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Welby cinque anni dopo

Non è giusto. O è giusto così. Dinanzi alla morte di una persona cara, nessuno è in grado di rimanere così impassibile da non chiedersi se sia giusto che debba morire. Morire così. Morire ora. Anche quando ci rassegniamo, per esempio per l’età avanzata, non sentiamo meno il bisogno di elevare il processo naturale del morire nella sfera dello spirito, che è, in un senso minimale, ciò per cui nel morire ne va del senso del vivere e dell’aver vissuto.

Non è giusto, oppure è giusto così. Ma la giustizia, qui, non è l’obbligo contratto innanzi a una legge, umana o divina, bensì la misura della comune appartenenza all’umanità e al senso, che si compie assegnando alla cultura (all’elaborazione dell’uomo) ciò che altrimenti apparterrebbe solo alla natura. Così la nascita, così la morte, così tutti i fenomeni di passaggio, gli attraversamenti di soglie, i transiti al confine. Perciò non è giusto che moriamo: non lo è in assoluto, non già solo in rapporto a questa o a quella morte, poiché il mero morire naturale non ci appartiene in quanto uomini. E perciò è giusto che noi moriamo, quando è resa giustizia (onore, rispetto, sepoltura) a chi muore, e all’umanità che muore con lui. Un tratto che però caratterizza la «seconda modernità» che noi viviamo è l’ampliamento delle scelte a nostra disposizione: scelte trasferite dapprima dall’ambito naturale a quello istituzionale, poi da quello istituzionale a quello individuale. Un processo che sociologi e filosofi presentano spesso come una perdita di sostanzialità, perché pone su esili spalle, quelle del singolo individuo, decisioni che investono l’orizzonte più grande del vivere e del morire. Non si muore quasi più, ma ogni volta, in luogo del «si» muore, si compie così un «io muoio» o un «tu muori».

Più difficile è dunque trovare la misura, la giustizia. Dopo i casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, il Parlamento italiano ha ritenuto di averla trovata. Piergiorgio Welby è morto, giusto cinque anni fa, avendo ottenuto, al termine di una lunga, lucidissima battaglia, che fosse staccato il respiratore che lo teneva artificialmente in vita. Eluana Englaro è morta dopo che il padre, al termine di una battaglia altrettanto lunga, ebbe ottenuto, grazie a un tribunale, l’interruzione dell’alimentazione artificiale, conformemente alla supposta volontà della figlia. I due casi hanno scosso profondamente le coscienze, mostrando quale viluppo di azioni e di decisioni vi sia oggi dove prima c’era un semplice accadimento naturale. E hanno anche portato il Parlamento a legiferare, con un accanimento pari a quello terapeutico, sul cosiddetto testamento biologico. L’obiettivo: porre limiti stretti tanto alla libertà del malato quanto a quella del medico. In questo

modo, però, soglie sottilissime, che devono ancora trovare una stabile configurazione di senso intorno a un letto d’ospedale o al capezzale di un malato, sono state disegnate d’autorità, fissate rigidamente in una disposizione di legge.

Ma la soglia è, soprattutto, un’esperienza, come il primo bacio, come un esame di maturità o come il primo giorno di lavoro: chi vorrebbe mai disciplinare per legge i passi da compiere per affrontare l’ingresso nel mondo adulto, prepararsi alle peripezie dell’amore o

agli affanni della vita professionale? Perché sottrarre al singolo uomo il più antico e più arduo compito, quello di cimentarsi con le prove dell’inizio e della fine? In uno Stato democratico, una legge si fa per proteggere i deboli dai forti, non già per assicurare ai forti un potere di controllo o di disciplinamento sui deboli. Ciò che valeva per gli antichi sovrani, detentori del potere di vita o di morte sui sudditi, non può valere per i cittadini.

A cinque anni di distanza dal caso Welby, ci si può dunque chiedere, «sine ira ac studio», perché quella legge. E soprattutto se non sia l’umanità dell’uomo garanzia più solida di giustizia che non l’impero della legge, in casi estremi come quelli che riguardano il vivere e il morire. Senza dogmatismi, senza sicumere, disposti a riflettere e, se del caso, a cambiare. A utilizzare lo strumento legislativo, se è per difendere e non per coartare, o a accantonarlo, se è per dare responsabilità e non puro arbitrio.

