Archivi tag: Biagio De Giovanni

E’ morto Alfredo Reichlin, partigiano dal Pci al Pd

il-midollo-del-leone-di-Alfredo-reichlin_h_partb

Ha avuto una vita lunga, Alfredo Reichlin: dall’esperienza partigiana alla Repubblica; dalla direzione dell’Unità alle numerose legislature in Parlamento; da Togliatti a Ingrao, che fu la figura più influente sulla sua prima formazione; da Berlinguer fino a D’Alema, di cui condivise le scelte fondamentali, fino, da ultimo, alla presidenza della commissione che avrebbe scritto la Carta dei valori del nuovo partito democratico.

L’ha raccontata lui stesso, questa vita lunga e appassionata, attraversata con un tratto di eleganza e di pensosità a cui non rinunciò mai, in un libro di qualche anno fa che Laterza ha dato alle stampe con il titolo: «Il midollo del leone». Nelle ultime pagine del libro, Reichlin spiegava il titolo prescelto. È un’espressione che si trova in un pensiero di Italo Calvino dedicato a Giaime Pintor, morto nel ’43 per l’esplosione di una mina: «l’avara presenza del bello e del bene, questo è il midollo del leone che Pintor, traduttore di Rilke, lettore di Montale, morse dalla civiltà letteraria che l’aveva preceduto». Da ragazzo, Reichlin assaggiò avidamente quel morso: «nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia». Era stato infatti compagno di banco del fratello di Giaime, Luigi, nel Regio Liceo Tasso di Roma. Giaime, più grande di qualche anno, fu tra quelli che aprirono gli orizzonti culturali del giovane Pietro: gli diede in lettura le poesie di Eluard e gli opuscoli di Lenin, i libri di Vittorini e i racconti di Hemingway. Passò infine dai Pintor la strada che portò Reichlin ad iscriversi al partito comunista.

Dopo l’esperienza gappista durante la Resistenza, Reichlin aveva infatti aderito al partito e fin dagli anni Cinquanta ne divenne uno dei più autorevoli dirigenti. Appena trentenne, nel 1957, Reichlin fu infatti chiamato a dirigere «L’unità», che non era allora, sul finire degli anni Cinquanta, solo il giornale del partito, ma era anche il «Corriere della Sera del proletariato», e l’unico quotidiano diffuso uniformemente su tutto il territorio nazionale.

L’esperienza, tuttavia, non durerà molto. Reichlin è in quegli anni vicino a Pietro Ingrao, il capo della sinistra del PCI. I dissensi politici con Togliatti – sull’atteggiamento da tenere nei confronti del primo centrosinistra, che gli ingraiani osteggiano frontalmente, considerandolo solo un aspetto della ristrutturazione del capitalismo – determinano l’allontanamento dalla direzione del giornale. Reichlin finisce in Puglia, dove guida la federazione regionale e contribuisce a tirar su un gruppo di giovani intellettuali – Biagio De Giovanni, Giuseppe Vacca, Franco Cassano, Franco De Felice – raccolti intorno all’Università, alla casa editrice Laterza e all’altro editore di Bari, De Donato. Lucio Colletti appiccicherà a questo gruppo di studiosi l’epiteto un po’ beffardo di «école barisienne», ma, come spesso accade, il nome perderà in seguito il suo significato ironico, per indicare uno delle fucine culturali più vivaci del marxismo italiano degli anni Sessanta-Settanta, insieme all’operaismo.

Si discute, non senza qualche allarme nel partito, di nuova egemonia, di rinnovamento dei quadri dirigenti, di metodo storico, ma anche dei rapporti col movimento studentesco e di sviluppo del Mezzogiorno.

Si apre la stagione del ’68, che in Italia dura un decennio e che, nonostante i successi elettorali del partito comunista, restringe progressivamente i margini culturali e ideologici a disposizione del Pci. «Venivamo – ha scritto Reichlin, che siede in quegli anni nella Direzione del partito – da un marxismo letto come storicismo assoluto. Il nostro referente non era il vecchio scientismo socialista, ma Gramsci e la sua polemica con il positivismo»: questo peraltro era il terreno di incontro con le grandi masse cattoliche, rappresentate in quegli anni dalla complessa e tormentata figura di Aldo Moro. «Il nostro pensiero – aggiunge Reichlin nella sua autobiografia – era certamente classista, ma anche dominato dall’assillo di promuovere quella rivoluzione intellettuale e morale che l’Italia moderna non aveva conosciuto mai», e in queste parole si può forse riconoscere il travaso di temi gramsciani che giunge sino alla segreteria Berlinguer, e all’incipiente questione morale che scaverà un solco, a sinistra, fra il partito comunista e il partito socialista di Bettino Craxi. Reichlin è in quegli anni al fianco del segretario del PCI, in posizioni di responsabilità, e ne condivide tutte le scelte, di cui a distanza ha riconosciuto la complessità e, insieme, i limiti.

