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Se la croce e il velo sono vietati al lavoro

Reni

«Una norma interna di un’impresa privata che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali»: così ha deciso la Corte di Giustizia Europea, respingendo il ricorso di una donna musulmana che chiedeva di poter indossare il velo sul luogo di lavoro. La Corte ha considerato che vi è discriminazione solo se «l’obbligo apparentemente neutro comporti, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono a una determinata religione o ideologia». Siccome non è questo il caso, perché il divieto riguarda qualsiasi segno, «la politica di neutralità» è legittima e il capo deve rimanere scoperto.

Sembra ragionevole, ma non lo è affatto, e non è difficile spiegare il perché.

Poniamo che i giudici abbiano ragione di considerare discriminatoria solo la regola, quale che essa sia, che va a svantaggio di alcuni – individui o gruppi – e non di tutti. È evidente allora che una regola che proibisse la manifestazione pubblica del pensiero non sarebbe discriminatoria, se appunto valesse per tutti. Eppure, sarebbe una gravissima violazione di un diritto fondamentale. Ora, perché manifestare il proprio pensiero in materia di fedi religiose (o politiche o filosofiche) non dovrebbe essere considerato un diritto parimenti fondamentale? Perché proibire di esprimere il proprio credo non dovrebbe essere considerata una limitazione della libertà individuale, che sul luogo di lavoro può essere ristretta solo se la restrizione è giustificata dal compito che si è chiamati a svolgere?

Ieri la Corte ha deciso anche sul caso di un’altra donna: francese, musulmana, licenziata dall’impresa informatica presso la quale lavorava, a seguito alle rimostranze di un cliente infastidito dall’uso del velo. In questa sentenza, la Corte precisa che il motivo per imporre il divieto non può essere il desiderio del cliente di non essere servito da una donna che indossi lo hijab, e ha pure aggiunto che, per il diritto europeo, la religione di cui si parla, quando si parla di libertà di religione, «comprende sia il forum internum, vale a dire il fatto di avere convinzioni personali, sia il forum externum, ossia la manifestazione in pubblico della fede religiosa».

E allora? Com’è possibile che un’impresa privata possa proibire il velo, cioè la «manifestazione in pubblico della fede religiosa», se essa rientra nella «libertà di religione», sancita nell’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea?

La disputa pro o contro il velo scuote la Francia da anni. In particolare, l’introduzione della legge sui simboli religiosi, promulgata nel 2004, ha riproposto un’interpretazione che potremmo dire aggressiva della laicità dello Stato, che, nella difficoltà di stabilire il confine varcato il quale l’esibizione di un simbolo religioso diviene la prevaricazione della libertà altrui di vivere in uno spazio aconfessionale, ha preteso di risolvere alla radice la questione, senza troppo preoccuparsi di bilanciare la laicità delle istituzioni con le esigenze personali di fede del credente.

L’idea è che dietro il velo – quelli integrali, come niqab e burqa, ma anche quelli meno coprenti, come hijab e chador – vi sia in realtà il rifiuto dell’integrazione e una sfida alla «République». Il divieto riguarda anche altri simboli, come la kippa ebraica, il turbante sikh, o le croci cristiani, quando siano troppo grandi e invadenti, ma è chiaro che la questione esplosiva riguarda la deriva radicale che si nasconderebbe dietro il velo islamico. Questa idea è scritta nella storia della Francia fin dai tempi della strage di san Bartolomeo, cioè delle guerre civili di religione che insanguinarono la Francia nella seconda metà del Cinquecento. Poi c’è stata anche la rivoluzione francese, con la Dea Ragione portata in processione, e il consolidamento di un patrimonio di valori repubblicani garantito non dalla libera convivenza pluralista delle fedi religiose, ma dalla costruzione di una sfera pubblica in cui quelle fedi proprio non comparissero.

Ora, non c’è bisogno di scomodare Habermas e la sua società post-secolare per riconoscere nelle tradizioni religiose qualcosa di diverso da una minaccia alla pace sociale, con il loro potenziale di intolleranza nei confronti dell’universalità della legge. Non è vero affatto che civiltà e religione viaggiano lungo linee opposte, e che il crescere dell’una è possibile solo al decrescere dell’altra. La preoccupazione perché si dia reciproco riconoscimento fra fedi e culture non può rovesciarsi nel suo opposto: in una volontà di assimilazione che, per assicurare la parità di trattamento a tutti i credi, si spinge in realtà a negare qualsiasi riconoscimento. Non si può realizzare l’integrazione sulla base dell’esclusione, e privare lo spazio pubblico dei depositi di senso che in quelle tradizioni sono contenuti. I nostri figli studiano nelle scuole pubbliche proprio quelle correnti di pensiero – religiose, filosofiche o ideologiche – che certi segni portano con sé perché costruiscono appartenenza, legame sociale: che senso ha allora impartirne l’insegnamento, se riescono pericolose al punto di doverne vietare l’uso? Per la verità, pericolose lo sono davvero, come lo è qualsiasi elemento di identità che non si lascia risolvere in uno spazio liscio e neutro, ma proprio perciò insignificante. Ma è pericoloso anche negare, quando in realtà ciò che viene negato è semplicemente rimosso, non cancellato ma spostato, sottratto alla vista. Perché il rischio che torni in altri modi e in altre forme esiste, e non è detto che saranno, quando saranno, modi (e toni) più morbidi e più concilianti. Meglio pensarci per tempo.

