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Due pesi due misure e un avviso

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Si è parlato di ultimatum, ma la situazione in cui si è infilato il Movimento Cinquestelle, a Roma, somiglia invece a un gioco «lose-lose»: comunque ti muovi, perdi. Perdi tu, e perde Virginia Raggi. Riuniti in un conclave che, per l’ennesima volta, non ha più nulla dello streaming delle origini, i capi del Movimento dovevano decidere se ritirare il simbolo che sei mesi fa aveva espugnato il Campidoglio, promettendo una rivoluzione che non è mai iniziata, o commissariare il sindaco, pazienza se questo avrebbe comportato il ridimensionamento della sua figura e una aperta sconfessione del suo operato.

La prima opzione equivaleva ad ammainare la bandiera a Cinquestelle dai colli fatali di Roma. Che se poi l’Amministrazione fosse caduta per l’indisponibilità dei consiglieri a proseguire fuori dall’orbita del Movimento (come invece è accaduto a Parma, con Pizzarotti), sarebbe stato persino meglio. I pentastellati avrebbero potuto dire, in tale ipotesi, che loro sono e rimangono diversi, che loro non accettano compromessi, che loro ci mettono un secondo a cacciare chi viola i principi del Movimento, che loro non guardano in faccia a nessuno. Tutto ben detto, salvo che la via d’uscita sarebbe stata la più clamorosa sconfitta per i Cinquestelle, che sulla Raggi alfiere del rinnovamento avevano puntato tutte le loro fiches. È illusorio, infatti, pensare che Grillo possa fare con la Raggi quello che maldestramente ha tentato di fare la Raggi con Marra: come lei ha detto che in fondo era solo uno dei dodicimila dipendenti del Comune, così Grillo e i suoi avrebbero dovuto provare a dire che in fondo la Raggi non è che uno degli ottomila sindaci d’Italia. La Raggi si è scusata per aver scelto Marra: sarebbe bastato che Grillo si scusasse per aver scelto la Raggi?

La seconda opzione, quella per la quale Grillo si è risolto, al termine di un vertice fiume, punta a debellare il virus che ha infettato il Movimento, – per usare l’espressione impiegata da una personalità di punta dei Cinquestelle romani, Roberta Lombardi –, allontanando, dopo l’arresto del fidatissimo Marra, anche gli altri uomini sui quali Virginia Raggi ha puntato: il vicesindaco Daniele Frongia e Salvatore Romeo, capo della segreteria politica. L’ipotesi è insomma che la via d’uscita sia spegnere il raggio magico, e mettere definitivamente il sindaco sotto stretta tutela. In realtà, avevano già provato a fare una cosa del genere: con il contratto che la candidata aveva dovuto firmare (con tanto di penale in caso di «danno d’immagine» al Movimento), e con la costituzione di un mini-direttorio sulle rive del Tevere, ben presto però sciolto per manifesta inutilità. La Raggi infatti aveva orgogliosamente rivendicato la propria autonomia. La quale però, com’è di tutta evidenza, si fondava proprio sugli uomini finiti nel mirino delle indagini. Dove, d’altra parte, avrebbe dovuto andare a prendere una classe dirigente pentastellata? I grillini non ce l’avevano, e forse aveva ragione un’altra esponente di peso, Paola Taverna, quando disse (per paradosso ma non troppo) che a Roma sarebbe stato molto meglio perdere: sta di fatto che il sindaco ha pescato nel giro delle sue amicizie, dei suoi rapporti personali, professionali, anche per mantenere un minimo di indipendenza. Partita col piede sbagliato, in mezzo a mille incertezze, tra assessori nominati e poi revocati, assessori dimessi e ora anche dirigenti arrestati, la possibilità che la Raggi continuasse a fare di testa sua e che il Movimento la seguisse compattamente era già del tutto tramontata. Ma ora commissariare il sindaco, chiedere e ottenere la testa dei suoi fedelissimi, non farle fare più un passo senza l’approvazione di Grillo (o del suo Staff, o di Casaleggio, o del direttorio nazionale, o dei parlamentari romani, o dei presidenti pentastellati dei municipi cittadini, oppure di tutti costoro messi insieme) significa comunque esporsi al rischio che, alla prossima tegola, se ne venga giù tutto il tetto del Campidoglio, e che il Movimento intero, non solo la Raggi, ci finisca sotto. Perché le procedure con le quali ha proceduto alle nomine sono tuttora sotto la lente dei magistrati: cosa succederà allora se domani arrivasse al primo cittadino un avviso di garanzia per abuso d’ufficio? Nel contratto, il «danno di immagine» è quantificato per la modica somma di 150.000 euro, e a quanto si sa la Raggi, al primo stormir delle fronde, avrebbe chiesto un parere legale circa l’esigibilità di quella cifra. Ma a parte la vile pecunia: il danno politico?