Anche negli ultimi tempi, in posizione più defilata, Reichlin non ha mai rinunciato ad affilare le armi della critica in relazione ai compiti storici che vedeva drammaticamente aperti dinanzi all’Italia e all’Europa.  La sua valutazione delle vicende storiche degli ultimi trent’anni non era affatto indulgente: rivoluzione conservatrice, subalternità al liberismo, subalternità rispetto alla finanziarizzazione dell’economia che ha segnato i processi di globalizzazione, restringimento degli spazi di democrazia. È un giudizio che coinvolge tutta la parabola della sinistra, non solo italiana ma europea.

Dopo il voto del 2013, aveva lui tirato fuori l’idea del partito della nazione, che era stato però largamente fraintesa. Reichlin non pensava a una formazione neocentrista, ma al contrario alla funzione nazionale di un partito di massa. In un certo senso, fedele alla tradizione comunista, non riconosceva altra funzione ad un partito degno di questo nome: «Bisogna ridare un’anima all’Italia, insediarsi   nella   storia   del   paese,   non   cancellare   il   passato. Bisogna fare della sinistra il nuovo “partito nazionale”».

Erano parole che rivolgeva ai dirigenti del PD, con una preoccupazione che ne ha segnato l’ultima, amara riflessione: «La sinistra rischia di restare sotto le macerie». Ma vale forse per il Pd quello che Reichlin ha pensato del partito comunista: non è il Pd che spiega la storia d’Italia, ma questa, se mai, che spiega quella.

(Il Mattino, 22 marzo 2017; liev. mod.)

La lezione di Croce

acquisizione-a-schermo-intero-19112016-195150-bmpAntonio Gramsci, Norberto Bobbio, Enzo Paci, Eugenio Garin: la tradizione comunista e quella liberalsocialista, il pensiero fenomenologico ed esistenzialista della scuola milanese e l’umanesimo civile della grande tradizione storiografica italiana: non si tratta, in senso stretto, dell’eredità crociana, ma una mappa del pensiero italiano del Novecento non può non organizzarsi intorno a questi nomi, e tutti non possono essere letti né essere compresi se non nel confronto e finanche nella contrapposizione al pensiero di Benedetto Croce. È in questo modo che Biagio De Giovanni ci avvicina all’appuntamento di lunedì prossimo quando, nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici, terrà la sua prolusione sul concetto speculativo della libertà in Croce, in occasione dei 150 anni della nascita del filosofo e dei settant’anni di vita dell’Istituto. Perché questo tema? De Giovanni è seduto, si schiarisce un poco la voce, quasi sembra chiedere scusa per la complessità e la densità dei problemi che si prepara ad affrontare e comincia a rispondere. Ma le sue non sono risposte, sono ragionamenti lucidi e serrati, interrotti solo da qualche miagolìo del gatto che si muove nei paraggi, l’unico autorizzato a interromperlo.

Il titolo della mia prolusione nasce da una recente rilettura di alcune pagine crociane, che risalgono al 1941. In particolare di un saggio, ripubblicato in un’appendice al Contributo alla critica di me stesso, in cui Croce dice: noi abbiamo ancora bisogno di una teoria speculativa della libertà. Abbiamo bisogno cioè della filosofia, non ci basta più una libertà che scorre tranquillamente negli eventi; non ci basta più la storiografia. Il che, detto da lui, che aveva sostenuto più di ogni altro l’esaurimentodella teoresi, cioè della filosofia, nella metodologia della storiografia, non è cosa da poco. Questa necessità di isolare speculativamente il tema della libertà, nel momento più alto della crisi della coscienza europea, mi ha molto colpito.

Colpisce anche me, e ti ringrazio per aver ricordato quelle pagine, tra le più problematiche – se capisco – del pensiero di Croce. Che la filosofia non si esaurisca nell’esercizio storiografico mi pare una breccia assai significativa nel pensiero di Croce.

