piano politico, invece, gli avversari della riforma trovano un comune denominatore nella possibilità di far cadere Renzi (e si direbbe proprio lui, più ancora che il governo da lui presieduto); al contrario, Renzi sa che con la vittoria al referendum il resto della legislatura sarebbe in discesa, e magari potrebbe riprendere verve l’antica spinta rottamatrice.
Qual è però il terzo piano, quello assai poco frequentato finora? Forse lo si vede meglio se lo si osserva da lontano, da molto lontano. Dalla foresta amazzonica, per esempio, dove si spinse l’antropologo Claude Lévi-Strauss. Imbattendosi in società «fredde» che, a differenza di quelle «calde», vivevano vicini allo «zero di temperatura storica». Società che allo studioso francese sembravano stazionarie, preoccupate esclusivamente di «perseverare nel loro essere». Lévi-Strauss aveva certamente in testa un solo modello di storia, un solo «regime di storicità»: quello tipico delle società occidentali, persuase di vivere (da almeno un paio di secoli) dentro il corso progressivo di una storia che procede per successivi accumuli, e che è palesemente ispirata e diretta verso il futuro.
Quella persuasione è ormai andata smarrita. Un altro studioso francese, lo storico François Hartog, ha parlato di crisi del regime moderno e coniato l’espressione «presentismo» per spiegare in qual modo oggi viviamo l’esperienza del tempo. L’avvenire non è più, infatti, il punto luminoso verso il quale la società umana è diretta, e così il fiume della storia, invece di dirigersi sicuro verso la foce del futuro, si slarga e ristagna nella morta gora del presente.
Il «presentismo», in realtà, ha dapprima significato l’impazienza rivoluzionaria di buttare a mare il passato, o di ottenere tutto e subito, come gridavano i muri di Parigi nel maggio del ’68. Poi, però, passata la febbre rivoluzionaria, e abbassatasi drasticamente la temperatura storica, ha voluto dire e vuol dire un tempo privo di vere aspettative, accartocciatosi su se stesso, sprofondato definitivamente al di qua di ogni linea d’orizzonte. Un provincialismo non dello spazio ma del tempo, per dirla con il poeta inglese Eliot, in cui non ha più parte il passato, che ha perso ogni esemplarità, ma in cui anche il futuro ha perso qualsiasi attrattiva.
Domanda: se questa diagnosi è corretta – e a questa diagnosi concorrono molti fenomeni storici e sociali: dalla crisi del lavoro salariato alla diffusione dei social media, dalla fine delle grandi narrazioni politiche e ideologiche ai progetti di naturalizzazione coltivati (anche) dalle scienze umane – se la diagnosi è corretta, la domanda diviene: cosa significa fare una riforma profonda della costituzione, in una simile temperie culturale? Non dovrebbe significare immettere nuovo dinamismo ed energia politica nel tessuto istituzionale del Paese? Non dovrebbe essere questa la vera scommessa, ben al di là del merito dei singoli articoli toccati dal processo di revisione?
Vi è in effetti un modo di presentare gli effetti del cambiamento costituzionale, per il quale la riforma produce al più un adeguamento, un aggiornamento del contesto istituzionale. Si tratterebbe cioè – secondo questo racconto – non di aprire un nuovo corso, una nuova storia, ma al più di non rimanere indietro rispetto al presente: del futuro c’è così, in questa maniera di apprezzare la riforma, ben poca traccia. Ce n’è ovviamente ancora meno in chi guarda invece al passato: è la retorica che monumentalizza la Carta del ’48, trasformandola in un patrimonio immutabile, ed è un altro modo, irrimediabilmente passatista, di sfuggire all’appuntamento con i compiti che la storia assegna alla politica. Ma chi vuole la riforma forse non può accontentarsi di vivere vicino allo zero di temperatura storica, o ha anzi il dovere di spingere lo sguardo più in là, oltre la crisi del tempo attuale, provando per una volta ancora a dire in maniera solida e non effimera che questo presente è inferiore all’avvenire che si tratta di aprire. Non è del resto la stessa incapacità che affligge oggi l’intera costruzione europea?
(Il Mattino, 29 agosto 2016)