Stretto fra queste due opzioni, Grillo ha deciso: commissariamento. Romeo si dimette, Frongia non fa più il vicesindaco e mantiene solo le deleghe. E pure il fratello di Marra se ne va. Il tutto viene rubricato sotto la voce «segno di cambiamento», come se la giunta Raggi non fosse in piedi da soli sei mesi, e il problema non fosse casomai quello di durare, essendo cambiata la squadra di governo già troppo in così poco tempo. Ma tant’è: anche i grillini scoprono il politichese e la realpolitik.

E se poi la Procura notificasse davvero qualcosa, nei prossimi giorni o nelle prossime settimane? Ecco la risposta di Grillo, che merita di essere letta per intero, e, quasi, di essere lasciata senza commento: «A breve defineremo un codice etico che regola il comportamento degli eletti del MoVimento 5 Stelle in caso di procedimenti giudiziari. Ci stanno combattendo con tutte le armi comprese le denunce facili che comunque comportano atti dovuti come l’iscrizione nel registro degli indagati o gli avvisi di garanzia». Definiranno un codice etico. Tradotto: fino a ieri un avviso di garanzia comportava dimissioni; da oggi, per i nostri, cominceremo a parlare di atti dovuti e ci riscopriremo garantisti. Contro gli altri continuiamo a strillare in piazza «onestà! Onesta!», per i nostri gridiamo invece al complotto e ce la prendiamo con quelli che ci vogliono fermare. Due pesi, due misure, due morali. Se la contraddizione non esplode prima e arrivano presto le elezioni, magari Grillo la sfanga, ma Roma no.

(Il Mattino, 18 dicembre 2016)

 

 

Grillo, la svolta verso i delusi della sinistra

due pennuti

L’elezione del Presidente della Repubblica ha avuto, tra gli altri effetti, quello di spingere le forze politiche italiane a riposizionarsi. Rispetto all’ultima stagione più o meno emergenziale di Napolitano – il governo Monti, il governo Letta, i primi mesi di Renzi – la nuova fase è segnata da una maggiore stabilità. Le scadenze politiche e istituzionali più impegnative sono infatti alle spalle: manca, è vero, l’appuntamento con il voto delle regioni, ma da quel voto (di prevalente marca amministrativa) è difficile attendersi novità dirompenti, comunque vadano le cose nelle due regioni più in bilico, la Campania e il Veneto. Superata la prova del Colle, Matteo Renzi promette dunque di durare. Sembra averne non solo l’intenzione, ma anche l’interesse.

Di rimbalzo, all’opposizione tocca organizzarsi, di qui in avanti, per i tempi lunghi della legislatura. Ieri Beppe Grillo ha preso atto che nel Parlamento, che voleva aprire come una scatoletta di tonno, deve rimanerci dentro a lungo. Nel frattempo, a destra, a far la voce grossa in piazza è sceso anche Salvini. Con la crisi economica e le difficoltà con l’Unione europea di paesi come l’Italia, i temi federalisti e secessionisti della Lega rischiavano di apparire infatti incomprensibili. Salvini ha spostato di conseguenza il focus della polemica politica. Essendosi chiamata fuori per tempo da responsabilità di governo, ha deciso di mettersi su un altro cammino: raccogliere intorno a sé tutti i malcontenti, le frustrazioni e i risentimenti comportati dai vincoli europei, dalle politiche di bilancio, dalle riforme strutturali, dalla moneta unica, e dare ad essi una forte impronta populista e nazionalista, contando anche sul fatto che nel frattempo si è resa sempre meno percepibile la proposta politica di Forza Italia. Berlusconi non sa ancora dove andare: se sulla sponda moderata, insieme con Alfano e il popolarismo europeo, oppure su quella radicale che Salvini oggi capeggia con disinvoltura. Le contraddizioni che il Cavaliere del buon tempo andato poteva bellamente ignorare – saldando tutto insieme nei contenitori volta a volta inventati allo scopo (il Polo del Buongoverno, la Casa delle libertà, il Popolo della Libertà) – ora che è debole e periclitante gli sottraggono spazio politico. I due o tre ingredienti di cui era fatto il centrodestra italiano stanno ormai in pezzi separati: il moderatismo con Alfano, il populismo con Salvini, il liberismo con quel che resta di Forza Italia. E quello che sotto la felpa gonfia di più il petto, Salvini, tende a oscurare gli altri due.

