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Il prezzo alto di una strategia all’attacco

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La giornata politica ha regalato tre fatti di grande rilievo: primo, l’approvazione definitiva della nuova legge elettorale; secondo, la decisione del presidente del Senato Piero Grasso di lasciare il gruppo del partito democratico; terzo, l’indicazione, da parte del governo, per il secondo mandato alla guida della Banca d’Italia, del governatore uscente Ignazio Visco, nonostante il diverso avviso del Pd. I primi due fatti sono collegati fra di loro, perché Grasso ha solo atteso che si concludesse l’iter di approvazione del Rosatellum prima di compiere una scelta già maturata nei mesi scorsi; il terzo no, ma ha comunque un denominatore comune, perché chiama in causa la linea politica con la quale Renzi ha scelto di andare alle prossime elezioni. Dopo la giornata di ieri, infatti, è facile misurare la distanza del segretario del partito democratico dai massimi vertici istituzionali del Paese: i presidenti delle due Camere, Grasso e Boldrini, non si candideranno (se si candideranno) nelle file del principale partito di maggioranza: salvo errori, non era mai accaduto che una legislatura si concludesse con un esito del genere. Con la sortita su Bankitalia, si è prodotta una certa freddezza fra Renzi e il Quirinale, che di sicuro non ha gradito la mozione parlamentare su Visco presentata dal Pd; e ora che Gentiloni è andato dritto per la sua strada, anche con il presidente del Consiglio l’allineamento non è perfetto. Ovviamente non mancano le attestazioni di stima reciproca, né, a quanto pare, sono in discussione i rapporti personali, però se il sistema bancario continuerà ad essere, nelle prossime settimane, un tema di confronto politico, oggi sappiamo che non sarà Gentiloni e l’attuale governo a interpretare la linea del partito.

Distanza dai vertici istituzionali, autonomia rispetto alle decisioni assunte dal governo: con lo schema di gioco adottato, Renzi sembra voler rinunciare all’andatura compassata che i partiti di maggioranza di solito tengono, anche in prossimità del voto, e interpretare all’attacco, e da solo sul palcoscenico, la prossima campagna elettorale, con quella forte impronta personale che è nelle corde del segretario dem. È fin troppo chiaro, infatti, che il Pd non sarà, in campagna elettorale, il partito di Renzi e Gentiloni: sarà il partito di Renzi. Così come è chiaro che i risultati da presentare a giudizio dell’elettorato non saranno i risultati dei governi Renzi e Gentiloni: saranno i risultati conseguiti nel corso della legislatura dal Pd, il cui segretario è Matteo Renzi. Una strategia del genere va messa ovviamente alla prova dei fatti (cioè delle urne), ma va intanto spiegata nei suoi termini politici. E in termini politici: non v’è alcun dubbio che sia stata la forza di Renzi a consentire la prosecuzione di una legislatura, nata sghemba e precaria, fino al suo termine naturale.  È però la stessa forza che a sinistra ha prodotto continue lacerazioni. È facile supporre che se il referendum del 4 dicembre avesse avuto un esito diverso, la diaspora sarebbe stata contenuta; dopo la sconfitta referendaria, invece, sia all’interno delle istituzioni che nel partito si sono scavati fossi, intorno a Renzi. Tuttora, però, è difficile misurare peso e proposta politica alla sinistra del Pd se non in relazione a quel che Renzi fa o non fa, a dimostrazione che se Renzi pecca per eccesso, gli altri peccano assai per difetto.

Ma in politica vale il motto del riformatore Lutero: pecca fortiter, sed crede fortius. Pecca pure fortemente, ma abbi ancora più fiducia. Per smuovere le acque e giocare di rottura, non c’era altro modo. Per portare la sinistra fuori dal suo steccato tradizionale non c’era altra strada. Così dunque si è mosso Renzi: questa era la sua scommessa nel 2014 e questa è la sua scommessa anche adesso. E come nel 2014 Renzi non ne volle sapere di fare le europee dietro a Enrico Letta presidente del Consiglio, così questa volta non eviterà certo lo scivolamento di Gentiloni in secondo piano. I rapporti sono diversi, e diverso pure il contesto e il momento politico: e infatti quel governo cadde e questo rimane in piedi. Ma uguale è l’esigenza di Renzi di giocare la partita da prima punta, tutta davanti. Se saranno uguali anche i risultati è più difficile a dirsi. Oggi la partita è molto più complicata. Se poi il voto siciliano, fra dieci giorni, dovesse sospingere il pd troppo indietro, allora si farebbe ancora più dura. Renzi ha voluto tenersi alla larga dall’isola, e infatti il suo treno non varcherà lo stretto. Ma se il Pd perde di brutto ci vorrà un attimo a leggere le regionali siciliane in chiave nazionale: quanto più si deideologizza il voto, tanto più lo si lega alle aspettative di successo o di insuccesso. E su quelle, qualunque cosa se ne vorrà dire, il risultato siciliano peserà.

(Il Mattino, 27 ottobre 2017)

Boldrini, la gaffe del no all’invito Fiat

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C’è, evidentemente, diversità di vedute tra Sergio Marchionne e Laura Boldrini. Per l’amministratore delegato della Fiat, la visita del Presidente della Camera allo stabilimento in Val di Sangro poteva però essere un’occasione per far conoscere un’importante realtà industriale: senza attenuare le divergenze del giudizio ma senza neppure opporre o vedersi opposti rifiuti di principio al dialogo e al confronto.

