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Theresa e il rigore fallito a porta vuota

 

manuale del gol

Un disastro, secondo il Financial Times: Theresa May ha sbagliato un rigore a porta vuota. Ha voluto le elezioni anticipate per rafforzare la sua maggioranza e guidare la Brexit forte di un più chiaro e netto mandato politico. Ha scelto il momento che le sembrava più opportuno, quando i sondaggi davano i conservatori in vantaggio di circa venti punti sui laburisti di Jeremy Corbyn e ha lanciato la sua sfida. Ma con il passare delle settimane il distacco si è progressivamente ridotto e ieri sera, nelle urne, la May non ha raccolto alcun plebiscito a sua favore. Nessuna larga vittoria, e dunque nessun consolidamento della sua leadership. Dato l’alto numero di collegi in bilico, bisognerà aspettare i risultati ufficiali, per sapere se davvero i Tory non avranno la maggioranza assoluta e se dunque la formazione del governo sarà possibile – se sarà possibile – solo grazie ad accordi con forze minori (anzitutto i minuscoli partiti unionisti dell’Irlanda del Nord, visto che, stando alle proiezioni, agli indipendentisti dell’Ukip non dovrebbero andare seggi, mentre non è affatto semplice trovare un accordo con la quindicina di deputati liberal-democratici). Di certo, però, anche Theresa May ha avuto la sua non-vittoria.

Tutt’altra musica in casa laburista. Jeremy Corbyn è stato eletto nello scetticismo delle componenti blairiane e centriste del partito, persuase che con un leader con una piattaforma così sbilanciata a sinistra la vittoria non avrebbe più arriso al Labour Party. E in effetti, stando agli exit poll, i laburisti sono ben lontani dalla maggioranza assoluta. Ma Corbyn ha ridotto di parecchio le distanze dai tories, e soprattutto è andato meglio del predecessore Ed Miliband. Tra ali di giovanilissimo entusiasmo, il leader dalla barba brizzolata e dalle maniche rimboccate ha proposto una piattaforma programmatica fatta di massicci investimenti pubblici in sanità e trasporti, tassazione pesantemente progressiva dei redditi a scapito dei ceti medio-alti, lotta alla precarietà del lavoro; abolizione delle tasse universitarie, nazionalizzazione delle ferrovie. Corbyn ha saputo così ricostruire un rapporto con i ceti popolari, spaventati dalla immigrazione ma anche stufi delle politiche di austerity, dei tagli alla spesa e della riduzione dei servizi pubblici.

Populismo della più bella marca? Può darsi. Ma se il partito laburista ha virato a sinistra è anche perché le aperture al centro del New Labour, negli anni del blairismo, hanno molto meno senso quando lo spazio politico del centro si riduce, le diseguaglianze aumentano e invece diminuisce l’indice di fiducia (e la stessa consistenza) delle classi medie. Che è quello che sta accadendo oggi, in Gran Bretagna e non solo.

Un paio di ulteriori elementi hanno sicuramente pesato sul voto. Il primo è la minaccia terroristica. Nonostante i toni duri assunti dopo gli attentati degli ultimi giorni, ha pesato sull’immagine della May la riduzione delle forze di polizia, decisa per ragioni di bilancio quando era al Ministero dell’Interno. Un errore che Corbyn non ha mancato di sottolineare durante la campagna elettorale, e che ha reso molto meno credibile il profilo decisionistico della premier.

L’altro elemento è la linea da tenere nei prossimi mesi nelle trattative con l’Unione europea. È evidente infatti che vi saranno riflessi anche nei rapporti con gli altri Paesi europei. La May ha usato parole molto ferme, in queste settimane: è, del resto, sull’onda di un risultato che sorprese l’allora premier conservatore Cameron che si è consumato il passaggio di consegne fra i due. Nelle urne, però, questa posizione non ha pagato. Ne è una riprova il deludente risultato dell’UKIP, in verità in crisi di leadership, che a quanto pare non riuscirebbe a portare a Westminster un solo parlamentare. Il Labour ha invece tenuto sulla Brexit una linea molto più morbida, che ha avuto grandi riscontri soprattutto tra le giovani generazioni, preoccupate da una prospettiva marcatamente isolazionista. La distanza così ridotta fra i primi due partiti rende in definitiva molto più incerto il percorso che il Regno Unito seguirà nel confronto con Bruxelles.

E così la May si troverà a gestire, con tutta probabilità, un esito molto lontano dalle sue iniziali aspettative. È presto per dire se esso avrà conseguenze sul suo stesso destino politico. Certo è che in Parlamento e nel partito Theresa May non avrà d’ora innanzi vita facile. Se i risultati finali non consegneranno ai conservatori una maggioranza chiara, lasciando il Paese sul filo del rasoio (tutto il contrario di quel che si ripete guardando con ammirazione un po’ ingenua quei sistemi politici ed elettorali che garantirebbero maggioranza e governo un minuto dopo la chiusura dei seggi: non è così), la dialettica politica non potrà che accendersi, e non è escluso che anche Londra dovrà misurarsi, nel prossimo futuro, con scenari accompagnati da una accentuata incertezza.