Per lui il momento della storiografia è il momento della sanità del mondo, il momento in cui il mondo non ha bisogno della filosofia. La filosofia per Croce è qualcosa che interviene nei momenti di scissione, di malattia. La storiografia è il momento più disteso.

Il titolo della tua prolusione richiama però alla mente anche la critica di Bobbio, che in un saggio sul liberalismo di Croce lamentava l’indifferenza del filosofo verso la dimensione empirica della libertà.

Quel celebre saggio di Bobbio, uscito solo qualche anno dopo la morte del filosofo napoletano, imputava a Croce di non aver preso nulla dal pensiero anglosassone, da quei paesi nei quali storicamente la libertà e la democrazia si erano realizzate. Ma Croce aveva già risposto ante litteram. Lo aveva già scritto: la libertà è stata vissuta in chiave  empirica e utilitaristica, ma è stata pensata speculativamente soltanto in area tedesca.

Ma cosa significa pensare speculativamente la libertà, per Croce?

Cercherò di dirlo dopodomani, all’Istituto. Provo però a spiegarmi in questo modo: è una sorta di condizione trascendentale della storicità, di potere costituente della storia.  È la libertà nella sua liberazione dall’empirico.

Traduco a mia volta: una dimensione non orizzontale ma verticale della libertà umana; non una proprietà dell’uomo, ma una condizione che rende pensabile la sua stessa umanità.

Forse ci intendiamo. La storia ha bisogno di una condizione che ne rende possibile la leggibilità, altrimenti diventa un’avventura senza senso. Mettere come principio della storia la libertà, senza cedere a disegni finalistici o provvidenzialistici: questa l’operazione di Croce.

 

In che modo però questo tema passa nella filosofia italiana? Se c’è un tratto portante del pensiero italiano, è proprio il suo rapporto con la storia, in cui tuttavia la filosofia sembra a volte essersi risolta senza residui. Dove rimane invece aperta quella breccia, che tu vedevi aprirsi già nell’ultimo Croce, per cui il nostro non è soltanto un destino epigonale, di chi deve rimuginare i pensieri altrui senza aver più molto da pensare per dir così in proprio, all’altezza di questo tempo? Non è questo un rischio che la cultura filosofica italiana non ha sempre sventato?

Il tema è complicato. Io penso che l’erede vero dell’interpretazione del rapporto fra storia e filosofia che ho provato a proporre non è un filosofo in senso professionale. È Antonio Gramsci. Il suo Anti-Croce è il più alto monumento a Croce che sia stato costruito nel pensiero italiano del ‘900. È così intrinseca l’eredità crociana, pur nella critica e nell’opposizione, che non potremmo intendere l’uno senza ricorrere all’altro.

E dopo Gramsci?

Dopo Gramsci, o a lato, entrano in campo altri autori, nel pensiero italiano: Heidegger, Nietzsche, l’esistenzialismo. Io penso però che sia ancora utile guardare al modo in cui la lezione di Crocepassava nella riflessione di un pensatore importante come Enzo Paci. Croce, nel confronto con Paci, cercava di difendere il terreno della storicità come un terreno distinto dal terreno dell’esistenza.

Eppure il suo pensiero continua ad agire, per dir così, nei suoi rovesci. C’è una presenza di Croce anche nelle punte più critiche: l’alto liberalismo italiano, che attraversa molte zone della filosofia politica italiana, ha Croce come punto di riferimento: dialettico e per contrapposizione, come per esempio nel Bobbio che ricordavamo prima.

E poi c’è il confronto con Gentile e la scuola gentiliana.

Certo. È difficile sopravvalutarne l’importanza. I due autori pensano gli stessi problemi, ma con effetti diversi sulla filosofia e la vita politica e culturale della nazione. E non solo perché Croce diventa, in risposta a Gentile e al suo Manifesto del fascismo,  la guida dell’intellettualità italiana antifascista. Croce finisce così col trovarsi a una distanza incolmabile non solo da Gentile, ma anche dall’altro grande filosofo della prima metà del ‘900, Heidegger.

Dove possiamo meglio misurare questa distanza?

