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L’accoglienza impossibile senza l’Europa

Acquisizione a schermo intero 20092016 164121.bmp.jpgLa lettera di Beppe Sala, sindaco di Milano, sull’immigrazione ha sicuramente un pregio: non è banale. Dice almeno un paio di cose che su questo tema vanno dette: che il fenomeno migratorio è tutto meno che un’emergenza. E che i Comuni italiani non possono fare da soli. In mezzo a questi due estremi stanno gli altri due attori convocati da Sala: l’Unione Europea, e lo Stato italiano. Sui primi due punti si può raggiungere un elevato grado di consenso. Ragionato, non improvvisato.

Anzitutto, le migrazioni hanno dalla loro la forza irresistibile dei numeri della demografia, ancor prima che l’urgenza e la drammaticità della politica e della storia. È stato calcolato che se i paesi ricchi chiudessero ermeticamente le loro frontiere, e se altrettanto facessero i paesi poveri (asiatici, africani, sudamericani), impedendo alla popolazione di emigrare, i primi perderebbero, nel giro di vent’anni, quasi cento milioni di persone nella fascia di età attiva, fra i 20 e i 64 anni, mentre i secondi crescerebbero, nello stesso arco di tempo e nella stessa fascia anagrafica, di ben 850 milioni di persone.

Siamo dunque in presenza di un fenomeno strutturale, di portata epocale. Che va governato, non esorcizzato. A tale, imponente fenomeno si somma la componente dei rifugiati, di coloro che fuggono dalla guerra, o da paesi in cui non vengono rispettati i loro diritti politici e civili. E si sommano inevitabilmente inquietudini, paure, diffidenze, quanto più lontana o impermeabile appare l’identità culturale e religiosa di provenienza. I numeri dei rifugiati sono in costante aumento, anche se, per il nostro Paese, non sono ancora tali da giustificare l’uso di certe parole. Non è in corso un’invasione, insomma, anche se ormai l’ordine di grandezza è delle centinaia di migliaia di persone. Ed anche se quel che è in corso – questo è il secondo punto della lettera di Sala – difficilmente può essere gestito a livello periferico. Ci vuole un coordinamento nazionale, e ci vuole per esempio che l’autorità centrale, che stabilisce la distribuzione dei migranti a livello locale, abbia da un lato mezzi e competenze, dall’altro legittimità sufficiente perché le sue decisioni non siano rimesse in discussione degli enti locali. Sala, peraltro, ha ragione di richiamarsi alla tradizione civica della sua città, allo spirito di accoglienza, alla collaborazione dei suoi abitanti. Ma non tutte le città sono uguali, e soprattutto non tutti i territori hanno le medesime strutture, il medesimo retroterra economico e sociale, la medesima capacità di assorbimento e integrazione della presenza straniera. Non solo, ma anche la preoccupazione per il rispetto della legge prende forme diverse: nelle città e nelle campagne; nelle zone di degrado e nelle aree meglio attrezzate; dove esiste una piccola criminalità diffusa o di strada, e dove invece non si ha la medesima percezione di insicurezza. E così via. Sala tuttavia fa solo un fugacissimo cenno al tema. È vero che le politiche di integrazione non si riducono affatto al tema della legalità, ma è anche vero che il tema non può essere eluso, o sottaciuto. Perché non c’è solo un’offerta politica che si organizza strumentalmente su questi temi: c’è anche una domanda reale, che a torto o a ragione viene formulata, e a cui amministratori e governanti devono dare risposte concrete ed efficaci, in Italia e in Europa.

L’Europa, appunto. Qui le cose sono forse più complicate di come appaiono al sindaco di Milano. Si sa, per grandi linee, che cosa l’Unione Europea deve fare: anzitutto modificare gli accordi di Dublino sulla ricollocazione dei migranti, perché non hanno funzionato e non stanno funzionando. Poi snellire procedure e stanziare più fondi. Quindi potenziare gli incentivi destinati ai Paesi che sono più esposti e più direttamente investiti dalle migrazioni in corso. Infine attuare in loco strategie di contenimento e politiche di stabilizzazione. E in prospettiva pianificare e regolarizzare i flussi, rendendoli anche più sicuri e meno esposti al ricatto criminale.

Ma se l’Europa non lo riesce a fare, è evidente che il fallimento – che Sala denuncia con forza, come del resto ha fatto Renzi al termine del vertice di Bratislava – è evidente che non può non avere conseguenze sulle politiche di accoglienza del nostro Paese. Fermo restando il dovere di salvare il maggior numero possibile di vite umane, come fa l’Italia ad «uscire dall’idea di essere una piattaforma di prima accoglienza» se non c’è un vero accordo europeo di cooperazione? Certo, Renzi continua a dire che l’Italia può farcela da sola: lo ha ribadito anche ieri, in risposta alle sollecitazioni della lettera di Sala. Ma pensiamo davvero che se l’Europa fallisse, non fallirebbe anche il modello di piena accoglienza e integrazione a cui pensa il Sindaco di Milano? E non fallirebbe – prima ancora che nei numeri – nell’idea, nella concezione dello spazio politico in cui ciascuno di noi vive, pensa, lavora? Quello spazio è oggi attraversato da mille problemi, ma non è ancora così angusto da scatenare necessariamente urti e conflitti. Ma sarebbe ancora così, se l’egoismo degli Stati nazionali prevalesse? E l’Unione sopravviverebbe, se si divaricassero ancor più politiche di apertura e di chiusura, riconoscimenti e respingimenti, spazio di accoglienza nel Mediterraneo, e spazio di rifiuto nell’Est e nel Nord del continente?