(Il Mattino, 15 marzo 2017)

Una buona legge è tale se rispetta il senso del limite

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Il primo caso al mondo di eutanasia su un minore non può non suscitare dubbi e interrogativi. In Belgio, dove si è dato il caso, la legge autorizza trattamenti eutanasici, senza porre limiti di età, quando il malato sia affetto da un male incurabile, giunto allo stadio terminale, e la sofferenza patita sia costante e intollerabile. Occorre che siano rispettati, e rigorosamente osservati, tutti i pilastri su cui si regge l’eutanasia legale: non solo lo stato clinico, ma anche una adeguata e completa informazione, e soprattutto l’accertamento della volontà del malato. Ora è chiaro che, nel caso di un minore, è molto più difficile stabilire queste ulteriori condizioni. Il significato stesso dei termini coinvolti nella decisione è molto meno netto di quanto non sia per una persona adulta. Che cosa vuol dire morire? Cosa vuol dire compiere una scelta irreversibile? E cosa l’assenza di alternative? In che modo risponda a queste domande un ragazzo, o un bambino, e quanto la risposta sia meditata, riflessa, matura, è tanto più difficile dire, quanto più bassa è l’età del minore. Certo, la legge belga prevede il concorso dei genitori, oltre ai pareri medici, ma il nodo non resta meno intricato, e anzi delicatissimo da sciogliere: quanto sia individuale, indipendente, autonoma, la volontà del minore, che magari ha vissuto solo pochi anni, per giunta in condizioni di salute particolarmente gravose.

D’altra parte: si possono lasciare i genitori e i loro figli soli e senza strumenti, in situazioni estreme, quando il male avanza, la sofferenza si fa insopportabile, e ogni altra via è preclusa? È vero: la medicina oggi dispone di molti modi per alleviare la percezione del dolore, fino alla sedazione profonda, ma rimane comunque la necessità di decidere, o per alcunidi non decidere, sul modo in cui una vita umana giunga alla sua fine: se in condizioni dignitose, umane, compassionevoli. Chiunque sia stato vicino a un malato terminale sa quanto dura sia la prova a cui egli è sottoposto, e come la morte possa diventare, in certi casi estremi, l’unico sollievo dal dolore, o l’unica maniera di mantenere il rispetto di sé. Che in questa stretta possa trovarsi anche un minore può sembrarci inaccettabile: però accade.

È il più grande degli scandali: che un innocente soffra, e soffra al punto che si spenga in lui persino la volontà di vivere. Ma il bambino è il più innocente fra gli innocenti, e la sua sofferenza è la più scandalosa fra tutte. Ne «I fratelli Karamazov», Dostoevskij fa esprimere a Ivan, il più ‘teologo’ dei fratelli, tutta l’enormità di quella sofferenza inutile: in nessun modo redimibile, in nessun modo riscattabile. La più dura obiezione contro l’esistenza di Dio. Di più: Ivan trova ancor più impensabile che si provi a giustificarla, quella sofferenza, a dargli un senso o una ragione. Gli sembra un’offesa ancora più grande provare a inserirla in un qualunque disegno provvidenziale, misterioso o imperscrutabile che sia. Chi domanda di morire non ha più ragioni per vivere, ma forse non vuole neppure che gliele si presti, che altri gliele forniscano, sottraendogli non solo il diritto di disporre della propria vita, ma anche il diritto di lasciarla fuori, definitivamente fuori da qualunque rete di parole. Logos – parola, discorso, ragione – vuol dire infatti originariamente raccogliere, raccolta. È lo spazioin cui la vita umana, in quanto umana, si raccoglie, viene sottratta a una dimensione soltanto naturale, biologica, per legarsi a quella degli altri: in una possibilità di ascolto e di dialogo, in una narrazione condivisa, in una storiacomune. Chi muore, muore a tutto questo. Chi vuole morire, vuole morire a tutto questo: è giunto in una landa estrema, solitaria, abissale, in cui le parole sono spente del tutto dal dolore, non possono più raggiungerlo, abitarlo, comprenderlo. Non possono spiegare e nemmeno alleviare.

Ma un bambino? Quali sono le parole di un bambino, le sue ragioni e la fine di tutte le sue ragioni per vivere? Come si precisa la sua volontà di sfuggire alla rete del mondo, di dichiarare che non c’è parola – e non c’è cura – che possa ancora sostenerlo nella sua sofferenza?

Noi non conosciamo l’età del minore al quale è stata praticata l’eutanasia. Non sappiamo quale fosse la sua situazione clinica, le sue condizioni di salute. Dobbiamo ovviamente supporre che siano stati rigorosamente rispettate i protocolli previsti dalla legge, condotte tutte le verifiche e seguite tutte le procedure: il fatto che questo primo caso giunga a distanza di circa due anni dall’approvazione della legge dimostra che la legge non banalizza il diritto a morire per un minorenne. Sarebbe perciò una vera iattura se si conducesse la discussione a colpi di paragoni con le politiche eugenetiche del nazismo e il programma di eliminazione dei disabili, dal monte Taigeto, a Sparta, alle sperimentazioni «in vivo» dei medici del Führer. Tutto questo non c’entra nulla. Ma anche il lessico dei diritti e delle libertà individuali – che è il lessico del nostro tempo – deve chiedersi se ha davvero tutte le parole giuste per spingersi in queste difficili zone di confine, in cui non coincidono o non sono ancora tutte formate individualità, personalità e vita adulta e autonoma. Non è un paradosso che molte cose un minorenne non può fare, mentre può – secondo la legge belga – chiedere di morire?

Delicatezza, umanità, ma anche prudenza e senso del limite sono dunque indispensabili per procedere senza inutile baldanza,sia nella discussione pubblica che nella discussione in Parlamento. Solo così, se si farà una legge, potrà essere anche una buona legge.

(Il Messaggero, 18 settembre 2016)