(Il Mattino, 9 giugno 2017)

Labour rivitalizzati. L’impresa di Corbyn

blair foot

È come aver trovato un vecchio disco in vinile, averlo messo su un giradischi d’antan e avere all’improvviso scoperto che tutta la musica ascoltata negli ultimi vent’anni su cd e mp3 è semplicemente da buttare. Così appare agli entusiasti sostenitori del Labour Jeremy Corbyn, il leader che ha preso in mano nel 2015 il partito che fu di Tony Blair, nel 2015, per lanciare la sfida di un laburista d’altri tempi alla premier Theresa May, in cerca di una vittoria che sarebbe tanto imprevista quanto clamorosa.

In realtà, tra Blair e Corbyn ci sono stati prima Gordon Brown e poi Ed Miliband. E quando quest’ultimo perse le elezioni, tutto ci si aspettava meno che la vittoria di

dell’outsider Corbyn alle primarie del partito. Vecchio deputato – in Parlamento dall’inizio degli anni Ottanta – su posizioni perennemente di minoranza, pacifiste e socialisteggianti, Corbyn ha invece conquistato il Labour tra ali di giovanilissimo entusiasmo, spostandolo parecchio a sinistra: massicci investimenti pubblici in sanità e trasporti, tassazione pesantemente progressiva dei redditi a scapito dei ceti medio-alti, lotta alla precarietà del lavoro; abolizione delle tasse universitarie, nazionalizzazione delle ferrovie. Rispetto ai programmi socialisti e socialdemocratici di una volta qualche differenza però c’è, e attiene al contesto europeo e internazionale in cui si situa oggi il Regno Unito del dopo Brexit. Perché un conto è muoversi in una fase espansiva, di crescita dell’economia nazionale e internazionale, un altro è proporsi di attuare un programma del genere con la formula, di sovietica memoria, del socialismo in un paese solo. La ritrovata sovranità del Paese (che peraltro nell’Unione europea già godeva, prima del referendum dello scorso anno, di condizioni di particolare favore) è diventata intanto la retorica dominante non solo del partito conservatore, che molla i valori di apertura del liberalismo in nome della sicurezza e di un ritrovato orgoglio nazionale, ma anche dei socialisti in cerca di un rinnovato rapporto con i ceti popolari spaventati dalla immigrazione e stufi delle politiche di austerity, dei tagli alla spesa e della riduzione dei servizi pubblici.

Populismo della più bella marca? Può darsi. Ma se il partito laburista ha virato a sinistra è anche perché le aperture al centro del New Labour, negli anni del blairismo, hanno molto meno senso quando lo spazio politico del centro si riduce, le diseguaglianze aumentano e invece diminuisce l’indice di fiducia (e la stessa consistenza) delle classi medie. Che è quello che sta accadendo oggi, in Gran Bretagna e non solo.

Così Corbyn, col suo ritorno allo Stato e al welfare, forse non vincerà ma intanto convince. O meglio: fra i suoi, cioè nelle primarie per la leadership del Labour party, vince non una ma due volte: nel 2015 e poi di nuovo nel 2016. E lievita il numero degli iscritti al partito. Nonostante i gruppi parlamentari contrari, nonostante Tony Blair (o magari proprio grazie alla sua avversione, visto il discredito in cui in patria è caduto fra gli elettori di sinistra per via delle bugie sulla guerra in Iraq), nonostante lo scetticismo dei grandi giornali, nonostante i sondaggi che gli riconoscono una bassa credibilità come Primo Ministro: nonostante tutto Corbyn si è preso il partito.

Dopodiché le cose di sinistra che ha cominciato a dire hanno fatto breccia, soprattutto nell’elettorato giovanile (con un consenso che presso le giovani generazioni ha viaggiato intorno al 70%). In piazza e nei comizi il vecchio Jeremy, barba brizzolata e maniche rimboccate, ha funzionato alla grande, anche se ingessato dentro l’etichetta ufficiale del Regno, tra un cappellino della Regina Elisabetta e un the a Downing Street, solo in pochi riescono ad immaginarlo.

Questa poi è la ragione per cui Corbyn ha dovuto vincere scetticismi e diffidenze. Che lo si vota a fare un leader che rassicura la propria base sociale di riferimento, ma ha nulle o quasi nulle possibilità di conquistare la maggioranza del Paese?

I critici malevoli hanno perciò paragonato Jeremy Corbyn a Michael Foot. Foot fu un leader molto popolare del partito laburista, che ebbe però la sventura di scontrarsi alle elezioni contro la Lady di Ferro, Margaret Thatcher. E di perdere rovinosamente. Molto amato, molto stimato, Foot aveva grandi capacità oratorie e un profilo morale indiscutibile. Ma parlava solo agli iscritti e ai simpatizzanti tradizionali del partito, senza riuscire a rimescolare almeno un po’ le carte. Ora è vero: Corbyn ha un profilo politico assai simile, ma soprattutto riesce a dare una visione forte dei compiti e degli obiettivi di un partito di sinistra, dopo anni da tutti trascorsi a spiegare che le ideologie sono finite. Invece no. E lui, che sembrava finito ai margini della politica, ha invece potuto conquistare a sorpresa il centro della scena. Un gran risultato, anche se alla fine gli applausi dovessero toccare alla nuova signora della politica britannica.