Nella sua Storia d’Europa nel secolo decimonono.LìCroce dà la risposta più alta ai totalitarismi del Novecento. L’irruzione della religione della libertà nella Storia d’Europa (siamo nei primi anni Trenta) è decisiva per la cultura antitotalitaria in Europa. Nel secolo più metafisico che l’Europa abbia vissuto, Croce si troverà sempre su un altro versante, con la sua idea liberale. Non c’è nessun altro grande pensatore, in Europa, che abbia avuto un ruolo paragonabile a Croce in quegli anni.

Dal bilancio non possiamo tener fuori un altro grande pezzo della cultura italiana che è legato non solo a lui, ma persino a questi luoghi, a Palazzo Filomarino, alle stanze dell’istituto. Penso al magistero storico di Croce.

Naturalmente. Si tratta di una tradizione storiografica di grandissimo valore, che viene tutta da Croce. Maestri come Giuseppe Galasso ne dimostrano tuttora la grande ricchezza. È un filone di cultura alto, non filosofico in senso stretto, che nasce da un’idea di storiografia etico-politica squisitamente crociana, e in cui si afferma l’idea di un’articolazione del pensiero nella grande opera della storiografia, che dipende dal ciclo delle Storie scritte da Croce

De Giovanni fa una pausa, e prova a riordinare i pensieri esposti. Nonostante una fastidiosa sciatalgia. E nonostante il gatto.

C’è dunque il filone gramsciano, che è andato poi a influenzare tante zone del pensiero italiano anche oltre il gramscismo; poi c’è il filone alto-liberale; poi c’è la grande storiografia. E c’è tutto il campo delle letture vichiane, che ha ravvivato la tradizione storicistica italiana e europea, non solo napoletana.

Un altro snodo nell’albero genealogico della cultura italiana del Novcento è Eugenio Garin. Gentiliano, ma che discute Croce, anche attraverso Gramsci. È Garin che trova in Croce due anime, quella storica e quella logica, e opta decisamente per la prima, meno gravata da filosofemi e fraseologie speculative: da residue scorze teologiche.

Quando incontra il pensiero di Gramsci, quando scrive La filosofia come pensiero storico, Garin sposta certi suoi accenti in direzione di Croce. Ma è indubbio: lui fa parte di quella generazione che di Croce valorizza soprattutto la straordinaria opera storica, ma mette fra parentesi e in certo senso svaluta quella condizione trascendentale della storiografia di cui parlavo prima.

Quello però che non trovo nella sua ricostruzione del paesaggio culturale e filosofico italiano è il motivo della polemica contro l’ottimismo delle filosofie neo-idealistiche

Ma il topos del Croce ottimista, erasmiano, è frutto di una cattiva lettura che ha contribuito, purtroppo, a un certo oscuramento della presenza di Croce. Croce è un pensatore tragico. Nel fondo della storia umana c’è per lui una forza vitale, selvatica. E ambigua. Che può sempre riaffiorare con violenza. In Croce c’è una doppia idea della vita. C’è un’idea umanistico-goethiana, e c’è un’idea biologistico –darwiniana.Ma questo sempre, non solo nell’ultimo Croce. Basti pensare alle pagine conclusive della Filosofia della pratica, che è un testo che fa ancora parte del primo sistema della filosofia dello spirito, e che finisce con il celebre passaggio sulla vita «che è vero mistero». Dopo aver cercato di chiudere nelle categorie della storiografia la storicità, questa immagine della vita con la V maiuscola torna in campo come uno sfondo irresolubile e irrisolto.

Altro tema sul quale è ineludibile il confronto con Croce è quello dell’Europa.

Vale per Croce quello che vale per tutto il grande pensiero europeo fino ai primi del ‘900, vale cioè l’idea di una coincidenza fra civiltà e civiltà europea. Dietro Croce c’è l’Europa: quando lui parla di tornare alla filosofia, è perché ha l’impressione di trovarsi dinanzi a una profonda crisi della civiltà. Il fiore che fiorisce sulla roccia e che un colpo di vento può gettare via, come recita una sua celebre pagina. È il tema della finisEuropae, di una crisi che tocca però la struttura stessa dell’umanità. Croce ha però la lucidità per immaginare la possibilità di un’unificazione europea, di un’Europa in grado di ricostruire la sua unità, di fare sintesi.

Si può allora cominciare a rileggere Croce di qui? Se dovesse indicare a un giovane quale libro prendere innanzitutto, in un lascito di decine di migliaia di pagine, da dove suggerirebbe di cominciare?