E tende a oscurare pure Grillo, la cui vena polemica, anti-casta, anti-ladri, anti-politica, anti-Bruxelles, anti-immigrati, rischia di non avere uno sbocco proprio, ben distinto e riconoscibile. Il numero di vaffa che Matteo Salvini è pronto a dire, infatti, supera ormai quello di cui dispone il primo inventore del Vaffa Day.

Così Grillo ha cominciato a cercare uno spazio politico più definito alla sinistra del governo, provando a egemonizzare quel che rimane fuori o è marginalizzato dalla narrazione renziana: Sel, la minoranza Pd, la sinistra radicale. Al Corriere della Sera ha affidato la sua proposta. Due punti, considerati strategici: il referendum sull’euro e il reddito di cittadinanza. Il primo punto accomuna le forze populiste e sovraniste in giro per il continente; il secondo qualifica a sinistra l’opposizione a Cinque Stelle. Grillo chiama in realtà reddito di cittadinanza una cosa che somiglia piuttosto a un reddito minimo garantito (limitato nel tempo e subordinato alla disponibilità ad inserirsi nel tessuto lavorativo), ma l’intenzione è chiara: fare a sinistra quel che con gli esodati e la critica alla riforma Fornero fa a destra Salvini. Sul piano parlamentare, Grillo cerca poi di ampliare le crepe nel Pd. Dialogare sulla riforma della Rai serve a quello.

Ma la novità non è nei contenuti, bensì nella musica che con quei contenuti Grillo prova a suonare. L’indignazione morale contro sprechi e corruzione, privilegi e abusi, rimane il basso continuo, ma si aggiunge un’altra nota. Il Movimento Cinque Stelle sta dalla parte dei poveri, non solo degli onesti. La povertà, dice Grillo al Corriere, è una malattia e non una colpa. La preoccupazione sociale, così, si sposta: ai piccoli proprietari, piccoli imprenditori, piccoli artigiani, si aggiunge un più generico sfondo di emarginazione, disoccupazione ed esclusione sociale. E Grillo prova così a giocare da sinistra la carta populista della contrapposizione all’Europa dei banchieri, ma anche ai grandi interessi industriali e al jobs act, scommettendo sul fatto che lungo questa strada troverà qualche alleato in più, e che intanto le riforme di Renzi produrranno più scontenti che contenti.

Il populismo, peraltro, non è detto che sia una cattiva parola: lo diventa, però, se il riformismo al governo dà buoni frutti. E questa è, in effetti, la sfida: hic Rhodus, hic salta.

(Il Mattino, 5 marzo 2015)

 