L’unità 21 dicembre 2011

Tra scelta di Stato e nuovi casi Englaro

Caro direttore, con l’approvazione della Camera dei Deputati, la legge sulle direttive anticipate (legge sul testamento biologico) compie un passo decisivo in vista dell’approvazione finale. Ti chiedo ospitalità nel dibattito in cui provo a sostenere le ragioni di un laico. Nella legislazione italiana, è invalso da tempo il principio del consenso informato, al quale il testo stesso della legge si richiama (con qualche ipocrisia) fin nel nome. Il principio vuole in generale assicurarmi adeguata informazione, per consentirmi di decidere liberamente se prestare o meno il mio assenso ai trattamenti sanitari che mi vengono proposti. Nelle condizioni terminali, in cui non fossi più in condizione di manifestare la mia volontà, è ovviamente necessario, per esprimerla, formularla in direttive anticipate (raccolte in una dichiarazione, debitamente predisposta). Il fatto che siano anticipate è, dunque, inevitabile: far leva su ciò per sottrarmi le decisioni circa le cure da prestarmi è, dunque, del tutto pretestuoso.

Ora, si può discutere sulle forme più o meno rigide di questa dichiarazione, si può richiedere ogni genere di garanzia in merito, ma nulla dovrebbe essere fatto per aggirare il principio secondo il quale tocca a me decidere se sottopormi o meno a trattamento sanitario. Aggirarlo significa avallare un altro principio, assai poco liberale, secondo il quale c’è qualcun altro che più di me può sapere cosa deve essere fatto a me. Prego chiunque di considerare quanto sia pericolosa un’idea simile, rispetto alla tutela della mia libertà. Il ddl Calabrò incastona invece le direttive anticipate tra paletti che di fatto svuotano quasi del tutto il consenso. In primo luogo, la legge afferma con forza il principio dell’indisponibilità della vita. In secondo luogo, derubrica alimentazione e idratazione artificiale a forme di sostegno vitale, come se non fossero trattamenti sanitari. Ora, quanto a quest’ultimo punto, sarebbe sensato ritenere trattamento sanitario una qualunque pratica la quale richieda l’intervento di personale medico e paramedico; sarebbe sensato distinguere tra sondini di alimentazione e biberon; sarebbe sensato evitare di ricorrere a parole come natura”, o “naturale”, visto il contrasto semantico stridente fra sostegno “vitale” da una parte e alimentazione “artificiale” dall’altra; sarebbe sensato, insomma, stare ai fatti ed evitare di cambiare il significato delle parole per aggirare principi scritti in Costituzione. Ma se anche tutto ciò non bastasse a definire sanitario il trattamento di nutrizione e idratazione, sarebbe da spiegare comunque perché un simile trattamento non sanitario ma vitale dovrebbe poter esserci imposto contro la nostra espressa volontà. E qui interviene l’altro principio, quello dell’indisponibilità della vita. La ragione ultima starebbe nel fatto che la vita, la mia vita, è un bene indisponibile perfino a me stesso. Sicché, come non posso suicidarmi, così non posso – o la legge non può consentire che io possa – decidere di non nutrirmi (ma forse, per coerenza, neppure mangiare Nutella essendo diabetico). Di solito, i laici che contestano l’argomento protestano per il fatto che con esso si introduce nella legislazione di uno Stato la credenza, religiosamente ispirata, secondo la quale la mia vita, come ogni vita, appartiene a Dio. Ma non è affatto l’origine religiosa della credenza il problema. Il problema è piuttosto che, in ossequio al principio dell’indisponibilità della vita, si sottrae a me la possibilità di decidere cosa fare in certe situazioni, per metterla nella disponibilità non di Dio ma di altri. Non sarà di Sacconi o di Cicchitto, come dice polemicamente Bersani, ma in ogni caso di qualcun altro non scelto da me. Ora, chi scrive non è così liberale da escludere che si diano situazioni in cui la libertà personale può essere limitata – e non semplicemente dalla libertà altrui, come recita la formula la più liberale di tutte. Possono forse esserci altri, gravi interessi: la sopravvivenza dello Stato, ad esempio, o principi altrettanto fondamentali di uguaglianza sociale. Ma come si fa a ritenere che la società o lo Stato o non so cos’altro sarebbero in pericolo se decidessi di voler morire nel mio letto, se io volessi dire basta a tubi e sondini e respiratori? Come si fa a non vedere il volto non solo illiberale ma poco umano (stavo per scrivere: disumano) di uno Stato che ti lega alla tua condizione di malato oltre i tuoi limiti di sopportabilità? Io capisco la prudenza. Sarei pronto a chiedere ogni genere di verifica della volontà espressa e ogni supplemento di informazione circa quel che si può o non si può fare, mi si vuole o non mi si vuole fare, ma chiedo allo Stato non di impormi questo o quello, bensì di provare a convincermi: coi suoi medici e i suoi ufficiali. Nel tempo che vuole. Lo capisco, lo accetto. Dopodiché, però, se non mi avrà convinto, io chiedo che mi lasci andare: sono sicuro che così ci saluteremo con molta più serenità. (Il Mattino)