Tutto sommato gli suggerirei proprio la Storia d’Europa. Per un giovane, è il libro che fa più fremere qualche nota di attualità: sia per l’epilogo, sull’idea di una possibile unificazione, sia però per la drammatica problematicità di una storia carica di contrasti e di lotte.

E infine, se dovessimo fare anche per Croce il gioco di ciò che del suo pensiero è vivo e di ciò  che è morto?

Vivissimo il tema della storicità – tema declinato in tutto il pensiero europeo a lui coevo – che oggi formulerei in una forma persino inquietante: ci possiamo ancora considerare esseri storici? Tema vivo e oltremodo problematico. Morto è forse qualcosa che Croce stesso mette in questione del suo proprio percorso, e dico il rapporto fra storia e storiografia. È già l’ultimo Croce che mette in crisi certe soluzioni sistematiche del suo pensiero. È già in Croce, come dicevo prima, che entra in crisi il rapporto fra vita e storia. Questo non significa che in Croce vi sia un esito di tipo biopolitico. Croce non ha mai una visione in cui la storia si riduce o si concentra nella vitalità. È se mai il contrario, è la voce della filosofia e dell’alta etica che combatte ogni possibilità di una riduzione biopolitica. E questa è una lezione con cui dobbiamo ancora confrontarci.

(Il Mattino, 19 novembre 2016)

Il potere e l’assedio allo Stato democratico

Acquisizione a schermo intero 22012016 140703.bmpMentre i tacchini del Senato approvano il pranzo di Natale, cioè la fine del bicameralismo, nella piccola sede della Fondazione Basso, a Roma, due filosofi italiani, Biagio De Giovanni e Giacomo Marramao, discutono sul far della sera del potere, dello Stato, dell’Unione. Muovendo dai classici, da Machiavelli Schmitt e Foucault, ma approdando ai giorni nostri, e a un processo di integrazione andato, come dice De Giovanni, «completamente in tilt».

C’è un qualche nesso fra il percorso parlamentare delle riforme costituzionali e la scuola di politica della Fondazione, giunta alla X edizione?

Nessuno, nel senso che non si è discusso di ingegneria costituzionale, equilibri fra i poteri dello Stato o legge elettorale. Ma più d’uno, se si guarda al modo in cui Renzi ha investito politicamente sulle riforme, e sul successo del referendum che si terrà in autunno. Se non passano, lui se ne va. Ma, al netto del destino personale del premier, si potrebbe tradurre così: se la politica non è più in grado di aprire uno spazio nuovo, di agire poteri di carattere costituente, o semi-costituente, allora non ha più ragione d’essere. Poteri di altra natura ne prenderanno, se non ne hanno già preso, il posto.

La politica è infatti, secondo la lezione di Machiavelli illustrata da Marramao, la dimensione del potere: se  non c’è l’una non c’è nemmeno l’altra. Dopodiché è vero che la forma di organizzazione del potere politico inventato dalla modernità, cioè lo Stato, non gode di buona salute.

Marramao ha cominciato con l’esporre tre tesi sulla debolezza dello Stato moderno, che vanno per la maggiore. La prima insiste sul carattere di formazione storicamente determinata dello Stato. Lo Stato deteneva il monopolio della violenza legittima, e delle fonti del diritto: ha sicuramente perduto quest’ultimo, non è più sicuro che abbiaalmeno il primo. La seconda tesi proviene dalla sociologia dei sistemi: le società contemporanee sono società complesse, senza vertice e senza centro, non più riconducibili alla logica moderna della sovranità. Il potere non si concentra più in un luogo sovrano, ma si diffonde e circola nei sotto-sistemi in cui la società si organizza. La microfisica del potere di Foucault direbbe, con altre parole, una cosa non molto dissimile.

La terza tesi, infine, dichiara lo Stato non più adeguato alle dinamiche della globalizzazione. Lo spazio globale contraddice la territorialità chiusa delle formazioni statual-nazionali. E questa volta il riferimento è al pensiero di Carl Schmitt.

Qui però sta il cruccio, il vero e proprio rovello di De Giovanni: se prendiamo per buone le tre tesi e diamo per finita la storia della sovranità, così come si è organizzata nella forma moderna dello Stato, non dobbiamo porre immediatamente il problema della democrazia? «Dallo svincolarsi di Stato e ordinamento dei poteri il problema della democrazia viene toccato nel suo cuore più profondo». E la ragione é semplice: è nello Stato e con i mezzi dello Stato che si sono costruiti i regimi politici democratici. Che cosa sia una democrazia post-statuale e post-sovrana nessuno lo sa.