L’invito però è stato declinato, «per motivi istituzionali». Ma nella lettera la Presidente non risparmia nessuna delle critiche che ha inteso muovere al colosso torinese e al suo sistema di relazioni industriali. La recentissima sentenza della Corte costituzionale, favorevole alla Fiom, a cui si riconosce il diritto alla rappresentanza di fabbrica pur in assenza della firma di accordi sindacali, rende ancora più bruciante il contenuto della lettera di Laura Boldrini. Che imputa alla Fiat, neanche troppo velatamente, di cercare la via d’uscita dalla crisi in una  «gara al ribasso sui diritti». Se a questo si aggiunge che la settimana scorsa i rappresentanti della Fiom che avevano sfilato a Roma erano stati invece ricevuti dalla Boldrini, si può pervenire non troppo arbitrariamente alla conclusione che la Presidente della Camera ha scelto una sola delle parti in causa: con coerenza, forse, rispetto alla sua storia personale e alle sue convinzioni ideali, ma in maniera un po’ stridente con il ruolo super partes che da qualche mese ricopre, e che la chiama ad una rappresentanza di tutta la comunità nazionale. A meno di non pensare, infatti, che c’è un luogo, in Italia, al di fuori della legalità costituzionale, e che questo luogo è la Fiat, non c’è motivo perché la più importante industria del paese non riceva la visita del Presidente della Camera dei Deputati. E, francamente, anche chi ha voluto criticare negli ultimi anni la Fiat di Sergio Marchionne, le sue strategie di internazionalizzazione, l’atteggiamento conflittuale nei confronti dei metalmeccanici della Cgil oppure il mancato sviluppo del piano Fabbrica Italia, non credo possa spingersi fino al punto di mettere la galassia Fiat fuori della civiltà giuridica del Paese.

Tanto più che tutte le opinioni espresse dalla Boldrini nella lettera, così come la sua acuta sensibilità sociale, avrebbero potuto essere con altrettanto se non con maggiore forza rappresentate nel corso stesso della visita. Un confronto lo si fa per quello, e un invito lo si raccoglie anche, se lo si ritiene, per segnalare eventuali criticità, magari in un linguaggio franco e schietto – come si dice nel linguaggio delle diplomazie.

C’è poi un punto più generale, al quale non solo la Presidente Boldrini, ma l’Italia intera non può sottrarsi. Perché non solo il diritto al lavoro, ma ogni e qualunque garanzia giuridica costituirà pure un presidio di libertà irrinunciabile, però non esime nessuno dal domandarsi a quali condizioni quel diritto o quei diritti possano essere resi effettivi. Questa domanda interroga tutte le parti, non una soltanto, e non porla equivale ad eluderla, non certo a risolvere la questione. L’Italia è uno strano paese: perde posti di lavoro, stabilisce nuovi record di disoccupazione giovanile, e dibatte quasi esclusivamente questioni di diritto, per la gioia dei giuslavoristi di ogni specie. Nobile disciplina, non c’è dubbio: il sigillo stesso della modernità. Ma il giorno in cui si tornasse a parlare di politiche industriali, di investimenti, di quote di mercato da conquistare, di globalizzazione da sfidare e da governare, sarà comunque un gran bel giorno. Poteva essere il prossimo 9 luglio, il giorno della visita; così non sarà, ma ci auguriamo che ci sia presto una prossima volta.

Il Mattino, 5 luglio 2013

Il declino inizio’ con la cessione dell’elettronica nazionale

programma 101

«Non possiamo liquidare tutto in un esamino di storia sul digitale»: così dice Alfredo Reichlin nell’intervista che si trova al centro di Avevamo la luna, il libro bello e appassionato che Michele Mezza ha dedicato al triennio 1962-1964 (Donzelli editore). In quel giro di anni ne accaddero di cose, e la tesi di Mezza è che fu allora che il vagone dell’Italia si sganciò dal treno dell’innovazione finendo su un binario morto. Poi sono venuti i turbolenti anni Settanta e i leggeri anni Ottanta (che però piacciono tanto a Enrico Letta), fino alla caduta del Muro, a Tangentopoli e alla seconda Repubblica, ma la partita decisiva l’Italia la giocò molto prima. Perdendola. In quel triennio prese avvio l’informatizzazione delle relazioni produttive, che si sarebbe poi estesa all’intera società, e l’Italia che grazie alla Olivetti era all’avanguardia mondiale scivolò rapidamente nelle retrovie, con la vendita del ramo elettronico Olivetti agli americani della General Electric. Al di là dei contorni non chiari di quella vicenda, che il libro affronta da più lati assegnandole un valore esemplare, la tesi è che le conseguenze di quella cessione giungono purtroppo fino a noi, e spiegano il declino di questi anni. Spiegano, in particolare, la lontananza dell’Italia dai processi innovativi del capitalismo digitale. Spiegano perché, avendo dismesso l’elettronica, l’Italia si è per esempio condannata ad essere il primo paese per numero di telefonini in rapporto alla popolazione, senza però avere alcuna presenza nel campo della telefonia cellulare (continua qui)

L’Unità, 5 maggio 2013