(Il Mattino, 9 giugno 2017)

Il lungo tormento dei post-Pci e la fine del sogno democrat

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«Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi, e con certe guise», così diceva Vico nella Scienza Nuova: se vuoi sapere qual è la natura di una cosa, guarda com’è nata. Ora, il partito democratico è stato fondato nell’ottobre del 2007, sotto il secondo e periclitante governo Prodi, di cui ha probabilmente accelerato la caduta. L’anno successivo, sotto la guida di Veltroni, si è presentato alle elezioni e le ha perse. Quest’anno si è invece presentato sotto la guida di Bersani, e le ha «non vinte». Tra l’uno e l’altro, è stato retto per meno di un anno anche da Dario Franceschini, nel 2009. È partito con il 33,1 di Veltroni, è arrivato con il 25,4 di Bersani. La sua storia è tutta qui, in queste poche righe. E non è detto che continuerà ancora.

Ma per descriverne la natura occorre guardare più indietro. È sempre Vico che insegna: «le origini delle cose tutte debbono per natura esser rozze», e voleva dire: spurie, apocrife e mescolate. Così è stato per il Pd. Dietro il partito democratico c’è stato infatti il tentativo di irrobustire la creatura politica che, negli anni Novanta, aveva consentito alla sinistra ex-comunista, già transitata attraverso il Pds e i Ds, di andare al governo: non da solo, ma insieme con la sinistra democristiana, che nel frattempo aveva dato vita prima al partito popolare, poi alla Margherita, con la confluenza di piccole componenti liberal-democratiche. Un «amalgama mal riuscito», disse una volta D’Alema, e alla luce di com’è andata, è difficile dargli torto.

È vero però che le culture politiche che avevano fatto la prima Repubblica dovevano comunque provare a rimescolarsi e innovarsi, dopo le tre profonde fratture che avevano terremotato il sistema politico italiano: la caduta del Muro, l’inchiesta Mani Pulite e l’uscita della lira dallo SME (è infatti dai tempi della rivoluzione francese che crisi finanziarie e crisi politiche vanno a braccetto). Il primo frutto del rimescolamento è stato l’Ulivo, nel ’96; il secondo, l’Unione, nel 2006; il terzo, il Pd. Il terzo doveva rappresentare il coronamento di un progetto politico lungo un decennio: rischia invece di esserne la fine. Perché non si sono mai veramente ricomposti due opposti progetti: quello di chi spingeva per accelerare la trasformazione delle culture politiche di origine, e quello di chi invece cercava di preservarne le caratteristiche distintive. Col Pd, ha prevalso il primo progetto, senza che però le tensioni fossero veramente risolte. La drammatica crisi di queste ore le ha di nuovo portate in superficie.

Se però si guarda dentro il fitto scambio di accuse, veleni e sospetti di queste ore, si trova qualcosa di più di un confronto tra ex-comunisti ed ex-democristiani. Si trovano due idee diverse di riforma della politica e della società. Il guaio è che anche queste faticano ad amalgamarsi. Una è nata negli anni Novanta, quando la sinistra europea cercava una «terza via» tra la socialdemocrazia del passato e la vulgata liberista del presente. Un libro di Anthony Giddens, consigliere di Tony Blair, dice forse più cose del suo stesso contenuto: «Oltre la destra e la sinistra». Il fatto è che, senza mai veramente imboccarla, il Pd ha cercato comunque di proseguire per questa via, anche quando nel resto d’Europa veniva abbandonata, o almeno fortemente riconsiderata. Non perché dovevano tornare con forza la nostalgia di una sinistra fortemente identitaria e refrattaria al cambiamento, ma perché nel fuoco della crisi le sue risposte sono apparse subalterne alla ricette monetariste su cui è stata costruita l’Europa dell’euro.

E siamo alle vicende degli ultimi mesi: la segreteria Bersani ha provato a sterzare e prendere un’altra via, ma lo ha fatto mentre nel frattempo il vento del «cambiamento» così speso evocato aveva incrinato seriamente gli altri elementi intorno a cui soltanto può costruirsi un partito, e cioè l’organizzazione e il gruppo dirigente. Finiti sotto accusa delle virulente campagne anti-casta, all’ombra delle quali è esploso il fenomeno Grillo, non c’era più una cultura politica condivisa che facesse da scudo alle campagna moralizzatrici (e spesso semplicemente denigratrici). E, purtroppo, nessun partito può sopravvivere quando i suoi stessi iscritti, militanti e simpatizzanti finiscono col non nutrire più né fiducia né stima per la propria memoria storica e per gli uomini che la rappresentano. Le lacrime di ieri di Bersani, a cui va l’onore delle armi, mostrano che il compito di ristabilire una «connessione sentimentale» coi propri elettori e con il paese è ormai affare di una nuova generazione. Con o senza il Pd.

Il Mattino e Il Messaggero, 21 aprile 2013