Perciò De Giovanni si sforza di non prenderle affatto per buone, le tesi anti-sovraniste esposte da Marramao. Il confronto più duro è con Schmitt e Foucault. Che oggi dilagano un po’ ovunque. Il primo con la storia dello stato di eccezione: sovrano è, infatti, chi decide su di esso. Basta allora che si parli di sospensione del trattatodi Schengen sulla libera circolazione delle persone perché Agamben salti su a dire che ha ragione lui, che va dicendo da tempo che ormai l’eccezione è la regolae che ogni diritto è sospeso. Il fondamento del rapporto agambeniano fra potere sovrano e nuda vita è, peraltro,nella teoria del potere di Schmitt. Replica De Giovanni: «forzature concettuali che non portano da nessuna parte. C’è sicuramente una dialettica tesa fra sicurezza e libertà, ma appunto una dialettica». Altrimenti, fra le condizioni giuridiche assicurate da una liberal-democrazia, per quanto imperfetta, e i campi di concentramento del Reich salta ogni differenza.

Ma è nel confronto con Foucault che il pensiero di De Giovanni si precisa meglio. Foucault non è solo il pensatore che scopre i micro-poteri diffusi che informano le relazioni reali tra le persone, ma è anche quello che denuncia il carattere occultante – una volta si sarebbe detto ideologico, sovrastrutturale  – della sovranità. La sovranità occulta la verità del potere. Crea un feticcio che copre la realtà dei poteri reali che si iscrivono direttamente sui corpi delle persone (vedi alla voce: biopolitica).

Quali, però, le conseguenze di questa anatomia del potere? La scomparsa pura e semplice del tema della democrazia politica.

Si potrebbe aggiungere: vale per Foucault, ma vale per larga parte del pensiero radicale contemporaneo, che trova ormai solo di impaccio il dovere di dichiararsi democratici. Con la scusa della democrazia, si vuole dire, ci costringono a mandar giù di tutto.

Sta qui una linea precisa di demarcazione: tra chi, sulla scorta di Nietzsche, giudica lo Stato sovrano il più gelido dei mostri, e festeggia la sua fine, e chi invece ne considera la crisi con preoccupazione. De Giovanni si mette fra questi ultimi.

E anzi della sovranità fa l’elogio, non perché guardi alla sua figura nichilistica, legata alla sua stagione primo-novecentesca (il riferimento è ancora a Schmitt, ma pure all’integrale positivizzazione del diritto di Hans Kelsen, altra faccia della stessa medaglia), ma perché ne apprezza l’opera di mediazione, l’apertura, nel suo seno, di uno spazio costituzionale di diritti.

A Marramao che gli chiede se gli Stati nazionali sovrani non siano inadeguati, dinanzi allegrandi questioni globali del nostro tempo, in un’epoca in cui l’ordine del mondo si regge su grandi Stati continentali o sub-continentali, mentre l’Europa arranca e rischia anzi di indietreggiare – De Giovanni replica in termini problematici: «Le costituzioni nazionali stabilivano un rapporto stretto fra demos e cittadinanza. Il costituzionalismo multilivello europeo contiene solo la dimensione  della cittadinanza». È evidente che non basta. E però un popolo non lo si inventa. Come si viene fuori, allora, da questo impasse? Come reagirà l’Unione Europea all’«indurimento della globalizzazione» – che poi significa la fine dell’illusione che, fatta l’unione monetaria, il resto sarebbe venuto da sé? Sono domande aperte. Ma è già tanto che vengano poste, e non si festeggi l’incapacità di esprimere un’unità politica come l’alba della liberazione, quando rischia di essere al contrario l’inizio di un’epoca confusa, aspra, turbolenta.

(Il Mattino, 22 gennaio 2016)

I delusi dal voto che sognano la politica semplice

Immagine3La delusione che Biagio De Giovanni ha espresso ieri sulle pagine del Corriere del Mezzogiorno è qualcosa di più di un sentimento personale. Cade peraltro nello stesso giorno in cui Raffaele Cantone dichiara che andrà al voto, ma – aggiunge – «non sarà un piacere»: la delusione, dunque, in certo modo riguarda anche lui. Ma delusi per chi o per cosa? Nel caso di De Giovanni, il motivo di delusione è Renzi. Che a livello nazionale lascia sperare in una politica davvero rinnovata, mentre a livello locale, «nelle periferie dell’impero, torna a macinare nei vecchi mulini». Il vecchio mulino da macina è, nella circostanza, il sindaco di Salerno De Luca, che Matteo Renzi, da segretario del Pd, non ha rinunciato a sostenere nella campagna elettorale in corso.