Grillo: battuti da un Paese di pensionati

ImmagineGrillo va avanti. Aveva detto che in caso di sconfitta avrebbe lasciato e invece va avanti. E forse non ha tutti i torti. Il quadro che il voto di domenica ci restituisce non permette infatti di considerare chiusa la parentesi del grillismo, e si sbaglierebbe se si considerasse ormai avviata la parabola discendente del movimento e la stabilizzazione del sistema politico e istituzionale. Forse, dal confronto con il voto delle politiche di febbraio, si può trarre non solo l’ovvia conclusione che i democratici hanno di che esultare mentre gli altri si leccano le ferite (con l’eccezione della Lega e, parzialmente, della lista Tsipras), ma anche una constatazione un po’ meno ovvia. I giochi sono ancora aperti, infatti, e per quanto riguarda la rabbia e il disagio sociale che il grillismo intercetta e canalizza, sarebbe avventato dire che è ormai rientrata, o in via di assorbimento. Basta dare una scorsa ai commenti sul blog del movimento, per dubitarne fortemente. Grillo avrà peraltro compreso che andare «oltre Hitler» non fa prendere più voti, ma anzi allontana una parte dell’elettorato certamente insoddisfatto dell’offerta politica, a cui però, altrettanto certamente, non può bastare neppure il carcere per tutti i politici, lo sputo mediatico e il liberatorio rito del vaffa quotidiano. Tuttavia un’altra, consistente parte di elettorato, esasperata dalla crisi e in cerca di risposte concrete, c’è tuttora, e rischia anzi di incancrenirsi per il senso di frustrazione che sperimenta. In giro per il continente, d’altro canto, il vessillo europeo ha radunato molto meno entusiasmo per le idealità che esprime, che malcontento per i sacrifici che impone. La constatazione un po’ meno ovvia che lascia aperti i giochi, dunque, è la seguente: nessuno dei partiti maggiori ha ottenuto un risultato in linea con la sua effettiva forza e rappresentatività nella società. Senza nulla togliere a Renzi, ma anzi riconoscendogli gli straordinari meriti personali, il Pd non vale il quaranta per cento, così come d’altra parte il centrodestra non vale, in Italia, la deludente percentuale raccolta da Forza Italia. Forse neppure se sommiamo al suo risultato qualche altro spezzone del fu centro-destra. Il dato di domenica tutto appare, insomma, meno che consolidato. Il che dà ancora spazio a ulteriori, futuri spostamenti di pesi elettorali.

Ma per una diagnosi del grillismo occorre fare anche una buona anamnesi. E ricordare almeno due ingredienti fondamentali del fenomeno. Il primo può essere ben colto richiamando l’inizio di tutto.

Siamo  nel 1986. È sabato sera. Il comico genovese Beppe Grillo è ospite di Pippo Baudo, nello show più seguito della televisione italiana. Grillo chiude il suo intervento con una battuta feroce: se qui sono tutti socialisti, scandisce piano Grillo nei panni di Claudio Martelli in visita nella Repubblica popolare cinese, «a chi rubano?». La battuta gli costò il licenziamento. Pochi rammentano però la reazione del pubblico. Nessuno rise. E non perché la battuta non fosse arrivata, ma perché non si sapeva bene se si potesse ridere. Perciò partì un applauso piuttosto timido, quasi educato. E Grillo disse, quasi fra sé e sé: «Terribile». Quei secondi fra la battuta e l’applauso sono ormai scomparsi: sono trascorsi invece quasi trent’anni, e la convinzione generale degli italiani, acuita dal malessere sociale, continua ad essere che i politici tutti, socialisti o no, rubano. Grillo può gridarlo dal palco, nessuno può più licenziarlo e il pubblico può applaudire senza guardare l’assistente di studio per sapere se sia il caso. C’è infine una differenza decisiva, da allora: la funzione che i partiti politici italiani hanno assolto nel corso della prima Repubblica è venuta meno. Costruirne una nuova è la sfida che attende ancora il sistema politico italiano, e non può certo bastare la battuta d’arresto del grillismo per considerarla assolta.

Secondo elemento. Anche qui conviene mettere le cose in prospettiva. Siamo nel 2005, in febbraio. Da anni Grillo porta in girò i suoi spettacoli. In quell’anno, Grillo mette però sul suo blog i nomi dei politici inquisiti che siedono in Parlamento. Il blog diviene di colpo uno dei più cliccati al mondo. La rabbia e lo scontento sono ancora gli stessi, ma ora c’è anche un nuovo canale attraverso cui veicolarli. C’è il web, c’è il sito, c’è una rapidità di comunicazione e una intensità di partecipazione prima sconosciute; c’è un fenomeno di disintermediazione che spiazza corpi intermedi e partiti tradizionali, premia le leadership personali, ed amplifica gli sfoghi individuali. Grillo tiene ancora tra le sue mani pure questa carta.

Veniamo infine ad oggi. I Cinque Stelle hanno perso, e forte è la tentazione, per loro, di dire che l’Italia, «paese di pensionati», non li merita. Con qualche ironia e autoironia, Grillo non sembra però avere imboccato quella strada. In ogni caso, i due focolai accesi negli anni passati, è bene rammentarlo, non sono ancora spenti.