(Il Mattino, 20 settembre 2016)

Linus e Bonino con Sala. Parisi: ha scelto bene

bruschettiEmma Bonino e Linus, il direttore di Radio Deejay, saranno in giunta con Beppe Sala, se il candidato del centrosinistra dovesse vincere il ballottaggio contro il candidato del centrodestra, Stefano Parisi. Il lettore indovini ora chi ha rilasciato il seguente commento: «Li conosco entrambi sono due persone molto diverse e tutte e due di grande valore, Sala ha fatto bene a metterli nella sua squadra». Prima ipotesi: l’ha detto il premier Renzi, che su Sala ha puntato molto, e dunque non perde occasione per supportarne le scelte. Seconda ipotesi: l’ha detto Giuliano Pisapia, il sindaco uscente, che aveva sostenuto nelle primarie del Pd la sua vicesindaco, Francesca Balzani (uscita perdente dal confronto), ma che ha poi dimostrato grande cavalleria e spirito unitario affiancando Sala nel corso della campagna elettorale. Terza Ipotesi: l’ha detto Vasco Rossi, che dei radicali è storicamente amico e sicuramente ascolta Radio Deejay che gli passa i pezzi. Quarta e ultima ipotesi: l’ha detto Stefano Parisi, cioè proprio il candidato del centrodestra, che deve provare a battere Sala, e che però, quanto a spirito di cavalleria, non è evidentemente secondo a nessuno.

Ora è facile: ebbene sì, è stato quest’ultimo, che invece di fare dell’ironia sul disc jokey prestato alla politica, novello Gerry Scotti, o, che so, su una storica militante radicale un po’ agée, ha dimostrato di apprezzare le scelte del suo competitor. Come mai? Si tratta solo di buona educazione, di squisitezza personale, di un elegante segno di stile? In realtà no, o meglio: non solo. Tutta la campagna elettorale milanese è stata condotta in realtà in punta di fioretto, senza colpi sotto la cintola, senza toni sguaiati, senza polemiche pretestuose. Da Parisi come da Sala. E entrambi gli schieramenti hanno offerto complessivamente un profilo che altri diranno forse moderato, o liberale, ma che sarebbe più corretto – credo – definire concreto, pragmatico, raziocinativo. È forse merito di Milano, dello spirito meneghino, della tradizione illuministica lombarda, che vive ancora all’ombra della Madonnina? Com’è che lì non c’è nemmeno un candidato sindaco che del premier dica che si deve fare sotto dalla paura, o che inneggi a Zapata e Panchi Villa?

La risposta non è difficile. C’entra naturalmente lo spirito civico – ma sarebbe il caso di ricordare che l’illuminismo, in Italia, ha avuto non una, ma due capitali: Milano e Napoli; solo che una delle due dà ancora a vederlo, mentre l’altra no – c’entra ovviamente il contesto ambientale, sociale ed economico – e qui si aprono evidenti abissi fra il Nord e il Sud del Paese, fra la seconda e la terza città d’Italia – ma c’entra anche la maturità della proposta politica. Milano è anche la città in cui si sente forte la voce di Matteo Salvini, è la città capoluogo della Lombardia a guida leghista, con Roberto Maroni. E però il caso vuole – no, non il caso: ma Stefano Parisi – che a precisa domanda il candidato sindaco del centrodestra rispondesse, con lo stesso garbo: «Salvini mio assessore alla sicurezza? No, mi serve uno a tempo pieno, e Salvini deve fare il leader di partito. E ho già spiegato che nel non dire chi sono i miei assessori io difendo la mia autonomia».

Milano l’è sempre Milàn, ma i temi della sicurezza, della paura dell’immigrato, dell’Europa cattiva si sentono anche lì. E anche a Milano ci sono i centri sociali, ma il centrosinistra di Pisapia, pur senza demonizzarli, ha evitare di fare l’elogio dell’occupazione abusiva o del vento liberatorio dell’anarchia. Il fatto è che lì tanto il centrodestra quanto il centrosinistra riescono a dimostrare di aver acquisito un tratto di credibilità, profilo programmatico, e anche un certo equilibrio politico, e di coalizione, che altrove invece fanno molta fatica a tenere. Prova ne è il fatto che a Milano le percentuali grilline non sono minimamente paragonabili a quelle che i Cinquestelle hanno toccato in città come Torino o Roma. A Napoli il Movimento di Grillo è andato di nuovo in difficoltà, ma in compenso c’è De Magistris che ne fa abbondantemente le veci.

Ancora: a Torino e a Roma si è riusciti, tra grandi sforzi, ad arrivare ad un confronto televisivo diretto fra i candidati in lizza, ma i toni sono rimasti quelli di una fortissima diffidenza: i grillini dilettanteschi e incapaci di governare; i piddini compromessi coi poteri forti e moralmente discutibili. Questi i toni. A Napoli peggio ancora. De Magistris non ne ha proprio voluto sapere di sedersi in mezzo agli altri candidati, e ora, in vista del secondo turno, di fronte a Gianni Lettieri. C’è di mezzo, naturalmente, la strategia elettorale, che sconsiglia a chi è davanti di dare spazio a chi insegue, ma c’è anche una diversa maniera di interpretare, cioè di misinterpretare, il confronto pubblico, elevando pregiudiziali morali e rifiutando la normale dialettica del riconoscimento reciproco.

Ma cosa c’è di normale, oggi, nella dialettica politica napoletana?

(Il Mattino, 14 giugno 2016)