Ora, non c’è riga del filosofo De Giovanni – dico nei suoi libri, non solo nei suoi articoli – che non dia modo di ricavare una severa (e alta, mai cinica o meschina) lezione di realismo: perché dunque questa volta si mette nei panni più volubili di un filosofo «con la testa fra le nuvole», quando invece l’ha sempre tenuta ben dentro i tornanti della storia, secondo la lezione dei suoi maggiori, di Vico o di Hegel? Perché, spiega, una forte discontinuità era da augurarsi anche in Campania: non per semplice ingenuità, ma per necessità politica. La regione, infatti, ha più che mai bisogno di energie nuove, fresche, e invece si ritrova con volti vecchi e, qualche volta, impresentabili.

C’è del vero, naturalmente, in questo argomento. Il Mezzogiorno ha un problema di classe dirigente che non ha sin qui saputo risolvere, e che si ripropone anche in queste elezioni: per esempio, nella formazione delle liste. Ma c’è anche, nella delusione di De Giovanni, una lampante sottovalutazione del dato di fondo di questa tornata elettorale: al confronto vanno non due vecchi leoni della politica locale ma due esperienze amministrative, e su queste è richiesto il giudizio degli elettori. Caldoro chiede di essere confermato alla guida della regione in nome del risanamento dei conti, e del disastro sui rifiuti su cui si infranse la precedente stagione di governo del centrosinistra. De Luca, invece, porta con sé gli anni trascorsi alla guida di Salerno, più di venti, come prova delle sue capacità di amministratore: è poco? È molto? Vedremo. Ma c’è un pizzico di vaghezza nell’immaginare che lo schema renziano della rottamazione, con tutto l’afflato per il nuovo che comporta, possa essere replicato tal quale a Palazzo Santa Lucia come a Palazzo Chigi, indipendentemente dai percorsi politici territoriali, dal contesto sociale, dalla condizione dei partiti regionali.

Renzi ha approfittato con grande scaltrezza del logoramento di una generazione intera di dirigenti democratici, già sperimentatisi al governo, e sostanzialmente bocciati nel voto elettorale del 2013. Invece, né De Luca né Caldoro hanno ancora subito un giudizio simile. Anzi: entrambi rivendicano per sé stessi un successo. Naturalmente si può dare un giudizio negativo sulle loro prove: si può imputare a Caldoro incapacità di produrre idee, visioni per lo sviluppo della regione, e non solo una manutenzione prudente dei conti pubblici. E, allo stesso modo, si può apprezzare poco il tratto decisamente sbrigativo di De Luca, e riconoscervi solo l’antico vizio notabilare della politica meridionale. Ma nell’uno e nell’altro caso bisogna comunque passare attraverso la fisiologia dei processi politici democratici – la loro maturazione, l’aprirsi e l’esaurirsi dei loro cicli – e non pretendere di sostituire ad essi un astratto dover essere, e il rimpianto per quel che doveva essere e, purtroppo, non è stato.

C’è di più: a Napoli i principali partiti politici nazionali sono già franati una volta: nel 2011, quando Luigi De Magistris vinse le elezioni municipali approfittando del naufragio delle primarie democratiche e dell’impreparazione del centrodestra. La rottura, dunque, c’è stata, la rottamazione pure: quale bilancio però ne dobbiamo trarre? Ieri il sindaco di Napoli esultava alla notizia del voto spagnolo per Podemos: ecco altri che finalmente hanno scassato, proprio come lui. E però De Magistris è al governo ormai da quattro anni: forse dovrebbe trovarsi un’altra parte in commedia.

Ma forse, più in generale e più realisticamente, la politica non è palingenesi, ma una costruzione molto più faticosa e contraddittoria di quanto ci si possa augurare. E neanche a un leader come Renzi può riuscire di semplificarla del tutto. O di distribuire tutte le carte e giocare tutte le partite: qualcuna toccherà pure ai cittadini elettori, di giocarla.

(Il Mattino – ed. Napoli, 27 maggio 2015)