(Il Mattino, 27 maggio 2014)

Perché Grillo non ama i giornalisti

ImageLe pecore nere. I giornalisti che denigrano i grillini. Che diffamano pubblicamente il movimento, a giudizio insindacabile del movimento medesimo. Beppe Grillo ci scrive un post, e la gogna è servita. La prima ad essere messa al bando è Maria Novella Oppo, dell’Unità. Un giornalista al giorno: se Grillo tiene il ritmo, domeniche comprese, in un anno addita al pubblico ludibrio la bellezza di trecentosessantacinque giornalisti. A me piacerebbe, se posso permettermi, che capitasse in marzo, con la primavera; ma lo so: decide la Rete. Se però volesse fare le cose a puntino, e metterci tutta la foga che lo contraddistingue, Grillo potrebbe magari aggiungere alla fatwa qualche particolare derisorio in più. Ridicolizzare il curriculum professionale, ad esempio, oppure trovare un difetto fisico o almeno una storpiatura grammaticale: a chi non capita, prima o poi?

Ma dopo che Grillo avrà compilato la sua lista nera, bisognerà chiedergli perlomeno se da qualche parte, nel variegato mondo dell’informazione, si trovi a parer suo almeno un giornalista – uno col patentino, dico, uno iscritto all’ordine, uno con qualche anno di attività alle spalle – che non si debba vergognare di esistere, o almeno di scrivere sui giornali. E vedrete: non lo troverà. perché è l’idea stessa che ci sia qualcuno che interpreti le tue parole, che le presenti accompagnandole con il proprio libero giudizio, che a Grillo proprio non va giù. È la figura stessa del giornalista che viene in questione, per lui, grazie al prodigio della Rete, nel santuario della democrazia diretta, di cui Grillo è e deve essere l’unico officiante.

Cosa volete allora che significhino per lui gli appelli alla libertà dell’informazione, al pluralismo delle opinioni, ai diritti fondamentali riconosciuti in Costituzione, quando è la professione stessa del giornalista che è revocata in dubbio? Uno fa la domanda, tu rispondi: non è evidente che la domanda è di troppo? Uno parla, quell’altro riporta e commenta: non è evidente, di nuovo, che il commento può solo distorcere, inquinare, presentare in una falsa luce? Grillo, quanto a lui, non rilascia dichiarazioni, non parla affatto. Piuttosto, lui detta. Il blog è il suo «dettato». E al dettato ci si attiene punto e basta. Ne sanno qualcosa i parlamentari grillini.

Poi Grillo se la prende con il finanziamento pubblico all’editoria. Unico giudice ha da essere il mercato. Il fatto che quello delle opinioni possa non essere soltanto un mercato è pensiero che neppure lo sfiora. Uno si immagina che sia perlomeno materia di discussione, questa: se vi possa essere un interesse generale a che siano molteplici le voci che si esprimono nello spazio pubblico, e se questo interesse possa essere sostenuto da un’azione dello Stato. Forse sì, forse no, forse in altro modo da come si fa, forse cercando di colpire gli abusi. Ma queste sono sfumature che sul blog di Grillo non troverete mai. Andateci: cercatevi un’opinione men che netta, un parere men che categorico, cercatevi l’espressione di un dubbio, di un ripensamento, di qualcosa di meno di una certezza: non lo troverete.

Grillo infatti è certo: se l’Unità chiudesse, se quel parassita di Maria Novella Oppo smettesse di scrivere, se rimanesse a spasso e senza stipendio sarebbe un gran bel giorno per il Paese come lui lo immagina.

E ancor più bello sarebbe se la cosa avvenisse senza commenti sui giornali, e solidarietà di categoria. Anche questo commento è infatti di troppo, essendosi permesso di interpretare il post di Grillo. Avrei dovuto ricopiarlo integralmente, eseguendo il dettato. Ma la cosa non va affatto così: c’è anzi sempre più bisogno di dire quel che le parole significano, invece di limitarsi a riportarle. Non ci vuol molto: significano illibertà.

(Il Mattino, 7 dicembre 2013)