La presa di distanza del Presidente del Consiglio dal documento di «blindatura» del governo preparato dal fedelissimo Francesco Boccia si può tradurre anche così: nel variopinto gioco dell’oca in cui il partito democratico è impegnato da diverse settimane, in vista del congresso, il presidente della commissione Bilancio, onorevole Francesco Boccia, deve tornare alla casella di partenza. La via da percorrere è ancora lunga, e, a quanto pare, disseminata di piccole trappole e sottilissimi tranelli (finché qualcuno non fa saltare per aria l’intero tabellone). Boccia ci ha provato, ma le perplessità hanno di gran lunga superato le adesioni, e così Letta ha tolto il documento dal tavolo.
Ma la chiave di lettura del florilegio di dichiarazioni che ha spinto ai margini del gioco l’iniziativa dello zelante Boccia va cercata in una parola del vocabolario psicanalitico: denegazione. Che è sì una negazione, ma è una negazione che afferma. La negazione serve anzi proprio per far affiorare nel dibattito pubblico il contenuto proibito, che altrimenti, senza la clausola negativa, non potrebbe essere affermato. Così, con Napolitano nella veste del censore superegoico, sullo scacchiere del Pd trapelano le pulsioni non apertamente confessabili dei suoi protagonisti. Renzi vuole andare al governo, e non vuole più aspettare. Ma i renziani possono dirlo solo in forma «denegativa»: essi «non» vogliono la caduta di Letta. Grazie alla negazione, il contenuto libidico, però, tracima. Dopodiché a Renzi non è ancora venuto il tiro che manda a casa Letta e consente a lui di raggiungere l’obiettivo, ma è chiaro che ben difficilmente accetterà di saltare un turno. I renziani si muovono così, in vista del congresso, allo scopo di incrinare tutto quello che può cristallizzare la situazione politica per un paio di anni, fino all’obiettivo 2015, che rappresenta invece la meta indicata da Letta ufficialmente, fin dal suo insediamento.
Altrove serpeggiano preoccupazioni dissimili, ma che possono essere sottoposte allo stesso trattamento analitico. Quando il più autorevole candidato alla segreteria del Pd, di provenienza diessina, Gianni Cuperlo, dichiara che, sia o no il Pd un partito di sinistra, quel che è certo è che senza sinistra un partito democratico non c’è e non ci può essere, indica un’altra linea di confronto: come si scomporranno e ricomporranno le tradizioni politiche e culturali che han dato vita al Pd? Sono definitivamente rinsecchite o hanno ancora linfa vitale? Buona domanda. Ma applicate ora la regoletta di prima, togliete il «non» e rileggete: le parole di Cuperlo danno forma a un’inquietudine inedita, che cioè il Pd possa effettivamente avviarsi ad essere un partito senza più una traccia riconoscibile di sinistra. Il che sarebbe peraltro un paradosso, anzi il compimento del paradosso italiano (dopo l’anomalia berlusconiana, sulla destra dello schieramento): la costruzione di un bipolarismo che non si avvicini, ma anzi si allontani il più possibile dalla modalità del confronto politico europeo, che vede di regola confrontarsi partiti socialisti e partiti popolari. Eppure, dentro il corpo del partito democratico una pulsione del genere si avverte. E, come nel caso dell’ambizione di Renzi, così anche in questo caso di mezzo, volente o nolente, c’è il governo: chi infatti, soprattutto tra gli ex-margheritini del Pd, coltiva il desiderio di sbarazzarsi definitivamente di quel che resta della sinistra italiana, fa il tifo per un confronto Letta-Renzi per la leadership del partito che difficilmente lascerebbe immutato il quadro politico attuale.
Accanto alle due principali linee di frattura – quella che passa intorno alla selezione della leadership e quella che investe la cultura politica del partito democratico – altre microfratture rendono complicato lo spostamento delle pedine sullo scacchiere del Pd. A cominciare dall’araba fenice della riforma elettorale: che si faccia ognun lo dice, come far nessun lo sa. Ma è chiaro che, in qualunque direzione si vada, per semplici ritocchi o per organiche revisioni dell’attuale porcellum, una nuova legge elettorale disegnerà un nuovo scenario politico.
E non finisce qui. Perché nel Pd c’è ancora chi, nonostante il deludente esito elettorale (e la pessima figura nell’elezione del presidente della Repubblica), non vuol saltare un giro, e anzi volentieri ripeterebbe la partita di febbraio. E c’è chi, invece, vuole lanciare due volte i dadi: per prendersi in un colpo solo il partito ed il governo. Anche queste diverse ambizioni difficilmente saranno contenute entro gli attuali equilibri.
Per cui, da qualunque parte si guardi l’avvicinarsi del congresso democratico, non si può non registrare l’accumularsi di tensioni, e il governo come un muro di contenimento solcato da piccole crepe che minacciano di allargarsi. Forse, se la situazione non precipita, è perché nessuno ha ancora il coraggio, forza o anche solo la visione di quel che potrà esserci oltre quel muro.
(Il Mattino, 20 agosto 2013)