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I passeggini e il senso della politica

È già improbabile che vi troviate a fare due passi con Catherine Millet, l’autrice dello scandaloso «La vita sessuale di Catherine M.», figuriamoci se vi potrà mai capitare di farlo mentre spingete avanti un passeggino. Peccato, perché è la situazione ideale per fare due chiacchiere con un venditore d’almanacchi il quale, dopo aver notato che non esistono più le mezze stagioni, che sono tutti ladri e che però suo figlio è in gamba, sicuramente passerà a lamentarsi di questi nostri tempi scettici e relativisti, in cui più nessuno crede a nulla, i veri valori non contano più e non c’è un ideale o un senso da tutti condiviso.

A quel punto, voi non avreste dovuto fare altro che pregare Catherine, che ci ha scritto su un paio di paginette, di parlare dei passeggini di oggi. Perché i passeggini di oggi non sono come quelli di ieri: hanno o possono avere in più un nome, una targa, sei o otto ruote, freni a disco anteriori, manubrio ergonomico regolabile in altezza (per tutelare la schiena del conducente), telaio superaccessoriato, imbotitture, cappottine e altro ancora. In breve: tutto quello che serve per soddisfare le ansie di salute, sicurezza e competitività dei genitori, e tracciare così un profilo ideologico abbastanza preciso dell’uomo contemporaneo.

Al venditore che non trova più un senso in quello che fa basterà dunque far osservare le cose che gli stanno intorno, che sono piene zeppe di connotazioni di senso, solo che tali connotazioni sono inavvertite, anche se non nascoste, e subìte, anche se non imposte. Il che vuol dire anche che sono assai coriacee, e difficilmente modificabili: non sarà, infatti, rifiutando di andare a spasso coi passeggini (e con Catherine Millet) che le cose cambieranno. Fuor di metafora: se è vero che le litanie postmoderne sulla fine del senso, la fine delle ideologie, la fine della storia e via finendo hanno stancato, è vero pure che non basta far la critica della modernità semplicemente chiamandosene fuori. Un altro mondo, insomma, non è possibile, se non si comincia a cambiare un po’ questo nostro mondo.

Il senso infatti c’è, ed è nelle cose e in mezzo a noi. Solo che tanto poco lo riconosciamo, tanto poco è nostro, quanto poco lo elaboriamo in comune, limitandoci ad assumerlo inconsapevolmente.

Il fatto è che i significati che intessono le nostre storie, singolari e collettive, non risiedono mai in menti individuali: e non perché non siamo bravi o capaci a farceli stare dentro, ma perché proprio non ci stanno: non sono fatti per stare «nelle» teste, ma per stare «tra» le teste. Non sono cioè pensieri privati, stati mentali individuali o rappresentazioni meramente soggettive. Per questo un grande studioso di psicologia, James Gibson, invitava a guardare non a quello che abbiamo dentro le nostre teste, ma a quello dentro cui le nostre teste stanno.

Ma se è così, se il senso ha una costituzione intimamente pubblica, come non chiederci allora che cosa comporta quel fenomeno massiccio che è oggi la deformazione (a volte, più bruscamente, la privatizzazione) della sfera pubblica – a cui non infrequentemente corrisponde un’altra deformazione eguale e contraria, cioè la pubblicizzazione della vita privata? Non si tratta solo di lamentarsi dell’una e dell’altra, come poveri venditori di almanacchi, anche se di motivi per lamentarsi ne abbiamo: tanto è scandalosa la commistione di interessi privati nella gestione della cosa pubblica da un lato, quanto è indecorosa l’ostentazione pubblica dei propri personali piaceri dall’altro. Grazie a qualche governo Berlusconi, la seconda Repubblica ha mostrato egregiamente come si possano avere insieme entrambe le cose. Ma più in profondità si tratta di vedere che, per questa via, rattrappiscono in generale le condizioni (linguistiche, sociali, finanche materiali) alle quali soltanto è possibile qualcosa come la costruzione in comune di un senso condiviso. Al solito venditore d’almanacchi che si chiede dove mai sia più un senso, visto che c’è stata la secolarizzazione, la demitizzazione, la deideologizzazione, il disincantamento del mondo e non so cos’altro, si può dunque rispondere che il senso nessuno ce l’ha non perché ormai siamo tutti scafati, perché Dio è morto, Marx pure e la Millet non viene a passeggio con noi, ma perché il senso è una roba che si costruisce insieme, e che dunque richiede certe condizioni: una vita sociale articolata in corpi intermedi, un minimo di uguaglianza e di pari dignità, partecipazione politica, luoghi pubblici in cui una comunità può riconoscersi e rappresentarsi, e così via.

Chiacchierando con un venditore, la si può pure buttare in politica: lui chiederà che cosa pensiamo dei tecnici, e noi, che stiamo ancora mani al passeggino, gli potremo mostrare l’ipermoderno oggetto tecnico per chiedergli se a lui va bene o no che il senso ce lo ammanniscano solo i produttori di passeggini, ben assistiti dall’ufficio marketing. Poi, finita la passeggiata, ci saluteremo, con l’augurio di ritrovarci ancora insieme.